RCE Foto

(i) Per navigare su JuzaPhoto, è consigliato disabilitare gli adblocker (perchè?)






Login LogoutIscriviti a JuzaPhoto!
JuzaPhoto utilizza cookies tecnici e cookies di terze parti per ottimizzare la navigazione e per rendere possibile il funzionamento della maggior parte delle pagine; ad esempio, è necessario l'utilizzo dei cookie per registarsi e fare il login (maggiori informazioni).

Proseguendo nella navigazione confermi di aver letto e accettato i Termini di utilizzo e Privacy e preso visione delle opzioni per la gestione dei cookie.

OK, confermo


Puoi gestire in qualsiasi momento le tue preferenze cookie dalla pagina Preferenze Cookie, raggiugibile da qualsiasi pagina del sito tramite il link a fondo pagina, o direttamente tramite da qui:

Accetta CookiePersonalizzaRifiuta Cookie

Il Potere della Fotografia


  1. Altro
  2. »
  3. Articoli
  4. » Il Potere della Fotografia


Il Potere della Fotografia, testo e foto by Gerry888800. Pubblicato il 16 Novembre 2024; 15 risposte, 33665 visite.





Quando si prende in mano una macchina fotografica per la prima volta, se è destino, si viene sedotti, si accetta un invito implicito a intraprendere un viaggio particolare. È una relazione intima e profonda tra il fotografo e il suo strumento, un legame che richiede una sensibilità audace, talvolta sfrontata, mai invasiva. È una carezza sottile, come quella delle dita sulla pelle, così lieve da percepire ogni minimo dettaglio.

Con il tempo, comprendi di non poterne più fare a meno: la macchina fotografica diventa un'estensione di te, quasi una condanna volontaria. Sei suo schiavo e insieme padrone, perché la capacità di immortalare un attimo dà l'illusione di dominare la vita. A volte, prima ancora di scattare, la fotografia ti sussurra. L'occhio la coglie, si ferma su di essa. In quell'istante, regoli la luce, cerchi l'angolazione, valuti il soggetto. E il soggetto è cruciale: può scuotere intere generazioni, può arrivare a toccare perfino l'anima di chi detiene il potere.

C'è un atto solenne nella denuncia attraverso l'obiettivo. Fotografare è un rito intimo che richiede una profonda connessione con il mondo e con se stessi. Alcuni soggetti, nel tempo, riescono a scuoterti dentro, anche a distanza di anni. Cosa succede quando scatti il corpo di un bambino malnutrito, un essere umano ridotto a uno scheletro, un guscio in cui è intrappolata una dignità spogliata e un'anima che sembra prosciugata di ogni respiro? Ti soffermi su quei dettagli: le ossa della gabbia toracica come le zampe di un ragno che sembrano avvolgerlo, soffocandolo. Uno sguardo perso, oltre il vuoto. È uno sguardo che solo l'obiettivo può cogliere fino in fondo.




Poi ci sono le masse, i grandi scenari, dove la fatica si manifesta nei volti di madri e bambini che rovistano negli scarti di un continente intero. E allora comprendi che quella fotografia è una riflessione più grande, l'eco di un evento che ha avuto inizio secoli prima. La contestualizzi nella tua epoca, nel tuo mondo. In Africa, un bambino malnutrito spesso non fa notizia, ma in Europa sì. Perché? La risposta comune è: “Noi abbiamo tutto, loro niente.” Ma non è così semplice. Nel nostro DNA collettivo c'è una vergogna ancestrale, perché sappiamo che, in fondo, qualcosa di questa ingiustizia è anche colpa nostra.

Mentre fissiamo l'immagine di un bambino affetto da una malattia dimenticata, che ci guarda con uno sguardo di sfida anziché di paura, ci sentiamo nudi, con le spalle al muro. Ed è forse così che dovremmo sentirci. Il compito di un fotografo è risvegliare emozioni che scuotano le coscienze, unire epoche distanti e stimolare una riflessione profonda, che apra le porte a un racconto più grande e più giusto.




Poi, ci sono quegli occhi che non si riesce a dimenticare, perché hanno visto troppo. Quelli di un bambino che stringe un fucile più grande di lui, con le mani sporche di terra e sangue, e uno sguardo che sembra non appartenergli più. I bambini soldato sono un paradosso crudele: troppo piccoli per comprendere la guerra, ma già troppo grandi per tornare a essere bambini. Ogni loro gesto è impregnato di un'innocenza rubata, che li condanna a una vita di violenza, paura e rimorso.

Fotografarli non è solo un atto di denuncia, ma un viaggio nel buio della nostra umanità. Ogni scatto è un racconto di forza e fragilità intrecciate. Ci si chiede come sia possibile che quelle mani, fatte per giocare e stringere altre mani, siano state addestrate a uccidere. Un fotografo si trova davanti a una scelta etica: fermare quell'attimo di disperazione o abbassare la macchina per rispetto. Ma il rispetto più grande, forse, è raccontare, gridare al mondo ciò che nessuno vuole vedere.

Le storie di questi bambini parlano di abusi, di famiglie distrutte, di notti passate a nascondersi nella giungla, mentre il suono degli spari scandisce le loro paure. Ogni scatto diventa un frammento di una vita spezzata, una domanda implicita rivolta al mondo: perché? Perché un bambino deve imparare a odiare prima ancora di capire cos'è l'amore? Perché l'infanzia è stata barattata con il potere di un uomo o con i profitti di un minerale?







E mentre il fotografo scatta, con il cuore che pesa come il piombo, sa che ogni immagine porta con sé una promessa. Una promessa di memoria, di cambiamento, di riscatto. Perché l'obiettivo non è solo un testimone: è un mezzo per riscrivere la storia. I bambini soldato, come i bambini malnutriti, sono un atto d'accusa contro il mondo intero. Fotografarli è un modo per ricordare che non possiamo voltarci dall'altra parte. È un modo per sperare che un giorno, quelle mani possano finalmente abbandonare le armi e tornare a stringere i colori di una nuova vita.

Le urla. Sono come una lama che si insinua nell'anima, tagliando ogni filo di speranza rimasto. Le urla dei bambini malnutriti non sono solo suoni, sono richiami disperati che si confondono con il silenzio del mondo che li ignora. Voci gracili, spezzate dalla fame, ma così potenti che ogni volta che le sento, sento il peso insopportabile della loro sofferenza. I loro corpi esili, ridotti a ossa rivestite di pelle, tremano sotto il sole impietoso, fragili come stuzzicadenti pronti a spezzarsi al primo soffio di vento. Ogni sguardo che incrocio è un abisso vuoto, senza futuro, senza alcun barlume di sogno. Sono occhi che non conoscono più cosa significhi la gioia, e che hanno visto troppo dolore in troppo poco tempo.

E poi, ci sono le urla soffocate. Quelle dei bambini soldato. Non le senti subito, perché vengono inghiottite dalla brutalità delle loro azioni, dall'apparente freddezza che li circonda. Ma se guardi più da vicino, scopri che ogni colpo sparato, ogni passo marziale, ogni ordine eseguito con la precisione di un adulto nasconde una voce spezzata. Una voce che chiede di essere salvata.

Sono voci che si sono arrese, che hanno imparato a tacere perché il silenzio è spesso l'unica via per sopravvivere. Guardi quei bambini e ti rendi conto che qualcosa di loro è morto, qualcosa che nessuno potrà mai restituire. La fotografia, in quei momenti, diventa una sfida quasi insostenibile. Come si può immortalare un'anima spezzata senza offenderla? Come si può raccontare una tragedia senza trasformarla in un oggetto di pietà?

Eppure, è necessario. Perché se le urla di quei bambini non arrivano a noi, significa che il silenzio dei nostri cuori ha vinto. Fotografarli è l'unico modo per ridare loro una voce. Una voce che, per quanto flebile, può scuotere chi guarda. Può far riflettere, può far nascere una domanda: “E io, cosa posso fare per loro?”
La risposta non è mai semplice. Forse non c'è una risposta unica. Ma il solo porsi la domanda è già un inizio. È un atto di ribellione contro l'indifferenza che ci circonda. È un passo verso un mondo in cui le urla non vengono più ignorate, in cui ogni bambino, ovunque si trovi, può essere semplicemente un bambino.
La macchina fotografica, in fondo, non è solo uno strumento per catturare immagini. È un'arma di resistenza. Ogni scatto è una ferita inflitta al muro dell'indifferenza. Ogni fotografia è un urlo che si unisce agli altri, nella speranza che diventino una sola voce, una voce così forte da non poter più essere ignorata.




Ma cosa succede quando gli urli di una fotografia trovano eco in un grido reale, quello di una bomba che esplode in un villaggio? Quando il racconto visivo si intreccia con la brutalità concreta di una guerra che non concede pause, e che spesso viene ignorata da chi potrebbe fare la differenza? Questo articolo non è una denuncia, ma un appello. Un appello a ciò che di umano è rimasto nel cuore delle persone.
Ho visto tanto male, e altri ne hanno visto più di me. Ma nessuno ne vedrà mai come loro. Oggi, nella Repubblica Democratica del Congo, le persone muoiono, vengono fatte a pezzi, e i bambini sono le icone di un tormento senza precedenti. Due giorni fa, una bomba è cascata in un villaggio vicino Goma, e il suo boato ha fatto tacere ogni altro suono.

Il suono di una bomba è una sinfonia di distruzione. Non avvisa del suo arrivo, non concede tregua. Un boato assordante lacera l'aria, seguito da un silenzio innaturale, carico di polvere e disperazione. Il villaggio, un tempo animato dalle risate dei bambini e dal vociare degli adulti, si trasforma in un campo di rovine. Le case, costruite con amore e fatica, si sbriciolano come castelli di sabbia. I corpi, un tempo pieni di vita, giacciono mutilati e senza vita. Questo è ciò che una bomba porta con sé: l'odio e l'avidità in una manifestazione di forza brutale.

E mentre tutto questo accade, noi, qui, nelle nostre dimore ovattate, ci raccontiamo che “dobbiamo aiutarli a casa loro.” Ma forse dovremmo andarcene noi, prima. Noi, con la nostra insaziabile fame di minerali, diamanti, terre fertili. Noi, con la nostra assistenza che diventa sfruttamento. Le stesse ONG che raccolgono vestiti usati per poi venderli in mercati locali, nutrendo un ciclo di consumo che schiaccia invece di sostenere.
Il Congo è stato depredato di 11 milioni di ettari di terra. Lo dice uno studio sul Land Grabbing condotto dal Professor Pier Luigi De Felice e dalla dott.ssa Maria Gemma Grillotti Di Giacomo. Ma il dato più agghiacciante non è nei numeri: è nella realtà di un bambino che muore sotto le macerie o imbraccia un fucile invece di una penna. È in quei corpi fatti a pezzi dalla nostra avidità di avere sempre di più, tutto e subito.

Il brutto di una bomba è che non avvisa. Cade con tutto il peso dell'odio, dell'avidità e della nostra indifferenza. E in quel momento, non c'è più tempo per fuggire. È la fine, l'inevitabile.

Questo, dunque, non è solo un racconto. È un invito a fermarsi, a pensare. È un grido di dolore e rabbia, una richiesta di guardare la realtà senza filtri, con gli occhi aperti sul nostro ruolo. Non possiamo sempre illuderci che basti “donare qualcosa.” Dobbiamo comprendere che la fotografia, la parola, l'azione devono diventare strumenti di cambiamento. Perché ogni scatto, ogni urlo, ogni appello potrebbe essere l'ultimo di chi non ha più voce per gridare.

E allora, caro occidentale che leggi, fermati. Pensa a quel bambino che non conosce futuro, strappato alla sua infanzia dalla fame, dalla guerra, dall'indifferenza. E chiediti: davvero vuoi essere solo uno spettatore?












Risposte e commenti


Che cosa ne pensi di questo articolo?


Vuoi dire la tua, fare domande all'autore o semplicemente fare i complimenti per un articolo che ti ha colpito particolarmente? Per partecipare iscriviti a JuzaPhoto, è semplice e gratuito!

Non solo: iscrivendoti potrai creare una tua pagina personale, pubblicare foto, ricevere commenti, partecipare alle discussioni e sfruttare tutte le funzionalità di JuzaPhoto. Con oltre 251000 iscritti, c'è spazio per tutti, dal principiante al professionista.





avatarsupporter
inviato il 17 Novembre 2024 ore 15:18

---Noi, qui, nelle nostre dimore ovattate, ci raccontiamo che “dobbiamo aiutarli a casa loro.”Ma forse dovremmo andarcene noi, prima.--- scomode verità!

avatarsupporter
inviato il 17 Novembre 2024 ore 15:24

Concordo assolutamente... Infatti sto lavorando anche a un progetto sul Land Grabbing, la causa dell'impoverimento del continente africano.

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 2:12

La domanda "davvero vuoi essere solo uno spettatore?" fatta da chi usa una fotocamera per produrre immagini su riviste o in internet forse dovrebbe essere posta in altro modo. Fotografare questa povera umanità non è la soluzione del problema.
Amare è la soluzione del problema. Amare quelli che ci sono vicini, innanzitutto. Poi accogliere quelli che scappano dalle guerre e dalla disperazione, creando una società che li inserisce in ruoli accettabili. Poi... poi... poi viene il resto.

Ci siamo illusi che la fotografia avrebbe potuto, denunciando i problemi sociali e ambientali, contribuire a migliorare il mondo. Ma non è andata proprio così.

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 3:13

La tua riflessione è potente e piena di verità. Credo che questa domanda colpisca al cuore una delle grandi contraddizioni di chi usa la fotografia per raccontare il dolore e l'ingiustizia del mondo: cosa significa veramente agire?

La fotografia, per sua natura, non è la soluzione, ma uno strumento. È una chiamata, una scintilla. Non può cambiare il mondo da sola, ma può smuovere chi lo abita. È il mezzo per far sì che altre persone si pongano domande, prendano coscienza e, forse, agiscano. Questo è il limite e, allo stesso tempo, il potere della fotografia: portare a galla ciò che altrimenti resterebbe sommerso. È un invito a vedere, non a voltarsi altrove.

L'amore, come dici tu, è la vera soluzione, ma l'amore va reso concreto attraverso azioni: accogliere, sostenere, curare, educare. La fotografia non può essere tutto questo, ma può essere il grido che richiama l'attenzione su ciò che richiede amore. Non basta, è vero. Ma è un inizio.

E sì, ci siamo illusi che denunciare bastasse, che mostrare le ferite fosse già una cura. Oggi sappiamo che non lo è. Eppure, anche se il mondo non è cambiato come speravamo, non significa che dobbiamo smettere. La responsabilità non è solo della fotografia, ma di ciò che le persone fanno dopo aver guardato. Come fotografi, possiamo fare anche altro, certo. Possiamo amare chi ci sta vicino, possiamo agire in prima persona. Ma se nessuno racconta, il silenzio si fa complice.

La domanda che forse dovremmo porci, allora, non è se la fotografia sia abbastanza, ma: dopo aver guardato queste immagini, cosa fai tu?

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 5:31

Vivo a 360 gradi nella mia numerosa famiglia. Curo con cura la mia parte spirituale, combatto contro il consumismo e la mentalità consumista anche in questo forum. Sviluppo i rapporti con i migranti che vivono nel mio quartiere e nel mio palazzo.

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 5:38

Bene, questo mi rincuora moltissimo, perché ciò che descrivi è una scelta di vita concreta, e non è da tutti, soprattutto in un contesto in cui siamo sommersi da un'informazione spesso eccessiva, e talvolta di scarsa qualità, che finisce per anestetizzare le coscienze. Tuttavia, mi chiedo: quante volte una buona fotografia ha davvero cambiato le cose?

Ci siamo illusi che la fotografia avrebbe potuto, denunciando i problemi sociali e ambientali, contribuire a migliorare il mondo. Ma non è andata proprio così.

Non sono del tutto d'accordo. Una buona fotografia ha il potere di scuotere gli animi delle persone, di toccare quella parte profonda che spesso resta inascoltata. Anche se non cambia tutto, può cambiare qualcosa. Magari anche solo per una persona, ma per quella singola persona potrebbe rappresentare un momento di svolta, un cambiamento di prospettiva o, addirittura, una trasformazione del proprio modo di vivere.

Non credo che si tratti di una mera illusione. Forse il cambiamento non è sempre immediato o su larga scala, ma una fotografia buona, capace di trasmettere un messaggio potente, può essere quel piccolo seme che germoglia in una mente o in un cuore pronti a riceverlo.

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 5:44

Il problema è l'enorme produzione di questo genere di immagini, utilizzate eccessivamente da un'infinità di sedicenti organizzazioni no-profit che raccolgono fondi di cui, che io sappia, nessuno verifica il reale utilizzo. Per non parlare del turismo fotografico e di internet che inflaziona come ogni altro genere fotografico anche questo. Certamente esistono differenze notevoli tra le foto di questo articolo e la massa di cui siamo inondati, ma il numero diluisce come in altri generi gli scatti di qualità.

Comunque è utile sensibilizzare attraverso la fotografia e la cultura ai temi della condivisione e della partecipazione, ma il risultato lo fa la condotta individuale che è influenzata dal consumismo e dall'avidita' di beni materiali che viene sviluppata in modo ossessivo nella società occidentale.

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 6:16

Grazie per questo commento, che tocca un tema a me molto caro. Da anni combatto contro il fenomeno del volonturismo e quella che è la pornografia del dolore . È impressionante quante volte siano stati costruiti storytelling ad hoc solo per raccogliere fondi, spesso senza alcuna trasparenza sull'effettivo utilizzo delle risorse raccolte. Su questo sto realizzando un documentario intitolato Poverty Porn: L'Effetto Vittima Identificabile , in cui analizzo come certe narrazioni semplificate sfruttino il dolore altrui per fini economici o di branding.

Uno degli aspetti più critici è come il volontariato sia diventato una moda, svuotato del suo significato originario. Molte organizzazioni no-profit preferiscono immagini e video che garantiscano visibilità sui social, piuttosto che promuovere interventi strutturali e sostenibili. Questo alimenta anche il problema del food aid diversivo: una quantità significativa di cibo terapeutico, destinato a chi ne ha più bisogno, finisce sul mercato nero invece di essere distribuito gratuitamente.

A peggiorare la situazione, internet e il turismo fotografico hanno inflazionato l'intero genere. Migliaia di scatti amatoriali, spesso presi senza il consenso dei soggetti, saturano i social media, contribuendo a una visione superficiale e stereotipata di intere comunità.

Per me la fotografia deve raccontare la verità con dignità e rispetto, non mercificare il dolore. Ecco perché cerco di denunciare apertamente queste pratiche, portando alla luce gli effetti devastanti della strumentalizzazione del dolore umano. Se ti interessa, ti giro anche un articolo che ho scritto su questo tema, approfondendo come il settore possa essere riformato per tornare a essere un reale strumento di cambiamento.

Ti allego un link di un mio articolo che parla proprio di questo:
www.rawfacts.it/post/l-effetto-della-vittima-identificabile-utilizzo-d

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 6:26

Siamo nella stessa lunghezza d'onda Gerry.

... invece di essere distribuito gratuitamente.


Se le persone vengono spinte dalla pubblicità all'accaparramento di beni, si può credere che bisogna creare una cultura della condivisione. Questo però è inefficace perché è nel singolo che si deve scoprire cosa ci edifica. Credo che sia necessario approfondire individualmente la spiritualità e con essa i valori della condivisione che sono profondamente incisi nella nostra natura. L'avidità di beni materiali è insaziabile semplicemente perché non soddisfa i nostri bisogni profondi: è come confondere il piacere con la felicità. Un sano volontariato invece fa scoprire l'altro sofferente e la condivisione con questa umanità ci realizza e ci fa stare bene con noi stessi. È un pò come il sale che messo in piccola quantità nella pentola da' sapore a tutto quello che c'è dentro. Le mode hanno sempre diluito e raggiunto anche le cose e le attività migliori.

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 6:33

Sono pienamente d'accordo con te. Il volontariato, nella sua forma autentica, dovrebbe essere un'occasione per riscoprire i valori più profondi della nostra umanità: la condivisione, la solidarietà e la capacità di entrare in connessione con chi soffre. Purtroppo, però, negli ultimi anni abbiamo assistito a una trasformazione preoccupante. Il volontariato è diventato una macchina mangia-soldi, svuotato del suo significato originario e piegato alle logiche di mercato e immagine.

Un esempio lampante è il fenomeno del volonturismo, che tra il 2005 e il 2017 (se i dati non mi tradiscono) ha generato qualcosa come 172 miliardi di dollari . Giovani inesperti, spesso privi di reali competenze, vengono mandati in Africa e in altri luoghi di crisi solo per alimentare un business che sfrutta il dolore come sfondo per selfie e contenuti social. In sostanza, abbiamo trasformato l'Africa in un grande zoo, senza neanche rendercene conto, spinti dalla nostra avidità di like e condivisioni.

Questo non solo svilisce le comunità locali, ma crea anche un danno culturale immenso. La vera condivisione non nasce dal mostrarsi, ma dall'ascolto, dalla comprensione e da un aiuto che sia concreto e rispettoso. Per questo credo che il volontariato debba tornare a essere un atto di profonda umiltà e consapevolezza, lontano dalla spettacolarizzazione e dalle logiche commerciali.

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 6:37

È come versare dell'aceto nel vino.... un modo di corrompere e cambiare natura alle attività centrate sulla condivisione con l'umanità sofferente. E' successo persino nella religione....

Tutta l'attività sui principali social è motivata dal bisogno di apparire e di mostrarsi. Questo puo' riportare ogni persona che si avvicina al volontariato a snaturarlo, utilizzando i poveri per sentirsi migliore di come realmente si è. Si potrebbe dire che anche il potere che abbiamo attribuito alla fotografia "impegnata" è stato diluito e annacquato dall'uso commerciale delle immagini. Condivido completamente quanto hai scritto.

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 8:21

Grazie per il tuo commento, lo trovo molto lucido e assolutamente condivisibile. L'immagine dell'aceto nel vino è perfetta per descrivere questo processo di corruzione e snaturamento delle attività che dovrebbero essere un ponte verso l'umanità sofferente, e invece diventano strumenti di autopromozione. Purtroppo, il bisogno di apparire ha contaminato molti ambiti, inclusi il volontariato e persino la fotografia "impegnata", che da linguaggio potente di denuncia rischia sempre più di trasformarsi in un semplice prodotto commerciale.

Sono d'accordo anche sull'idea che l'ossessione per i social media possa portare chi si avvicina al volontariato a strumentalizzare i poveri per colmare un vuoto interiore o per sentirsi moralmente superiore. Questo è un tema che mi sta molto a cuore e che cerco di raccontare nei miei progetti, anche per sensibilizzare su come un certo tipo di narrazione visiva e sociale possa essere dannosa e persino offensiva per chi vive situazioni di sofferenza estrema.

Forse la risposta a tutto questo sta nel tornare alla vera essenza di ciò che facciamo, che sia volontariato o fotografia: il rispetto profondo per l'altro e il desiderio di condivisione autentica. Una condivisione che non si mostra, ma che agisce. Ti ringrazio ancora per aver condiviso questo pensiero così profondo.

avatarsenior
inviato il 18 Novembre 2024 ore 8:44

Ci sono cresciuto con queste immagini e già in Africa si moriva di mal nutrizione. Da sempre.
Sono immagini che scuotono l'anima?
Si lo sono, ma l'animo umano fa anche schifo.
I potenti del mondo e io ci aggiungo anche le chiese e le loro religioni dove sono?
Questo paese che nasce e muore ogni giorno a chi fa comodo?

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 8:51

Dove siamo noi tutti, i cambiamenti devono partire da basso!

avatarsupporter
inviato il 18 Novembre 2024 ore 9:10

Hai ragione, Dokker , e sento profondamente quello che dici. Faccio il reporter da dieci anni, e in questo momento mi trovo nella RDC, un luogo dove ogni giorno è un pugno nello stomaco per chi è testimone diretto delle ingiustizie. A breve tornerò in Italia, ma quello che sto vedendo qui è semplicemente assurdo. Fa male.

Il Ruanda sta letteralmente stuprando il Congo, e Paul Kagame, presidente del Ruanda, se non fosse per il sostegno dell'Occidente, oggi sarebbe in prigione, che è esattamente il posto in cui dovrebbe trovarsi. Ma non è solo Kagame. L'Africa intera viene violentata, privata della sua anima, sfruttata senza pietà. Io vedo e ho visto troppe ingiustizie per restare indifferente, e ogni giorno rifletto su quanto sia necessario fare di più.

Ho scritto un libro su queste tematiche, ed è qualcosa che, in parte, affronta anche Dambisa Moyo. Negli ultimi anni, in Africa sono arrivati ben 515,18 miliardi di dollari in aiuti, ma guarda caso i paesi che hanno ricevuto le maggiori sovvenzioni sono spesso gli stessi da cui parte l'esodo verso il Mediterraneo. È chiaro: la carità uccide. Le sovvenzioni, anziché risolvere i problemi, perpetuano una dipendenza tossica e rafforzano sistemi di potere corrotti.

Eppure, nonostante questa consapevolezza, sento che è nostro dovere non restare a guardare. Non so se riuscirò mai davvero a scuotere le coscienze, ma devo provarci. Sto lavorando a un progetto a cui tengo molto, chiamato Oblivion, attraverso cui voglio raccontare il male del mondo che ho visto e vissuto. È un progetto nato dalla sofferenza, ma anche dalla necessità di ricordare, denunciare e sensibilizzare. Spero che possa arrivare, che possa smuovere qualcosa.





 ^

JuzaPhoto contiene link affiliati Amazon ed Ebay e riceve una commissione in caso di acquisto attraverso link affiliati.

Versione per smartphone - juza.ea@gmail.com - Termini di utilizzo e Privacy - Preferenze Cookie - P. IVA 01501900334 - REA 167997- PEC juzaphoto@pec.it

www.juzaphoto.com - www.autoelettrica101.it

Possa la Bellezza Essere Ovunque Attorno a Me