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Mustafa Sabbagh







avatarsenior
inviato il 17 Febbraio 2016 ore 14:30

Artista italo-palestinese, Mustafa Sabbagh è un vero talento dietro la macchina fotografica. Assistente di Richard Avendon a Londra, grazie al quale si è formato come fotografo, ha collaborato negli anni con grandi nomi della fotografia e della moda, dal Central Saint Martins College of Art and Design, alle prestigiose testate di moda, pubblicando shooting pubblicitari su vere istituzioni del fashion come Vogue, The Face e Sport&Street.

Negli scatti di Sabbagh è spesso difficile capire il confine tra femminile e maschile, un'ambiguità che negli anni è diventata una delle sue cifre stilistiche, sorta di contro-canone estetico nel quale il fotografo attua un'assoluta sovversione dei codici di abito e di genere, stilemi trasposti con naturalezza sulla carta patinata. Non a caso il fenomeno dell'agender, ossia il rifiuto dei tradizionali concetti di identità maschile e femminile, si sta imponendo da tempo nel mondo della moda, abbattendo i confini tra uomo e donna.

Un futuro con un guardaroba unico non è fantascienza ma una realtà esplosa sulle passerelle internazionali: da Gucci a Prada, passando per Comme des Garçons e Jean Paul Gaultier, da qualche stagione l'interscambiabilità di ruoli è diventata un vero trend: "Lavoro da anni con il fenomeno dell'agender, credo che prima di tutto venga l'individuo, e l'individuo non ha sesso - afferma il fotografo - Il sesso è l'ultima cosa che conta in un individuo, bisogna passare attraverso mille altri aspetti, come la chimica, il cervello, la personalità, prima di etichettare. Io sono un esteta, se questo è un difetto, allora sono pieno di difetti".

Oltre la moda, la pelle. Fil rouge dell'arte di Sabbagh è proprio l'epidermide, ma anche le vene:

"La pelle, l'ho sempre detto, è il nostro diario - rivendica Sabbagh - Le nostre sofferenze, il tempo, viene tutto scritto sulla nostra pelle. Amo qualunque tipo di segno che rimanga, sia temporaneo che permanente, anche una scottatura o una cicatrice di un incidente perché la pelle registra tutto, come un diario. Io sono un feticista della pelle perché la pelle porta i nostri codici, quindi sotto la pelle si vedono le vene, il sangue, è la vita che scorre, e per me è importante questo, questa è vita, non un feticismo erotico".


Sabbagh dipinge spesso di nero la pelle come sfida tecnica e personale, usando la fotografia come un vero e proprio linguaggio per comunicare con il mondo: "Ognuno di noi usa una lingua e la mia vera lingua credo che sia la fotografia, riesco più a esprimermi attraverso la sintesi dello scatto che con le parole - confida il fotografo - mi interessa il fatto che la fotografia sia uno strumento democratico, tutti possono fare fotografia, ci vuole però talento e preparazione, e soprattutto la cultura, che è il cibo migliore per la fotografia".

Sovvertire i canoni estetici della moda sembra essere la missione di Sabbagh, facendo sempre attenzione, però, a mantenere un equilibrio tra estetica ed etica:

Per me la bellezza non è canonica ma consiste nell'arte di stare in bilico - afferma Sabbagh - La bellezza è il funambolo che cammina sul filo nel romanzo di Jean Genet, sono i 'Ragazzi di vita' di Pasolini, non esiste un termine di perfezione della bellezza, la perfezione è la più grande falsità che ci vogliono vendere in questa società
Partendo dal presupposto che la perfezione non esista io accetto qualunque tipo di bellezza, quindi i difetti, e i difetti sottolineano la nostra diversità, la nostra personalità. La bellezza si sente con lo stomaco e poi si guarda con gli occhi, se la moda è intesa come clonazione, allora non voglio farne parte, se invece moda vuol dire dare uno strumento in più alla personalità allora sì, ben venga la moda come strumento culturale, purché rimanga questo, un grande strumento culturale.


www.facemagazine.it/wp-content/gallery/mustafa/mustafa_sabbagh001.jpg

www.art-vibes.com/wp-content/uploads/2015/04/mustafa-sabbagh_onore-al-

www.ferraraitalia.it/wp-content/uploads/2015/01/MustafaSabbagh-x-Corpo

www.themammothreflex.com/wp-content/uploads/2015/08/0_mustafa-sabbagh_

www.estense.com/wp-content/uploads/2015/05/Modella-cinese-nuda.jpg

deliaposadino.files.wordpress.com/2014/04/mustafa_sabbagh-07.jpg

avatarsenior
inviato il 17 Febbraio 2016 ore 14:42

Video di Sky Arte:
vimeo.com/60067889

user39791
avatar
inviato il 17 Febbraio 2016 ore 17:34

Artista veramente interessante. Si definisce un estesa, io lo definirei come un esteta dell'inquietudine. Ottima segnalazione.

avatarjunior
inviato il 17 Febbraio 2016 ore 17:49

Quando lo vidi per la prima volta su sky arte, vedi il link, rimasi abbastanza perplesso.
Forse perchè non mi interesso di moda..non concepisco gli stilisti che spingono le donne all'anoressia, il mio pensiero segreto è che in fondo preferiscono maschietti androgini, sicuramente un artista..certamente non il mio tipo.....MrGreennon certamente uno che copierei........

avatarjunior
inviato il 17 Febbraio 2016 ore 18:32

La fotografia di moda non è il mio genere ma riconosco una grande abilità in questo fotografo...mi piace la definizione di Filiberto "esteta dell'inquietudine"...inquietudine è proprio quello che provo osservando le sue fotografie.
Mi chiedo però come mai la fotografia di moda in generale mi dia questa impressione...sono un po fissati in quel mondo con l'inquietudine, sono un bel gruppetto di repressi/depressi, o è solo una mia visione distorta da osservatore esterno? Eeeek!!!
Ottima segnalazione comunque, grazie! ;-)

avatarsenior
inviato il 18 Febbraio 2016 ore 8:44

sono un bel gruppetto di repressi/depressi,

Ho una domanda: ma tu vedi solo cose belle nel mondo?
Non lo sto dicendo in tono polemico ma,stiamo parlando di strange photography, autore usa indubbiamente toni cupi ma perchè parli di depresso o represso?
Vorrei ricordare che è stato definito uno degli "otto artisti più significativi del panorama nazionale contemporaneo". Secondo il curatore e storico dell'arte Peter Weiermair, Sabbagh è "uno dei cento fotografi più influenti al mondo", e l'unico italiano fra i quaranta ritrattisti di nudo più importanti su scala internazionale.

Mi incuriosisce commento di Skyler su anoressia, le foto pubblicate qui sono ovviamente lavori personali e non fanno parte della foto commissionate di moda (alcune però sono state pubblicate anche su Vogue) anche se l'influenza del genere si nota nell'estetismo del fotografo, io nelle sue foto noto molti uomini, anche donne decisamente sovrappeso (fotografate in più di un'occasione), comunque corpi non sempre perfetti, ma non noto una ricerca della modella anoressica.

i.vimeocdn.com/video/492648163_1280x720.jpg

www.yatzer.com/sites/default/files/article_images/2348/About-Skin-by-M

2.bp.blogspot.com/-N7laNecVBcA/UPwKvRL_HFI/AAAAAAAAAbs/WzCmYTLYjh0/s16


4.bp.blogspot.com/-PpfukTVsU9Q/VN85jgAfTvI/AAAAAAAAHbk/0q4sgr2Q1s8/s16

avatarjunior
inviato il 18 Febbraio 2016 ore 9:32

Assolutamente non vedo solo cose belle Labirint, magari vedessi solo cose belle!
Anzi, per motivi di studio, e in futuro professionali, sono in continuo contatto con la sofferenza della gente...ma il fatto che il mondo sia tutto fuorché un luogo idilliaco non credo giustifichi questa ossessione generalizzata per i temi cupi, soprattutto in un campo come quello della moda...posso capirlo nel reportage, ma nella moda?
Per dirla in parole semplici, potrebbero anche farlo sorridere un modello ogni tanto...non credo ci perderebbero d'immagine!
Al di là di questo fotografo in particolare, ho come l'impressione che un po' tutto il mondo della moda (ma anche le avanguardie artistiche) utilizzi questo tipo di "modo di presentarsi", legato appunto a toni cupi ed inquieti (per questo parlo di depressi...perché si propongono come depressi) e sinceramente non mi spiego il perché...Confuso

avatarsenior
inviato il 18 Febbraio 2016 ore 9:54

Allora per esperienza ti dico che non è banale far sorridere le modelle e che il sorriso sia convincente e non forzato e in linea generale spesso funziona meglio se ha faccia seria per una serie di ragioni, per esempio non appaiono imperfezioni ecc..
Molte modelle non vogliono sorridere, la loro "Magnum" è fatta con espressione seria, a me personalmente non fanno impazzire foto con modelle sorridenti, anche nelle mie foto non sorridono mai.
Io farei però delle distinzioni, vanno di moda certe scelte stilistiche come le modelle tatuate e una cerca ricerca che a volte richiama il neogotico, ma credo che questo autore usi un linguaggio molto personale che non dipende da un fatttore di "moda".

sinceramente non mi spiego il perché...

Perchè nei paesaggi ormai tutti usano una certa post e se non usi quello stile non ti caga nessuno?
Vai su 500Px, 1x e altri siti che raccolgono immagini e ti accorgi che ci sono degli stili che piacciono e che vanno, molti si mettono su questa scia

avatarjunior
inviato il 18 Febbraio 2016 ore 10:05

Grazie Labirint per la risposta! Mi hai fatto capire che da una parte c'è il "seguire il mood del momento" come in tutti i campi della fotografia, ma dall'altra ci sono anche ragioni più fondate per l'utilizzo di certe scelte...ragioni a cui non avevo pensato! Grazie ;-)

avatarsenior
inviato il 18 Febbraio 2016 ore 14:18

Un'interessante intervista al fotografo


FP: Quando è iniziato tutto, quando hai avuto i primi rapporti con la fotografia e come si sono sviluppati?

MS: Se parli di rapporti, ho avuto il mio primo, precoce, rapporto intorno ai 6 anni, in Giordania, scoprendo una Polaroid in un cassetto, innamorandomi come solo un bambino si sa innamorare. Rapportarmi all’obiettivo è diventato esso stesso, immediatamente, obiettivo finale, insopprimibile come solo i grandi amori o le esigenze primarie. A distanza di tempo, percepisco quell’incontro nei termini di un’agnizione, più che di una scoperta… “Il quadro deve essere per l’artista, come per chiunque altro ne farà esperienza più tardi, una rivelazione, una risoluzione inattesa, inaudita, di un bisogno eternamente familiare” (Mark Rothko). Io sento il bisogno di visualizzare materialmente ciò che mi attrae, mi respinge, mi affascina, mi spaventa; ho bisogno di puntare la luce su ciò che, ancora, non mi è del tutto chiaro.


FP: Hai mai seguito dei corsi o frequentato dei workshop? Intendo da allievo… so che ne hai anche tenuti diversi :)

MS: Certo, ho seguito corsi, e certo, ho frequentato workshop, in Italia e all’estero; altrettanto certo è che non ho mai smesso di essere allievo. Cambiano solo i docenti: quella che ascolto con maggiore attenzione, adesso, è la strada, ventre che mi accoglie e percorso che mi guida, con una generosità che difficilmente trovi in aula magna…

FP: Quali sono i tuoi rapporti con l’insegnamento? Cos’è che insegni, o cerchi di insegnare, più di ogni altra cosa? Cosa non si può invece imparare (sempre che non si possa)?

MS: Orgogliosamente incoerente, quando insegno non amo salire in cattedra, ma mi siedo al banco assieme ai colleghi che vengono ad ascoltarmi. Non credo nei didatticismi, soprattutto se mi trovo a parlare di fotografia. Un amore non lo insegni, non lo fotocopi, lo puoi solo vivere e raccontare. Quello che cerco di raccontare dunque, e non di insegnare, è un atteggiamento di profonda apertura mentale, condicio sine qua non che può essere supportata solo da un’altrettanto profonda cultura. La tecnica ha un suo peso, certo, ma “l’evoluzione della tecnica è arrivata al punto di produrre l’inermità di fronte alla tecnica” (Karl Kraus). Io cerco di trasmettere soprattutto la volontà di non essere inermi attraverso la comunicazione delle immagini consce, ma soprattutto inconsce, presenti in ognuno di noi.

FP: Hai lavorato per moltissimi anni nel campo della moda; cosa ti porti dietro da quello che hai vissuto in quel periodo? Quanto ti ha segnato il rapporto che hai vissuto spalla a spalla con Richard Avedon?

MS: Il rapporto con Avedon, che custodisco con la stessa devozione con cui si custodiscono le cose più preziose, mi ha segnato nella misura in cui mi ha in-segnato che ciò che conta non è il nome, non è la tecnica; è l’empatia con il nome, l’adattabilità della tecnica, rispetto al soggetto ed al messaggio. Marshall McLuhan diceva “Il medium è il messaggio”: Avedon mi ha insegnato a traslare questo concetto nell’immagine, e ad accarezzarlo rispetto a ciò che vuoi comunicare.

FP: Quanto pianifichi gli shooting e quanto, invece, lasci all’istinto?

MS: Credo che, in me, la fase di pianificazione sia costante. Non solo in studio, ma anche visitando una mostra, esplorando una nuova città, stringendo un’altra mano… Tutto riemerge nelle mie foto, al punto che vivo tutto come fosse stadio progettuale. Per tornare alla domanda precedente, questo è certamente un retaggio ereditato dagli anni in cui ho lavorato nella moda, così come dalla laurea in architettura. Fotografare un vestito di McQueen non è poi così diverso dal fotografare un imponente palazzo barocco, perché anche l’abito si abita. Ora, però, non mi interessa il modo di indossare un abito, quanto il motivo per cui lo si indossa: mi interessa la psicologia, più che l’estetica. È chiaro che, in questo tipo di ricerca, lasci spazio all’istinto. Ma chiedermi quanto spazio io riservi all’istinto significherebbe ingabbiarlo nella progettualità, e questa sarebbe una contraddizione in termini, non trovi?

FP: Chi decide lo styling e chi sceglie i modelli? Quali sono i tuoi rapporti con le persone che hai intorno durante gli shooting?

MS: Quando ne ho l’opportunità lavoro da solo, semplicemente perché mi risulta più facile comunicare le mie idee attraverso lo scatto finale. Nel casting come nello styling, opero per contrasto: disturbo quando la forma è perfetta, dissacrandola, ed ingentilisco quando non lo è, sacralizzandola, nell’ottica di portare in luce l’autenticità dell’individuo ? umanamente sacra, religiosamente profana. La tensione che si viene a creare tra me e l’effigiato nell’atto dello scatto, e dunque della verbalizzazione del mio messaggio, è talmente intensa che in quel momento preclude ogni altro tipo di rapporto umano; allinearsi con il proprio inconscio è quanto di più totalizzante io possa sperimentare… “Creare non è un gioco un po’ frivolo. Il creatore si è impegnato in un’avventura terribile, che è di assumere su di sé, fino in fondo, i pericoli che corrono le sue creature” (Jean Genet). È un atto per me sublime, nell’accezione propria del romanticismo… e, quando si tratta di atti romantici, non ammetto infedeltà.


FP: Conosci personalmente i collaboratori di cui ti avvali o si tratta di professionisti diversi di volta in volta?

MS: Dipende dalla natura dei progetti, se si tratta di commissioni o di lavori personali. Sono naturalmente portato alla socievolezza, come ogni buon selvaggio rousseauiano; tuttavia, se ho bisogno di supporto per lavori particolarmente impegnativi, preferisco contare sulla mia “famiglia”: persone che amo, delle quali mi fido, che conoscono e condividono la mia visione, con le quali ? per me che sono fondamentalmente, fieramente autistico, da questo punto di vista… ? basta uno sguardo per intendersi.

FP: Hai ancora dei lavori commissionati o si tratta soprattutto di progetti personali?

MS: Entrambi. Quando convivi con un’esigenza, l’essenziale è che essa possa essere placata; l’unica condizione che pongo è, tuttavia, quella di poterla comunicare secondo la mia lingua. Ancora una volta, si tratta fondamentalmente di una questione di fedeltà… e di un certo feticismo, perché rappresentare le proprie visioni proiettandovi sopra le proprie costruzioni mentali ha certamente un che di fetish.

FP: Qual è l’attrezzatura con cui scatti abitualmente? Digitale o pellicola?

MS: Ultimamente scatto spesso in digitale, per una pura questione di praticità e di immediatezza. Ma mi capita di avvertire l’esigenza della pellicola, in relazione al gusto che intendo conferire ad un’opera. Quando voglio richiamare la memoria preferisco la camera oscura, ricordandomi di Proust quando scrisse che “la fotografia acquista dignità quando cessa di essere una riproduzione del reale, e ci mostra cose che non esistono più”. Con il digitale è lo studium, con la pellicola è il punctum.
In ogni caso, resto dell’idea che un’immagine potente trascende dal mezzo. Il fatto che la quasi totalità della popolazione possegga un’automobile, non fa automaticamente di te Ayrton Senna…

FP: C’è della post-produzione nel tuo lavoro? Te ne occupi personalmente?

MS: Spessissimo non c’è. La post-produzione c’è, e me ne occupo personalmente, nella misura in cui non altera l’autenticità; questo per me è imperativo. Non è nella mia natura mettere sotto accusa qualsiasi tipo di libertà, dunque neanche quella di usare i mezzi come meglio si crede; ma posso dirti che, per quanto mi riguarda, spesso la perfezione mi annoia, e percepisco la smania di perfezione veicolata da un certo tipo di fotografia non più che uno sterile esercizio di stile. Nel momento in cui poni al centro dei tuoi pensieri l’umano, troppo umano, non puoi prescindere dall’amore per l’imperfezione; in quest’ottica, la post-produzione è un artificio, che allontana dalla verità sacrale di una cicatrice. Amare le imperfezioni significa leggere le diversità connaturate a ciascun essere umano in quanto persona, e non in quanto modello a cui ambire. L’ambizione ad un modello imposto è la colpa più mistificante, aberrante e deviante di cui l’individuo, e la società, si stiano macchiando; e nella costruzione dell’immaginario, trovo la post-produzione selvaggia un’arma decisamente subdola e ingannevole.


FP: Trai ispirazione da qualche fotografo o corrente artistica, o ti affidi solo al tuo gusto?

MS: Mapplethorpe e Man Ray, Caravaggio e Van Der Weyden, Pieter Hugo e Bourdin, Lucian Freud (e a tratti anche Sigmund), Giovanni Battista Pergolesi e i Nine Inch Nails, Pasolini e Kubrick, Anna Magnani e Leigh Bowery, i miei amici e i social networks… Davvero è utile farti una lista di nomi? Non basterebbero dieci schermate di questo sito… Proprio ieri notte mi perdevo negli Shakespeare’s Sonnets di Bob Wilson, contaminazione visionaria del gioco delle parti, e qualche giorno fa, invitato come giurato ad un concorso dalla Cambre Mode’s di Bruxelles, ho visitato la personale di Michaël Borremans, cantore di una tensione silenziosa e a tratti nonsense… In definitiva, inspiro ed espiro; assorbo, rielaboro e lascio riaffiorare costantemente. È la mia forma di fotosintesi, per produrre il mio ossigeno, e ? come ogni cosa necessaria, benedizione e condanna ? è un processo che non trova mai sosta.

FP: Non ti esprimi solo con fotografia ma sono tue anche diverse produzioni video (cortometraggi, campagne pubblicitarie e video musicali… complimenti anche per la collaborazione con gli Aucan!); cosa preferisci del video rispetto alle foto, e viceversa?

MS: Per come li concepisco, il video non è altro che una sequenza di scatti, e la fotografia è un frame estrapolato da un video. Sono entrambi figli del lavoro sull’immagine, l’uno dinamico, l’altro statico. Dello scatto amo la sintesi, la sua ferita immediata, il piacere che ritrovo nella subitaneità; d’altro canto, il video è piacere prolungato… ma entrambe sono modalità diverse della stessa mia forma di… onanismo, ecco.


FP: Le persone sono il tuo soggetto principale. Ci sono altre cose che ti attraggono tanto quanto gli “esseri umani”? :)

MS: Periodicamente mi ritrovo a lavorare sui dittici: accosto un ritratto ad un paesaggio, o semplicemente ad un elemento naturalistico o architettonico, suggestionato da un particolare comune, formale o sostanziale, o da un elemento completamente discordante… perché credo che sia il contesto a creare la sostanza. Oltre ad abitare la nostra pelle, noi abitiamo il nostro contesto. Io sono il posto che vivo, abito la natura, ed abito la mia natura. “It is my daily mood that makes the weather”, scrisse Goethe… In definitiva, oltre agli esseri umani, sono attratto dalla componente umana presente nella natura, negli oggetti, negli spazi, ma anche dalla sua assenza. Ancora una volta, la contaminazione…

FP: Sono stata recentemente alla Paggeria d’Arte di Sassuolo per visitare la tua mostra “Almost True” e sono stata rapita dai tuoi neri profondi e dai volumi accennati da leggeri giochi di luce; cos’è, per te, “quasi vero”?

MS: Il comunicato stampa di Almost True, regalatomi da Fabiola Triolo, si apriva con una frase di Jean Baudrillard secondo la quale la fotografia è una messinscena, un esorcismo tutto umano. Per Oscar Wilde, “una verità, in arte, è quella di cui è vero anche il contrario”. Di conseguenza, in questo micromondo fatto di immagini, tutto è vero e tutto non lo è, perché la verità non è una ed unica. La verità, per me, non è un dogma. Ognuno ne possiede una propria, irriducibile rispetto a quella di chi lo affianca. Io stesso, in quanto fotografo ma soprattutto in quanto uomo, smaschero inganni perpetrandone degli altri: quegli inganni perpetrati sono le mie verità ? o meglio, le mie quasi-verità.


FP: Dalle tue foto traspare una profonda inquietudine, una bellezza che attrae e respinge allo stesso tempo, disturba e affascina; è elegante anche quando spudorata, pare nascondere messaggi segreti che solo tu conosci… cos’è importante comunicare, secondo te, e perché PROPRIO con la fotografia?

MS: Perché, a partire dal giorno in cui ho aperto quel cassetto a 6 anni, ho acquistato sempre maggiore consapevolezza del fatto che ? per me accanito nomade, con la valigia sempre a portata di mano ? la fotografia era la mia madrelingua, il mio esperanto. La fotografia è il mezzo più veloce per quanto profondo, più democratico per quanto gestito da un solo uomo, il mio codice linguistico prediletto. È la panacea attraverso la quale appago il bisogno non tanto di proclamare, quanto di indagare ? me stesso in primis, le mie passioni, le mie ossessioni. La smania di conoscere per dissacrare, per magnificare, per autenticare l’immagine che custodisco, mia e di chi catturo, a prescindere da chi la guarderà… o, forse, anche per chi la vorrà e la saprà guardare, perché “nulla ? soprattutto non gli applausi o le risate ? ti impedirà di danzare per la tua immagine”.

FP: Dopo averci tanto girato intorno, una domanda a bruciapelo: cos’è per te la Bellezza e come riesci ad esprimerla attraverso delle immagini tanto paradossali (come probabilmente le intendono i più)?

MS: La bellezza è un fiore appassito, che continua tenacemente a profumare. Sono le occhiaie che ti segnano dopo il troppo lavoro, o il troppo piacere. Hai presente The ballad of sexual dependency, di Nan Goldin? Il modo in cui si pone fiera davanti all’obiettivo, nonostante I suoi lividi, è bellezza. Un paio di scarpe distrutte dal tanto camminare. La bellezza è lo scarto intuitivo di chi, posto davanti all’autenticità, ha gli strumenti per costruirsi una propria storia.

FP: Vorresti parlarci di un progetto, o di una foto, cui sei particolarmente legato spiegandocene i motivi?

MS: Potrei risponderti citando i lavori pubblicati su riviste prestigiose, i ritratti delle top-models più famose, le opere esposte in musei internazionali… In realtà, probabilmente per una forma di autodifesa, mi ritrovo ad amare allo stesso modo ognuno dei miei progetti, e una volta terminati, ad archiviarli con lo stesso distacco proprio di chi è già posseduto da un nuovo amore, da un nuovo viaggio, da una nuova prospettiva. Ecco perché il progetto cui sono particolarmente legato è sempre quello in atto.

FP: Qual è la domanda che non ti hanno mai fatto ma che avresti sempre voluto che ti venisse posta?

MS: “Lo lascio in bianco, mette lei la cifra?”

FP: Grazie mille Mustafa per aver condiviso con noi il tuo pensiero!
Consiglio di approfondire l’ampio lavoro di Sabbagh visitando il suo sito all’indirizzo www.mustafasabbagh.com e il suo portale Vimeo


www.fotografiaprofessionale.it/wp-content/uploads/2014/07/prop_pg006.j

www.fotografiaprofessionale.it/wp-content/uploads/2014/07/prop_pg019.j

www.fotografiaprofessionale.it/wp-content/uploads/2014/07/prop_pg016.j


avatarsenior
inviato il 18 Febbraio 2016 ore 15:06

Grande artista, qualche anno fa vidi un documentario suo su Sky

avatarjunior
inviato il 18 Febbraio 2016 ore 20:58

Mi incuriosisce commento di Skyler su anoressia, le foto pubblicate qui sono ovviamente lavori personali e non fanno parte della foto commissionate di moda (alcune però sono state pubblicate anche su Vogue) anche se l'influenza del genere si nota nell'estetismo del fotografo, io nelle sue foto noto molti uomini, anche donne decisamente sovrappeso (fotografate in più di un'occasione), comunque corpi non sempre perfetti, ma non noto una ricerca della modella anoressica.


Beh..............diciamo che non amo ciò che sta dietro la moda, avendone fatto parte anche per soli due anni. Le fanno morire di fame letteralmente..poi si riempiono di robaccia..........
L'ultima modella in grigio scuro è secca come un ramo, sembra morta...poi fotografare gli uomini con il ...pis..in piena vista e anche le donne ,non riesco a capirlo..anzi lo capisco anche troppo bene..MrGreencmq. il mondo è bello perchè è vario..

avatarsenior
inviato il 19 Febbraio 2016 ore 8:42

Letto il primo commento ho pensato: mi sembra solo un commento su un genere in particolare e distaccato dal lavoro personale del fotografo in discussione (che può anche tranquillamente non piacere visto la particolarità).
Letto il secondo commento ho solo avuto conferma della mia prima impressione.
Ma è giusto che ognuno abbia sua visione e opinione.

Aggiungo che in diverse delle sue foto non sono ritratti modelli professionisti ma gente comune

www.artribune.com/wp-content/uploads/2014/03/Dialogo-inventato-con-Mat

www.artribune.com/wp-content/uploads/2013/05/gabri_MG_2769.jpg

s-media-cache-ak0.pinimg.com/564x/1d/a2/76/1da276cd5faf04edd81c0b77b45

3.bp.blogspot.com/-JtNQXF2o6X0/US1s9kSzgYI/AAAAAAAAJIo/tjxK8VAUUaU/s16

avatarsenior
inviato il 27 Novembre 2017 ore 11:01

Metto il link di una bella intervista, alcuni passaggi mi hanno colpito molto:

www.maledettifotografi.it/interviste/mustafa-sabbagh/

Credi che la fotografia sia democratica?
Lo credevo, ma adesso non più. Pensavo che la fotografia fosse democratica come la parola. Ora ho capito che l'uso dello strumento è naturalmente accessibile e aperto a chiunque, ma la fotografia in sé non è più democratica, bisogna avere una grandissima cultura per poterla fare. La fotografia è un atto consapevole, e per essere consapevole devi avere una grande preparazione.


Questa fotografia così autoriale, che parte dalla realtà e la astrae, non si allontana dall'immediatezza che chi guarda la fotografia si aspetta da questo mezzo?
Parlare di fotografia nel 2017 non è come parlare di fotografia nel 1960. In quel periodo il fotografo aveva anche un compito di documentazione. Adesso chi ha il compito della documentazione è l'immagine, che non è la fotografia. La fotografia è una disciplina precisa.

avatarjunior
inviato il 27 Novembre 2017 ore 12:52

Se si parla di Mustafa mi permetto di citare il Manifesto Incompleto di Bruce Mau da cui trae spunto nel suo percorso myhousemystyle.com/blog/?p=448. Pur non riuscendo ad apprezzarlo a pieno, per miei motivi personali, trovo che sia uno dei pochi fotografi italiani, anche se fotografo è un aggettivo riduttivo per la concezione artistica di Mustafa, che ha una visione internazionale dell'immagine.

Gianguido.

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