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Uganda: Non solo Gorilla


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Uganda: Non solo Gorilla, testo e foto by Viaggiatorenotturno. Pubblicato il 30 Dicembre 2014; 41 risposte, 6430 visite.


Ancora un paio di chilometri, ancora un po' di sterrato. Varcato il cancello mi accorgo che il sole ha già concluso la sua giornata. Il tramonto è fugace e nel giro di pochi minuti è buio. La famiglia di Richard sembra composta di sole donne. L'anziana madre, le due sorelle e la moglie. Ceniamo tutti insieme. Niente elettrodomestici, niente prese di corrente, niente scaldabagno, niente cucina. «Se vuoi fare una doccia calda ti mettiamo a scaldare un po' d'acqua sul fuoco». Sono lercio ma più di tutto ho bisogno di dormire. Ringrazio. Facciamo domani mattina? Richard mi mostra la camera. Come le altre si trova separata dal blocco principale, è piccola, semplice, è perfetta. Sopra il letto c'è la zanzariera. Ma l'aria è fresca e di zanzare nemmeno l'ombra. Mi lascio scivolare sotto le coperte. Sono partito da casa alle 9 del mattino del 15 maggio. La testa ritrova un cuscino dopo esattamente 36 ore, sono le 9 di sera del 16 maggio. Dormo.




Mi sveglio in una giornata di sole, cielo blu intenso e nuvole bianco panna. Seguo Julius lungo un sentierino in discesa che si butta impavido in mezzo ad un bananeto. «E' la strada più breve per raggiungere il lago». Solo pochi minuti, poi una radura ci apre lo sguardo sul Lake Mutanda. Le sue acque scure affondano in una gola tra le colline. Più in là, sullo sfondo altre montagne. Mi fermo in ammirazione. Julius si volta, scruta la mia reazione. Lo tengo solo per un istante sulle spine. «Just amazing!». Non dice nulla ma il luccichio dei suoi occhi è sufficiente a rivelare un uomo felice. Scendendo mi accorgo che la radura è in realtà il cortile di una scuola. Il preside ci riceve nel suo piccolo ufficio. Dopo aver sbrigato la pratica dell'immancabile libro degli ospiti, ci racconta di come funzioni la scuola, delle 7 classi, delle materie e del problema dell'abbandono da parte dei bambini più grandi. «Mandare i figli a scuola rappresenta un sacrificio economico importante per le famiglie e soprattutto dopo i 10 anni molti lasciano per andare a lavorare». L'Uganda che sto conoscendo ha un'immagine positiva. E' evidente la povertà economica intesa nel senso stretto di mancanza di soldi. Ma non c'è miseria. Un'agricoltura semplice integrata con animali da cortile, capre e qualche rara mucca rappresentano una fonte di sostentamento che non ha bisogno di supermarket e centri commerciali. E' chiaro però che la mancanza di un reddito limiti l'accesso all'istruzione come a tanti altri servizi per noi scontati. Il lavoro minorile è diffuso, direi che è la norma ma il sistema economico è diverso ed è importante che anche i ragazzi più giovani contribuiscano al sostentamento della famiglia. Ciò che conta è cercare di fornire alle famiglie gli strumenti e le conoscenze per generare un reddito maggiore e sostenibile. «Allora ci vediamo venerdì così puoi insegnare educazione fisica ai ragazzi per un paio d'ore». Stringo la mano la preside e lo saluto. Venerdì vestirò i panni dell'insegnate e, per dirla tutta, non vedo l'ora.




Non faccio un passo senza che qualche bambino mi saluti. «Muzungu! How are you?». A parte il fiatone, tutto alla grande. Più rispondo più si moltiplicano i saluti. Mentre una brezza leggera ma fresca evapora la fatica della camminata, ripenso a quanto tempo ho aspettato questo momento. «Si può fare. Davvero Julius, ora lo so». Julius sorride, lo fa in quel suo modo genuino come un bambino timido quando riceve un complimento inatteso.

Dopo una breve trattativa montiamo in sella a una moto, un boda-boda come chiamano le moto taxi da queste parti. Prima il giovane pilota, poi Julius ed infine io come sempre armato di macchina fotografica. Dove andiamo oggi? «A vedere il confine con il Congo, credo ti interesserà ed è soli pochi chilometri lungo questa strada». Mi interessa eccome. La mattinata è fresca e il cielo, come di consueto, è pervaso da un gregge disordinato di nuvole di tutte le forme e dimensioni. La strada asfaltata sembra di recente fattura. Fila sinuosa verso le montagne. Dopo una decina di minuti con il vento in faccia, comincio a scorgere molte persone in viaggio nella direzione opposta. La maggior parte a piedi, alcuni a bordo di improbabili mezzi di trasporti fatti di legno non rifinito che mi ricordano quelli dei "Flinstons", qualcuno infine a bordo di camionette malconce e stracariche. Pur non trovando tratti somatici distintivi mi è chiaro che non si tratti di Ugandesi. Persone molto povere spesso vestite di stracci. «Sono congolesi, passano il confine per andare a vendere qualcosa al mercato di Kisoro o per cercare qualche lavoretto da fare». Insomma sono dei pendolari spinti dal bisogno di sopravvivere.




Dopo un'ampia curva in leggera salita raggiungiamo la frontiera. Qui il flusso di transfrontalieri è ancora più sostenuto. Il movimento è a senso unico. L'esercito ugandese vigila ma non ci sono controlli particolari eccezion fatta per i carichi dei camion. Entriamo al posto di frontiera. Non ho con me il passaporto. Julius non si scompone. «Buongiorno, vorremo visitare il confine, è possibile? Il mio amico è italiano». L'ufficiale mi squadra. «Di solito non c'è problema, lasciamo passare i visitatori senza timbrare il visto. Ma senza passaporto.. » Dal tono della voce capisco subito che la questione non è formale quanto economica. Probabilmente raddoppiando la mancia (in genere pochi dollari) potrei comunque entrare in Congo. Non si preoccupi, facciamo solo un giro qui intorno. Usciamo. L'ufficiale un po' perplesso ci segue. Si scusa. «Se volete, potete passare il confine e camminare in "terra di nessuno", ma non oltrepassate il check-point congolese». Ringraziamo. «Un'ultima cosa, è severamente proibito scattare foto». Julius mi si avvicina. «So che avresti voluto fotografare ma pensano che tu sia un giornalista. Il governo teme ripercussioni sul turismo se si diffondo le immagini dei profughi congolesi». Non condivido certe politiche ma le capisco. Superiamo la linea di frontiera ugandese. Pochi passi e l'asfalto svanisce in una striscia di terra rossa. Oltrepassiamo un muro invisibile che separa due mondi. La mercanzia più commerciata verso l'Uganda mi pare essere il carbone. In molti trasportano, su bici raffazzonate o sulle teste, dei sacchi colmi di carbone chiusi con foglie di palma. Il carbone mi spiega Julius è ancora di gran lunga il combustibile più usato nelle campagne. Il flusso di profughi non viene vissuto come un problema. Non siete preoccupati che così tante persone vengano in Uganda? Julius non sembra cogliere il senso protezionistico della mia domanda. «Gli ugandesi e i congolesi che abitano queste regioni di confine sono come fratelli. C'è molta solidarietà. Molte famiglie sono miste. Possiamo passare i rispettivi confini senza documenti e controlli. Un congolese che viene in Uganda può restare quanto vuole. Solo se crei problemi ti cacciano». Prosegue. «Quando le milizie minacciano i villaggi o quando c'è uno scontro tra esercito regolare e guerriglieri molti scappano da questa parte. A volte anche solo per passare la notte. Dormono dove capita, spesso ospitati dalle famiglie ugandesi. Poi il mattino tornano indietro. Fuori Kisoro è stato allestito un campo profughi dalle Nazioni Unite. Se vuoi, ti ci porto». Il cartello "DRC" pone fine alla nostra breve escursione in terra di nessuno. Ma tu non hai paura della guerra? «No, la guerra non è qui. Mi dispiace per queste persone ma l'Uganda è diversa, noi siamo al sicuro». Prima che Julius prosegua nel suo ragionamento, lo fermo. Mi scuso. La mia era una domanda stupida e frutto di un pregiudizio. Inforchiamo nuovamente la moto e ripartiamo. Il mio lato viaggiatore risente di una lieve malinconia. Avrei voluto visitare il Congo.




Il campo rifugiati si trova a margine della strada principale che collega Kabale e Kisoro. La distesa di tende bianche con la sigla azzurra UNHCR si perde fino alle radici delle colline. Qualcuno all'interno del campo ha già notato la mia bianca presenza. Credi sia possibile visitare il campo? Niente foto promesso. Julius ha l'aria dubbiosa. «Provo a chiedere, aspettami qui». Raggiunge un gruppo di uomini fermi su quello che mi sembra il viale di accesso principale. Le teste si scuotono quasi all'unisono. Dopo poco torna. «Mi spiace ma non è permesso. Il problema è sempre lo stesso». La cosa comincia a scocciarmi ma non si può negare che, visti i pregiudizi che già molti occidentali hanno sull'Uganda, episodi di questo tipo danneggerebbero il turismo. «Non so se sia vero, ma mi hanno detto che settimana scorsa i soldati hanno arrestato un bianco perché faceva le foto». Va bene, andiamo, però mi vorrei fermare più avanti. Ripercorriamo la stessa strada da cui siamo venuti. Raggiunta una certa distanza "di sicurezza" ci fermiamo. Monto il tele sulla reflex, salgo su un muretto di pietra tra lo stupore generale di un gruppo di ragazzini. Scatto. Odio fotografare così. Odio lasciare a chi mi vede l'impressione che io stia fotografando la povertà o i problemi del loro paese. Non è così. Vorrei poterglielo spiegare. Queste immagini parlano di solidarietà, questi testi sono un invito aperto a viaggiare oltre i luoghi comuni.




E' già pomeriggio inoltrato quando prendiamo a gironzolare per il mercato di Kisoro. Sempre montagne e nuvole sullo sfondo. E' un mercato senza bancarelle. Frutta e verdura sono esposte su delle stuoie o per terra. C'è ancora un gran via vai, si contratta, si compra e si vende. Sbrano una dolcissima mini banana e scatto qualche foto. Vuoi un mango Julius? «Sì, andiamo a casa mia a mangiarli. Abito qui dietro». Su di un cortile di cemento si affacciano tante piccole porticine blu. Tanti appartamenti tutti uguali. Una camera 2x2 e uno strettissimo bagno. Inutile girarci intorno, come casa è veramente brutta. «Sì, lo so. Questo posto fa schifo». Fatico a dissimulare il mio stupore. Il lavandino del bagno è letteralmente spaccato in due e l'acqua cola a terra mentre mi sciacquo le mani. Mi ero fatto un'immagine diversa della vita di Julius. «La mia famiglia vive a Mokono, vicino Kampala. Io sto qui per lavoro e questo è quello che posso permettermi». Cerco di rassicurarlo, è solo una sistemazione provvisoria. Spolpiamo tutti i manghi. E' sconcertante che un ragazzo in gamba, preparato ed intelligente come Julius viva così. Questo è il mondo fuori dal nostro bianco recinto. A volte è difficile da accettare ma non è giusto sentirsi in colpa per ciò che abbiamo. Possiamo solo prenderne coscienza e, quando possibile, cercare di restituire qualcosa.




Oggi è il mio primo giorno da maestro ma la mia lezione di educazione fisica si terrà solo nel pomeriggio. La mattinata la dedicheremo a visitare alcune case che secondo Julius potrebbero rientrare nel nostro programma di "homestay". Quella di creare una forma di turismo nuova, ispirata ai viaggiatori più avventurosi, è un'idea che coltivo da tempo. Certo l'albergo è più comodo, le coccole di un bel lodge nel mezzo del parco naturale sono invitanti. Certo, e l'Africa? L'Africa è così lontana che a stento la vedi. Noi vogliamo accorciare le distanze. Portare i turisti nelle case, portare le persone oltre le contraddizioni di un viaggio nella natura ma circondati da lusso e tecnologia. Vivere anche solo per pochi giorni in una casa ti regala un'esperienza profonda e indimenticabile. Quando lo dico, tutti annuiscono. Poi però la paura tira il freno. Paura di cosa? Paura di ciò che non si conosce. Paura di "ma io non ce la farei". Sì, il cibo è diverso, il letto è un po' più piccolo e nella stanza non c'è nemmeno la luce. E' vero, per andare in bagno devi uscire e poi non c'è la tazza, solo un buco e chissà che puzza. Vero. La sera quando vai in bagno hai sulla testa qualche milione di stelle, sono così luminose che spegni la torcia, la luce della stanza è il sole, ti svegli poco dopo l'alba e vai a dormire poco dopo il tramonto e quel sorriso, il sorriso di un'intera famiglia che esplode quando chiedi il bis di posho e matoke. Basterebbe una volta, una sola volta e nessuno tornerebbe più indietro. Certo bisogna saper partire con la testa vuota, niente preconcetti, niente "è peggio" o "è meglio", le realtà sono tante e non bisogna giudicarle. S'impara anche questo.




Quando arrivo i bambini, divisi in gruppi, sono al lavoro per sistemare i campi da calcio e da pallavolo. Il gruppo più numeroso è intento a disegnare le linee dei campi. Usano della terra che lasciano cadere dalle mani lentamente. Il preside "armato" di una lunga e sottile bacchetta di bambù impartisce le istruzioni. Ci stringiamo la mano. Sono pronto. Con ampio gesto della bacchetta invia uno dei bambini verso una campanella appesa ad un muro. Il suono insistito funge da richiamo. Tutta la Chihe Primary School si raduna disordinatamente davanti a me. Il preside ha il suo bel da fare per cercare di formare delle file per dividere le classi. Raggiunto un certo grado di ordine. Inizia la fase introduttiva. Il preside si rivolge alla platea in Luganda ma non è difficile intuire cosa stia dicendo. Ora tocca me. Mi presento in inglese e spiego per sommi capi cosa ho intenzione di fare nelle prossime 2 ore. Gli sguardi sbalorditi dei bambini necessitano di una traduzione. Poi si comincia. Due squadre miste al campo di pallavolo, due squadre di soli maschietti al centro del campo da calcio. Qualche esercizio di riscaldamento (non che se ne senta il bisogno), un po' di tecnica di base, poi esercizi di tiro e di difesa. Il tempo vola. Il sole sta già calando quando tento invano di spiegare come vadano mantenute le distanze tra i reparti. Una coppia di gru coronate mi passa proprio sopra le testa. Faccio dono del pallone che mi sono appositamente portato dall'Italia. Il preside mi ringrazia. «Ottimo lavoro, potresti fare il maestro. Lunedì a che ora vuoi fare lezione?»

Lunedì sarò di nuovo in viaggio verso un'altra meraviglia. Il mio ritorno lungo il sentiero che porta a casa avviene tra due ali di bambini che mi parlano in una lingua che non capisco. Mi chiamano "teacher".




Esiste una storia fatta di sole leggende e di racconti narrati con calma davanti ad un fuoco. Prima ancora che Roma scrivesse la sua storia, prima ancora delle guerre di Omero, prima ancora delle piramidi, il cuore dell'Africa era il regno dei Batwa. Una popolazione di cacciatori-raccoglitori. Divisi in tanti piccoli gruppi, i Batwa hanno vissuto per millenni su un'area ampia che oggi è frammentata tra Congo, Rwanda, Burundi e Uganda. Sono considerati i soli ed unici abitanti autoctoni dell'intera regione. Hanno vigilato su quel mondo inaccessibile praticamente dai tempi della comparsa dell'uomo sulla Terra. E ora? Ora, di terra, non ne possiedono neanche un fazzoletto. Mentre Julius prosegue nel suo racconto mi viene già la pelle d'oca per la rabbia.




I Batwa sono il popolo della foresta. Prima che le società contadine invadessero le pianure, vivevano probabilmente all'età della pietra. E' luogo comune credere che la totale mancanza di tecnologia sia un sintomo di minori capacità intellettive, primitivi si usa dire. Falso. I popoli della foresta non sviluppano tecnologie per il semplice motivo che non ne hanno bisogno. Tutto ciò di cui necessitano si trova nella foresta. L'agricoltura nasce come un bisogno, un modo per poter sopravvivere laddove la natura non è in grado di sostentare un numero elevato di individui. I Batwa, come gli Indios, come gli Aborigeni rappresentano l'equilibrio perfetto. Non consumano, non alterano, vivono all'interno del sistema naturale senza bisogno di forzarlo. Agli occhi dei Batwa gli agricoltori erano molto stupidi e deboli fisicamente. E' normale, vivere nella foresta ti fa sviluppare capacità sensoriali e fisiche superiori. Ma il potere degli agricoltori derivava dagli strumenti "prodigiosi" di cui erano armati e dal loro numero in costante aumento. Nonostante le profonde differenze i due antagonisti, cacciatori-raccoglitori e contadini, hanno convissuto per molti secoli. Si instaurò una commercio di scambio tra gli abitanti della foresta e quelli delle pianure. I primi portavano carne e erbe medicinali, ricevendo in cambio cereali e ortaggi. Il meccanismo si ruppe con l'arrivo dei bianchi e delle armi da fuoco. I contadini acquistarono i fucili dai bianchi e presero a cacciare nella foresta per procurarsi da soli la carne. Il commercio si ridusse. Gli animali della foresta si ridussero, molti si estinsero. I Batwa scapparono. La foresta venne abbattuta fino ad arrivare agli attuali confini ora faticosamente preservati dai parchi nazionali. Già così sarebbe una storia triste. Quando nel 1991 fu istituito il Mghainga National Park in Uganda, e i corrispettivi gemelli in Rwanda e Congo, i Batwa furono progressivamente estromessi dalla foresta. La legge stabilisce che per preservare la fauna selvatica nessuno possa avere accesso alla foresta. Nemmeno i Batwa che non hanno colpe. Negli anni duemila anche gli ultimi gruppi sono stati espulsi. Nessun risarcimento, nessuna terra su cui vivere. Solo miseria e discriminazioni. Sono considerati "inferiori" perché non sanno cosa sia un'auto, perché non sono in grado di coltivare i pomodori. Perché lontano dalla loro foresta i Batwa sono inetti. Il sangue ormai mi ribolle nelle vene.




Il mio viaggio prosegue, il resto dell'Uganda mi aspetta. Ma questa è una storia che non è ancora pronta per essere raccontata.



Viaggiatorenotturno scrive di sè: "Nato circa 30 anni fa a Milano sto cercando, con calma, senza fretta, di far coincidere le mie vite. Dopo anni di bellicosa convivenza delle mie molteplici personalità forse intravedo una forma capace di contenere in tutta coerenza i vari "io" della mia vita. Da questo viaggio sono nati un progetto di turismo sostenibile e un progetto sociale per sostenere i Batwa.



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avatarsenior
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 12:44

Stupendo,strepitoso questa è fotografia e reportage..... complimenti

avataradmin
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 13:05

Un reportage straordinario (ancora una volta!)

Grazie per aver condiviso questo articolo!

avatarsupporter
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 13:16

Foto meravigliose e trovo quello che racconti estremamente intelligente.

avatarsupporter
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 14:00

Mi complimento bel racconto e fotografie. Ottimo viaggio. Ciao-

avatarsupporter
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 14:18

Ancora una volta sei riuscito ad emozionarmi col tuo racconto di viaggio.
Ti ringrazio per regalarci le tue esperienze, i tuoi pensieri, le tue considerazioni attraverso la scrittura e le immagini.
Tanti complimenti e auguri per il tuo progetto.

Ciao ciao e tanti auguri di Buon Anno, LullySorriso:-PSorriso

avatarsenior
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 15:01

Grazie a Juza per averlo pubblicato e.. grazie a chi lo ha letto!!

Avrei ancora parecchio da scrivere sul resto del viaggio.. qualche appunto sparso che vorrei avere il tempo di prendere in mano per dargli una forma.

Prima o poi lo farò.. nel frattempo vi consiglio di andare in uganda per vedere con i vostri occhi e conoscere uno dei Paesi più belli che abbia mai visitato!

Ciao!!!

avatarsenior
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 15:26

Gran reportage.

Grazie per aver condiviso l'articolo.


avatarjunior
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 15:52

Tutto veramente molto bello!! ;-)
Spero di leggere la "seconda parte" quanto prima!! Sorriso

avatarsupporter
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 15:59

I Batwa, interessante popolo. Evidentemente sono ancora in pieno paleolitico nel XXI secolo poiche non hanno mai sperimentato la rivoluzione del neolitico.

La triste storia che racconti è una vecchia storia .... e sappiamo quale sara' il finale. Triste

Complimenti di nuovo per il reportage.

avatarsupporter
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 17:01

Molto bello. Complimenti.

avatarsenior
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 17:03

Bravissimo, un importante documento che testimonia il tuo impegno e le tue passioni.

avatarjunior
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 18:50

Complimenti. Grazie.

avatarsupporter
inviato il 30 Dicembre 2014 ore 21:47

Un bellissimo reportage.

Saluti ale

avatarjunior
inviato il 31 Dicembre 2014 ore 6:33

Complimenti, un bellissimo racconto, un gran regalo per tutti. Grazie!

avatarsenior
inviato il 31 Dicembre 2014 ore 8:50

Racconto fantastico ed emozionante, complimenti davvero e grazie per aver condiviso questa tua straordinaria esperienza





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