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La mia Etiopia


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La mia Etiopia, testo e foto by Marro. Pubblicato il 03 Aprile 2020; 4 risposte, 1436 visite.


Come detto altre volte, L'Etiopia merita tanti viaggi. Questa e' la seconda parte del racconto precedente. Sono pezzi scritti qua e là, e descrivono le nostre esperienze tra la Dancalia, I monti Siemen, e la Valle dell'Omo. Se avete pazienza e voglia sedetevi e leggete.




Il 30 luglio dopo ore di fuoristrada nel nulla siamo ai piedi del vulcano di Erta Ale. E' uno dei posti più caldi al mondo. Le minima è di 35 gradi, le massime sfiorano tranquillamente i 50. Mangiamo qualcosa in un campo militare dove ci sono i soldati che ci faranno da scorta. Il confine con l'Eritrea è vicinissimo e i rapporti non sono dei migliori. La sera quando le temperature sono più clementi cominciamo a percorrere i 10 km che ci porteranno sulla cima del vulcano. Credo di non aver mai faticato tanto in vita mia. Il dislivello non è esagerato, ma il percorso, pieno di sassi, è scomodo. In più è buio, fa caldo, l'acqua è caldissima e lo zaino pesa. Sono stanco. Poco prima della mezzanotte siamo sulla cima del vulcano. Per un attimo mi riprendo: l'adrenalina è la droga più potente al mondo. Provo a fare qualche foto a quel mare di lava, poi desisto, faccio una foto ad uno dei soldati che ci ha accompagnato e scelgo semplicemente di godermi lo spettacolo.


Ci allontaniamo poi di un centinaio di metri dalla vetta per dormire per terra e all'aria aperta per non più di tre giri di lancette e quando ancora il sole non è sorto cominciamo la discesa verso il campo militare per sfruttare al massimo le ore "fresche" della giornata. Una ragazza davanti a me perde la suola delle scarpe. I cinesi continuano a dividersi il prezioso aiuto di qualche cammello. Continuo ad essere stanco, ma questa volta ho anche fame. L'acqua è sempre più calda e le gambe fanno male. Poco dopo il sole sorge e in poco tempo arriviamo al campo. Qualcuno che se rivedessi oggi nemmeno riconoscerei mi attende con un ex barattolo di fagioli pieno d'acqua e me lo rovescia sulla testa. Ho percorso più di 20 chilometri nelle ultime dodici ore. Non ho mangiato, ho dormito poco e per terra, ho bevuto acqua calda da far schifo. Credo di poter dire che sia stata la doccia migliore della mia vita. E Questo pensiero non mi stupisce. Però oggi mi viene da pensare ad un'altra cosa e mi stupisce un pò di più. Qualche volta sono stato quel barattolo. Qualche altra volta, in virtù di ciò che era stato, ho visto qualcun altro come quel barattolo. E oggi semplicemente vedo gente intorno a me che pensa ad un ex barattolo di fagioli come alla cosa migliore che potesse capitargli...


E' il 4 agosto e comincia l'ultima settimana del nostro viaggio. E' sicuramente il giorno su cui da inizio vacanza ho le maggiori preoccupazioni. La mattina si parte da Gondar per arrivare a Debark, dove ci sono gli uffici del parco dei Monti Simien. Quello che ci aspetta sono un pò di ore di trekking a 3500 metri sul livello del mare, per osservare panorami mozzafiato e animali, in particolare il babbuino gelada, 6000 in tutto, che vive solo in questo habitat. Purtroppo le mie preoccupazioni (essenzialmente sul meteo) si rivelano fondate. Camminiamo per ore tra le nebbia e la pioggia. Le temperature sono vicine ai 10 gradi e non vediamo a più di venti metri di distanza, figurarsi se vediamo stambecchi o babbuini. La sera, al rifugio, con temperature vicino allo zero consumeremo una discreta cena, provando ad asciugarci alla bene e meglio. Poi, direttamente vestiti, affondiamo nei nostri sacco a pelo sperando che l'indomani il tempo migliori. E il tempo purtroppo non migliorerà: altre ore di trekking nelle stesse condizioni. La nostra guida ci porta al punto panoramico dove in condizioni normali si vede una splendida cascata: noi riusciamo solo a sentirla. Sconsolati ci apprestiamo a fare ritorno a Gondar. Recuperiamo i nostri zaini e saliamo in macchina e ci avviamo all'uscita del parco. Poi ad un certo la macchina si ferma; il guidatore urla qualcosa. Scendiamo e siamo circondati da babbuini Gelada...




E' il 6 agosto ,siamo all'aeroporto di Gondar e non abbiamo il biglietto, per cui ci mettiamo in coda se qualcuno dovesse rinunciare. Il programma della giornata è: arrivare ad Arba Minch in serata, prendendo un volo che faccia scalo nella capitale Addis Abeba. Una volta ad Arba Minch poi, potremmo organizzare una quattro giorni nella Valle dell'Omo, famosa per le sue popolazioni tribali. Dopo un pò di attesa ci dicono che potremo volare. Per portarci avanti quindi, visto che c'è un wi-fi, cerchiamo qualche informazione su qualche tour nella valle dell'Omo. Trovo in rete un numero di cellulare e comincio a messaggiare. Was dice che è la migliore agenzia di Arba Minch, ma che, al momento, si trova nella capitale Addis Abeba. Io gli scrivo che non c'è nessun problema perchè abbiamo uno scalo di cinque ore ad Addis e quindi potremmo vederci e parlare un pò. Was propone di vederci (testuali parole) "al bar di fronte all'aeroporto quando arrivate con l'aereo". Non scrive il nome del Bar, non scrive un orario, ma quando noi arriviamo al Bar e ordiniamo, subito dopo il the arriva lui. E ha già un programma per noi, che ci limitiamo a cambiare un po' per adattarlo alle nostre esigenze. Poi comincia la lunga contrattazione che avrà esito positivo, con tanto di consegna soldi ad un tizio che potremmo non rivedere mai più. Ma in Africa funziona così e non abbiamo mai avuto problemi. Per non farvi perdere, visto che un pò mi sono perso pure io, vi sostituisco il nome delle città con città italiane collocate alla stessa distanza. Siamo all'aeroporto di Aosta senza biglietto e abbiamo un volo per Matera, base per i tour dei dintorni di Messina. Contattiamo un'agenzia di Matera, che però quel giorno casualmente sta a Roma dove noi abbiamo uno scalo. Decidiamo di incontrarci li, al bar di fronte l'aeroporto di Fiumicino. Paghiamo e saliamo sull'aereo direzione Matera, dove all'aeroporto ci aspettano con un cartello con su scritto i nostri nomi. Ed ad aspettarci ad Arba Minch ci sarà Weg, che sarà il nostro Caronte per quattro giorni intensi nella tanto controversa e tanto desiderata Valle dell'Omo.





Siamo sopravvissuti ai 50 gradi della Dancalia e ai 5 dei Monti Simien ma cominciamo a cedere, forse per un calo di tensione, in giorni apparentemente senza difficoltà. Ad Arba Minch Macca passerà buona parte della notte a vomitare. Nella polverosa Turmi, invece, io farò spesso visita al buco per terra che ci hanno raccontato come un bagno, sfidando la guardia di due asini. E' in queste occasioni che a domandare all'altro come sta ci si sente un pò in colpa, perchè si sa che il carrozzone continuerà la sua strada. Nello specifico questa strada ci porta a passare una notte in tenda presso un villaggio Hamer, non prima ovviamente di aver bevuto e ri-bevuto da una ciotola di legno una bevanda locale di cui preferiamo ignorare ingredienti e preparazione.






Da piccolo diverse volte provavo ad incastrare due pezzi che, anche se parte dello stesso disegno, non dovevano stare vicino. E credo che sia successo a tanti alle prese con quel gioco che altro non era che una bella metafora della vita. Crescendo mi è venuto da pensare che a quel gioco somigliasse tanto l'amata Africa, con i confini così regolari tra uno Stato e l'altro: tanti pezzi apparentemente tutti uguali legati tra loro da un destino comune. Poi l'idea del puzzle l'ho spostata su me e altre cose riguardanti la mia esistenza, come il viaggio per esempio.
Che poi il mio battesimo come "viaggiatore" (detto sottovoce) avvenne quasi per caso sotto lo sguardo del giovane vecchio. Lo incontrai che stava attraversando un periodo della sua vita un pò complicato. Non era il primo ma chissà perchè aveva imparato che il sorriso era sempre la risposta migliore per queste circostanze. E se ne convinse ancora di più, quando il suo sorriso incontrò quello di chi affrontava con chili di panni e sogni una strada in salita. Il giovane vecchio mi conquistò allora con quel sorriso difficile da fare e mi consolò perchè, anche se probabilmente non li avrebbe fatti mai, non vedeva nessun male in quei viaggi che mi affascinavano. Era concreto, ma sognatore. Era diverso, ma uguale. Divenne quindi una sorta di porta fortuna, un legame tra la quotidianeità e la mia voglia di conoscere. Era come un pezzo di puzzle ponte tra due pezzi diversi.
Ecco perchè l'ho sempre utilizzato nei miei racconti di viaggio. Solo che quest'anno c'è qualcosa di diverso. Un pò perchè le tessere sono tante e un pò perchè non ho la presunzione di poter restituire dopo qualche mese un quadro definitivo. D'altra parte fare finta che niente sia successo non è nelle mie corde e i miei compagni di viaggio, anche solo per tradizio', come diciamo da queste parti, non apprezzerebbero l'assenza di un "racconto" finale. Posso quindi parlare di qualche pezzo, in attesa che si unisca ad altri. Ho già scritto ultimamente che il nostro viaggio in Etiopia è iniziato veramente qualche giorno dopo rispetto all'arrivo ad Addis Abeba. E non che prima non fosse successo niente. Anzi a dirla tutta avevamo visto un uomo dare da mangiare ad una dozzina di iene nella notte e avevamo mangiato carne di cammello e riso viola a casa di "Maceeeelo", con quattro "e" ed una sola "l". Ecco, su questo pezzo di puzzle potrei soffermarmi un pò di più. Maceeeelo, in quel di Harar, ci aveva invitato nel pomeriggio a cenare da lui. Il suo italiano era buono, con un marcato accento romanesco. Nella nostra capitale ci aveva vissuto e sperato, prima di ritornare in Africa dove malgrado tutto era più a suo agio. Inciampava sulle nostre macchine fotografiche, si informava sui mezzi che avevamo e su quelli che avremmo preso durante il nostro viaggio per poi cantilenare, scuotendo la testa, che L'Africa non sarebbe mai cambiata. E forse aveva ragione. Ma L'Africa è come quegli esami universitari propedeutici: tutti dovrebbero affrontarla, anche se non mancheranno le difficoltà. Del resto, come già detto, il nostro viaggio inizia in quella parte un pò complicata. In quei biglietti di aereo non presi, in quella sveglia alle tre di mattina e nella frenetica corsa al bus che ci riporta da Harar nella triste Addis Abeba, con tutti i nostri piani in frantumi, come un vetro che mi chiedevano di riparare. Comincia quando avremmo potuto litigare ma abbiamo scelto, come il giovane vecchio, il sorriso per una strada in salita. Del resto scegliere di sorridere in Africa è facile e questa scelta alla lunga ripaga. Le successive strade in salita come l'escursione sulla cima di un vulcano attivo saranno solo frutto delle nostre lucide follie. Se non ho dubbi a fissare l'inizio di questo viaggio ne ho molti sulla fine. Questo perchè in ogni viaggio ci sono tanti piccoli eventi (l'ultima cena, l'ultima notte a letto, l'ultimo bus, l'ultima foto) che rafforzano la consapevolezza che presto si tornerà ad uno stile di vita completamente diverso e che certi posti e persone che hanno arricchito i giorni precedenti probabilmente non saranno mai più visti. La prima vera consapevolezza sulla fine del'incantesimo mi coglie sul fuoristrada di Weg: la musica di Teddy Afro cede il passo alla voce malinconica di Tracy Chapman. Senza troppo sforzo si capiscono le parole:"Voglio svegliarmi e sapere dove sto andando, dire che sono pronta". Ecco, se Tracy era pronta, io lo ero un pò meno. Eh sì, era ancora una questione di pezzi. Quelli che mi impegnavano da bambino, ma anche quelli che avevo sul tavolo della mia anima. Non avevo ancora legato Il caldo della Dancalia con il freddo dei monti Simien, il fuoco dell'Erta Ale con la nebbia, amica nemica dei Babbuini Gelada. Non avevo ancora deciso se quell'Omo Valley tanto agognata era un teatrino per turisti o un libro che avrei dovuto rileggere in un altro modo. Poi, però, in Italia, sul letto di un ospedale, ho capito una cosa. Ho capito che ci sono pezzi che non si deve avere la fretta di mettere e altri che hanno un posto diverso da quello che abbiamo pensato. Stare lì quindi a cercare di incastrarli non solo non è utile ma fa anche male. E l'ho capito nel momento in cui un pezzo me lo levavano e non me lo aggiungevano. Ecco, potrei scomodare Michelangelo e la superiorità dell'arte che crea il bello togliendo e non mettendo, ma non è neanche questo il punto. Il punto è che ci sono belle opere anche se incomplete e brutte tele in belle cornici. E l'altro punto è che il bello non è solo nel quadro ma anche nell'occhio di chi guarda. Forse allora potrà perdonarmi la ragazza Mursi, che mi chiese di cancellare un pezzo del mio hard disk perchè non si piaceva vista dall'alto.

Ecco, io da "pezzo di m" quel pezzo non l'ho cancellato. Altri li ho uniti, altri sono sul tavolo, uno addirittura nel frigo. Alla fine di tutta questa storia, forse, ci ha ragione Maceeeelo, quattro "e", una sola "l" e la ferma convinzione che L'Africa, per fortuna, non cambierà mai. Come la voglia del bambino, ora cresciuto, di giocare e del giovane vecchio di continuare a sorridere.













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avatarjunior
inviato il 05 Aprile 2020 ore 19:08

Che dire sono stato più attratto dal modo come hai descritto il viaggio che per le foto che hai scelto. Comunque sei bravissimo ho visto la tua bacheca, (non guardare la mia.)MrGreenTi ho aggiunto come amico spero non ti dispiaccia,un saluto da Ischia ,ciao.

avatarsenior
inviato il 05 Aprile 2020 ore 20:40

Solo applausi e gratitudine per aver condiviso

avatarjunior
inviato il 06 Aprile 2020 ore 9:36

Grazie Giober, non mi dispiace affatto, anzi, mi fa molto piacere. Grazie anche a te Nico :)

avatarjunior
inviato il 24 Maggio 2020 ore 2:07

Bello e affascinante il tuo racconto, e anche a me piace molto il modo in cui l'hai scritto.
Avresti potuto limitarti a descrivere di essere stato qui o là, in modo più o meno didascalico, invece hai parlato anche dello stare insieme e un po' del viaggio che, in fondo, ognuno di noi fa dentro di se.
E poi devo dire che ho spesso pensato alla mia vita come a un puzzle, per questo forse mi ritrovo e mi ha colpito quanto hai scritto: "Ho capito che ci sono pezzi che non si deve avere la fretta di mettere e altri che hanno un posto diverso da quello che abbiamo pensato".
Grazie, ciao :-)





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