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Ho dormito sotto le stelle in Kenya, ho vissuto con una tribù Masai a Rombo alle falde del Kilimanjaro, ho pernottato diverse settimane in un orfanotrofio a Calcutta in compagnia di due bizzarri cani, ho percorso l'India sia in treno sia in taxi con solo uno zaino e una reflex, ho disubbidito alla mamma e ho nuotato nell'Oceano dopo aver mangiato, ho bevuto latte di cocco direttamente dal frutto mentre un giovane tanzaniano lo spaccava a metà con un machete. Ho giocato a dama sulle strade di Dar es Salaam e perduto un paio di partite. Ho respirato il gelido inverno ucraino e russo e mangiato orrori gastronomici di ogni tipo. Ho respirato la vita metropolitana newyorchese e assaporato la pungente pioggerella londinese. Eppure, ancora oggi, nonostante tutto non riesco a smettere di percorrere le strade del mondo, né tantomeno di fare fotografia.
Vagabondare è stata da sempre la meta più grande, il solo e sfuggente pensiero di un futuro dietro una scrivania mi terrorizzava e, cosciente del fatto che i miei genitori avevano idee discordanti dalle mie, a me non interessava. Scelsi di investire tutto ciò che avevo nella fotografia nonché la mia passione più grande.
Non è stato facile mettersi in gioco, soprattutto per un giovane sognatore del Sud dell'Italia. Sono stato da sempre la voce fuori dal coro e il disturbatore della routine. Dalla mia infanzia sognavo mete lontane…mi perdevo davanti ai documentari del National Geographic. Sognavo l'Africa con i suoi paesaggi senza tempo, bramavo l'India dopo aver visto il film su Gandhi e desideravo vedere quella New York che in molte serie televisive ho trovato. Insomma sognavo uno zaino e andare lontano.