| inviato il 03 Gennaio 2018 ore 10:17
www.raiplay.it/video/2017/12/FILM-Austerlitz-5f19087c-bd45-4fac-a18e-2 Ricopio la recensione ricevuta dalla MailList di Stefano Zenni, che dà al film il massimo dei voti: Austerlitz, di Sergei Loznitsa (Germania, 2016), 5 Visto su RaiPlay, ma in tv, non sul computer. V.o. sott. ita. Prodotto nel 2016 e presentato a Venezia, uscito nel 2017, distribuito in Italia da Lab80 e rimasto sostanzialmente invisibile, questo film si impone come uno dei capolavori dell'anno: non a caso Fuori Orario gli ha dedicato la notte di San Silvestro. Loznitsa è un regista ucraino, che passa dal documentario al cinema di finzione: questo “Austerlitz” prende il titolo da un grande libro di W.G. Sebald, il cui protagonista, Jacques Austerlitz, riscopre il suo passato attraverso l'olocausto. Qui il titolo ha solo funzione di suggestione: il tema del passato, quello delle immagini (il libro di Sebald è costellato di illustrazioni), la ricerca della memoria. Queste suggestioni diventano nel film di Loznitsa - in bianco e nero e quasi privo di dialoghi - una lucidissima opera su storia, sguardo, vita. Il film può essere letto a vari livelli. In superficie vediamo l'allucinante flusso turistico che affolla il campo di concentramento e sterminio di Sachsehausen, non lontano da Berlino, uno dei primi ad essere edificato dai nazisti. Quello che vediamo ha dell'indicibile: una massa straripante di turisti di mezzo mondo (si sentono lo spagnolo, il tedesco, l'inglese) si aggira per i luoghi dell'orrore, che noi non vediamo, ma che intuiamo. Già questo basterebbe a rendere il film sconcertante. Poi c'è un secondo livello: gran parte dei turisti scatta foto o si fa selfie, per cui tutto il film diventa un gigantesco documento della vacuità narcisistica, dell'usa e getta della vita e delle immagini, in un consumo del male e del dolore privo di spessore. A un terzo livello c''è un discorso sull'immagine appunto: perché mentre la gente scatta compulsivamente foto, ascolta le audioguide, segue le guide turistiche, mangia panini, cazzeggia ecc., c'è Loznitsa che con focali lunghissime riprende da lontano il tutto: ovvero, il pubblico non ha un punto di vista forte, scatta foto a caso, gira fulmini in modo sciatto, mentre non sa di essere oggetto di uno sguardo rigoroso, geometrico, in altre parole *etico*, che sceglie, calibra, monta, include ed esclude. Il quarto livello è il più inquietante: non solo i turisti, che si credono protagonisti, diventano pubblico, oggetto di sguardo, e vengono incorporati in un dispositivo etico, ma all'improvviso diventano possibili fantasmi del passato. Perché quella varietà umana che sciama tra forni crematori e camere di tortura è la stessa che ha attraversato con dolore quei luoghi, con la varietà di provenienze, fisionomie, lingue, culture, corpi, sguardi, desideri che oggi si incanno nei turisti. Qui Loznista non deve fare niente: gli basta lo sguardo fisso della camera, l'astrazione del b/n, l'attenzione al sonoro (magistrale la scena delle porte che si aprono e chiudono) per farci apparire magicamente i fantasmi del dolore che i turisti stessi sembrano ignorare. Forse è quella stessa inconsapevolezza della Storia che le vittime vivendo sulla loro pelle, lo stesso sgomento casuale. In ogni caso il corto circuito temporale diventa una delle forze più elettrizzanti del film. Il giudizio di Loznitsa non è sempre feroce: anzi, quasi non giudica, perché si limita a osservare il comportamento delle persone. E sa cogliere momenti di assoluta, intensa pietà, come verso la fine, con quelle persone che guardano qualcosa per terra (fuori campo) e esprimono un profondo turbamento (ma non manca mai qualcuno che passa dietro e fa delle foto). Il tema del turismo di massa ormai è al centro del dibattito (si veda l'ultimo libro di Marco D'Eramo o un recente numero di Internazionale). “Austerlitz” va oltre, perché riesce a sollevare domande tremende sul rapporto tra la nostra epoca, il modo in cui fruiamo la Storia e il fantasma della Storia stessa che ci insegue, con il rischio terribile che, visto come ci comportiamo, possa ripetersi ancora. Stefano
 www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2017/01/20/news/_austerlitz_-15640 www.sentieriselvaggi.it/austerlitz-di-sergei-loznitsa/ Il regista è riuscito perfettamente a camuffarsi nello spazio nonostante l'attrezzatura ingombrante: pochissimi guardano in camera, forse perché troppo occupati a guardare le proprie videocamere, cellulari, macchine fotografiche: il turista di Austerlitz è come cieco. Eppure, se la posizione del regista emerge come così audace da risultare quasi offensiva, in un “genere” che non ha conosciuto sperimentazione dal monumentale Shoah di Claude Lanzmann, qui Loznitsa affronta l'olocausto nella non-fiction come nessuno ha fatto prima d'ora. L'architettura è l'unico soggetto che rimane sempre a fuoco in ogni scena, l'unico che inquadratura dopo inquadratura mantiene una qualche aura di dignità. Siamo incollati allo schermo per un'ora e mezza, a guardare immagini apparentemente prive di senso. Ma è proprio in questo contrasto—l'evidenza storica del luogo e l'impossibilità di spiegarlo—che, forse, possiamo trovare il significato più profondo. www.cineforum.it/intervista/Sergei-Loznitsa-su-Austerlitz |
user12181 | inviato il 03 Gennaio 2018 ore 11:58
Piccola correzione: Sachsenhausen non era un campo di sterminio (Vernichtungslager) ma di concentramento (Konzentrationslager), i campi di sterminio erano una sottospecie dei campi di concentramento, non stavano in Germania né in Austria, erano sei nei territori polacchi occupati e, secondo Wikipedia tedesca, due nell'Unione sovietica occupata. Vedi la carta qui de.wikipedia.org/wiki/Vernichtungslager la differenza consiste nel fatto che i campi di sterminio erano espressamente finalizzati allo sterminio, nei campi di concentramento non era previsto uno sterminio organizzato in forma industriale, i detenuti morivano come le mosche (ma comunque in genere in quantità minore che nei campi di sterminio) ma per singoli ammazzamenti, non pianificati, per malattia ed esperimenti di medicina criminale. Ovviamente questa distinzione non compare in documenti ufficiali nazisti, dove non si parla mai di sterminio e si usano termini convenzionali di mascheratura come "soluzione finale" e simili. |
| inviato il 03 Gennaio 2018 ore 21:21
Sinceramente non mi dice proprio niente sto documentario |
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