| inviato il 30 Novembre 2023 ore 22:49
Io però non capisco una cosa: suppongo che l'età del ghiaccio si ricav8 dalla profondità però allo stesso tempo quella carota dà informazioni sul clima anche in base a quanto ha nevicato in certi periodi. Da ciò ne consegue che gli strati che compongono la carota siano di spessore/età geologica non omogenea. Quindi in pratica manca un termine di riferimento, cioè, faccio un esempio: in un dato periodo nche nevicata tanto o quello strato è così spesso perché relativo a un periodo molto più lungo? |
| inviato il 30 Novembre 2023 ore 23:37
E non solo, se il ghiaccio (in un particolare periodo) si scioglie, può avvenire che nel carotaggio si saltano anni e anni di strati. La datazione però avviene con altri sistemi e non con la semplice conta dei anelli. |
| inviato il 01 Dicembre 2023 ore 8:03
“ Giffan Si chiama paleoclimatologia, ovvero studi e ricostruzioni sul clima e ambiente del passato. Si va dallo studio di roccia e sedimenti, ai carotaggi sul ghiaccio, agli anelli negli alberi. „ Lo studio resta sempre molto interessante, se però in altri campi porta poi a cure e rimedi in questo campo specifico poi l'impotenza regna sovrana, vedi, ne prendi atto e resti solo spettatore al 100%. |
| inviato il 01 Dicembre 2023 ore 8:10
Nell'articolo di Wikipedia linkato da Faggio è spiegato in modo piuttosto semplice (contrariamente a molti articoli, sempre da Wiki, che sono scritti in linguaggio "scientifico" piuttosto ostico, vedi quelli sulla fisica quantistica) quello che è l'approccio alla datazione dei livelli di ghiaccio nei carotaggi. Per un certo periodo "recente" è in genere ben visibile il ciclo annuale di accrescimento basato sulla stagionalità, come per gli anelli degli alberi, ma per questo è essenziale che le "carote" siano estratte da località in cui la stagionalità non sia tale da sciogliere interi accumuli annuali, vedi i Poli; al giorno d'oggi anche l'accumulo ai Poli sta diventando problematico, ma per ciò che avviene oggi possiamo basarci su altri tipi di ricerche. Per il passato invece, la datazione del ghiaccio è "grosso modo" un insieme di tecniche che ricordano comunque la dendrocronologia (la datazione basata sull'accrescimento degli anelli del legno), ma quando le tocca avvalersi a sua volta di tecniche derivate dalla geologia e legate all'attività dei vulcani. Le rocce magmatiche sono quelle che permettono le datazioni cosiddette "assolute" perché in queste rocce si formano minerali di elementi chimici radioattivi, il cui periodo di decadimento è conosciuto e quindi fornisce una datazione molto più precisa di altri metodi. In geologia, ad esempio, è possibile datare con discreta sicurezza una roccia sedimentaria a cui ne sia sovrapposta una magmatica, se il livello di contatto tra le due mostra indizi del fatto che l'evento magmatico sia quello che ha interrotto il normale deposito dei sedimenti: l'ultimo livello della roccia sedimentaria avrà quindi la medesima età di quella magmatica sovrapposta. Però gli eventi vulcanici proiettano nell'atmosfera enormi quantità di polveri e altri materiali più grossolani che contengono frammenti dei minerali di cui sopra; se l'evento vulcanico è sufficientemente importante (come l'esplosione del Krakatoa nel 1883), nel volgere di circa un anno l'intero pianeta sarà avvolto da atmosfera che contiene queste polveri, perciò la ricaduta avrà inizio anche agli antipodi rispetto alla posizione del vulcano, facendo si che queste particelle vengano inglobate anche nei sedimenti nevosi e glaciali: questo ne permette la datazione con la differenza precauzionale di 1-2 anni rispetto all'evento vulcanico, differenza che diventa trascurabile se si ragiona in termini di "periodi" climatici della durata di centinaia o addirittura alcune migliaia di anni. |
| inviato il 01 Dicembre 2023 ore 9:00
“ Lo studio resta sempre molto interessante, se però in altri campi porta poi a cure e rimedi in questo campo specifico poi l'impotenza regna sovrana, vedi, ne prendi atto e resti solo spettatore al 100% „ Questo riflette semplicemente il modus vivendi dell'uomo (moderno): se la ricerca di rimedi è vantaggiosa economicamente la si porta avanti, se salvare vite comporta vantaggi sociali, ma solo costi in termini economici (vedi la ricerca sulle malattie rare), spesso la ricerca viene interrotta. Per il clima siamo esattamente in una situazione di questo tipo, senza contare che, in genere, l'opinione pubblica è costretta a basare il proprio giudizio sul sensazionalismo mediatico anziché sulla realtà autenticamente prospettata dai ricercatori. Per la stampa fa molto effetto dire che dobbiamo "fermare" il cambiamento climatico; farebbe lo stesso effetto dire che dobbiamo cercare di "rallentarlo" in modo da gradualizzarne maggiormente le ricadute negative, attenuarne i risultati disastrosi e permetterci di adattarci? Nessuno scienziato negherebbe mai il fatto che stiamo giungendo ad un picco climatico interglaciale, o addirittura alla fine dell'intero ciclo di glaciazioni quaternarie, le cui cause "fondamentali" sono fuori della portata dell'azione dell'uomo; il punto è che l'azione dell'uomo, che non è solo emissione di CO2, ma anche e soprattutto inquinamento, deforestazione, cementificazione e altre forme che hanno causato modifiche sostanziali a qualunque ecosistema, sia terrestre che marino, sta raggiungendo proporzioni che l'hanno portata ad aggiungersi alle cause primarie all'interno di quelle "fondamentali" per l'evoluzione di "questo" particolare periodo, non di qualunque periodo di cambiamento climatico a cui la Terra ha assistito. Ci sono due sole risposte alla domanda: "possiamo fermare il cambiamento climatico"? La risposta secca è "no", ma non tiene conto di tutte le possibili conseguenze della nostra azione o inazione. La risposta graduata, che è quella data dai ricercatori seri, sposta il tiro da "fermare" a "rallentare" gli eventi, così da ottenere, come primo risultato, una loro minor estremizzazione (leggi: "violenza sul breve periodo" di uno o due giorni, come avviene ora) e, come secondo effetto, un tempo più lungo per adottare le misure che ci permettano un miglior adattamento nel futuro. Purtroppo l'intero dibattito sul clima si è sviluppato fin dall'inizio intorno alla "risposta secca" perché, come al solito, a prevalere sono stati i risvolti economici della faccenda. Basta vedere che la raccolta differenziata dei rifiuti urbani non ha preso piede per motivi "etici", ma solo quando c'è stato chi ha trovato il modo di trasformarla in un business, persino al punto di ribaltarne gli effetti: vedi l'assurdità di "riciclare" i contenitori in vetro ad ogni utilizzo, col medesimo dispendio idrico per il preventivo lavaggio e con un consumo di energia spaventoso! |
user198779 | inviato il 01 Dicembre 2023 ore 12:32
Purtroppo non basta chiudere il rubinetto e tutto si risolverà Anche se gli effetti benefici della pandemia fanno ben sperare dopo pochi mesi di fermo totale delle attività umane i risultati sono stati incredibili primo tra tutti la trasparenza dei canali di Venezia. |
| inviato il 01 Dicembre 2023 ore 12:55
Il 2024.sara"ancora più caldo. |
| inviato il 02 Dicembre 2023 ore 19:59
Risparmieremo sulle spese di riscaldamento... |
| inviato il 02 Dicembre 2023 ore 21:54
Ora non se sto confondendo benefici con altro ma il presunto cambiamento a livello vegetale su una vasta fascia altitudinale sta apportando una espansione mai vista prima, in particolare piante latifoglie che trovano nuovi terreni dove impiantarsi e dove già esistevano in parte si sono infoltiti parecchio, il bostrico sta facendo strage su vari aghi foglie ma dove muoiono questi subito il terreno viene preso dalle altre specie e pure diversificate con buon risultato di diversità. |
| inviato il 02 Dicembre 2023 ore 22:40
Quello di una maggior diversità, anziché una monocoltura "spinta" di solo abete rosso, è un futuro sicuramente auspicabile anche qui in Val di Fiemme. Anni fa avevo letto che negli archivi della Magnifica Comunità della Valle di Fiemme ci sarebbe un documento del XVII sec. che cita la presenza di faggi in Valmaggiore; con tutta probabilità si tratta della parte bassa della Valmaggiore, alla confluenza col Travignolo, dove ancora ci sono tracce di sottobosco tipico di faggeta o di misto con abete, ma questo significa che originariamente la diversità botanica era maggiore - e nel pieno della Piccola Glaciazione - quindi ora sarebbe ancora più importante andare in quella direzione, dato che l'andamento attuale del clima non è esattamente quello più favorevole alle conifere sul fondovalle, mentre il faggio si adatterebbe meglio. Se la cosa verrà pianificata velocemente, approfittando del fatto che in questi anni la parte dei boschi devastata da Vaia rimane comunque improduttiva, non ci saranno nemmeno ripercussioni negative apprezzabili sul piano economico. |
| inviato il 03 Dicembre 2023 ore 1:22
Almeno l'abete rosso che avete è di pregio fonte di reddito, da noi nel inizio secolo scorso una grande area dell'Argentario fu presa d'assalto per l'estrazione mineraria spogliando quasi totalmente e poi sbagliando totalmente furono piantati un numero immane di pino nero, pianta di scarso valore come legna da ardere e che ricoprendo tutto impedisce qualsiasi sotto bosco, ora un po' alla volta vengono tagliati ma serviranno secoli per rimediare. |
| inviato il 03 Dicembre 2023 ore 7:48
L'abete è una specie arborea originaria dei paesi del nord Europa. Secoli fa è stata "coltivata" alle nostre latitudini, si è adattata al clima alpino e diffusa nel territorio, dove un tempo c'erano faggi e querce. Resiste al freddo e soffre il caldo torrido e umido, al contrario del bostrico che è una vera calamità naturale per gli abeti. Il legno di abete ha svariate utilità in edilizia quindi economicamente vantaggioso, ma nel lungo periodo non sappiamo quanto le foreste alpine di abeti reggeranno a questo cambiamento. Penso sia inutile continuare a piantare abeti e orientarsi verso altre specie più resistenti. In diverse zone montane le foreste si stanno espandendo perché abbandonate progressivamente dall'uomo. Dove c'erano le malghe, ora abbandonate, il bosco si riprende i suoi spazi. In pianura invece succede l'esatto opposto. Viene sfruttato ogni centimetro di terra possibile, in buona parte per la produzione di biomassa, spesso dove prima c'era un bosco I bio carburanti sono la favoletta ecologica e di bio ha veramente poco. |
| inviato il 03 Dicembre 2023 ore 8:32
I vecchi impianti di riforestazione, per tamponare gravi danni precedenti, sono lo specchio di quello che rimane uno dei principali problemi del dibattito sull'ambiente: l'utopia della risposta "univoca". Agli occhi dell'opinione pubblica, della classe politica e di quella che gestisce economia e finanza, uno dei principali deterrenti rispetto all'insorgenza di una mentalità più attenta agli ecosistemi e all'ambiente è il fatto che i ricercatori e le loro equipe di tecnici si stiano muovendo in campi che vengono percepiti come "opposti"; sto leggendo proprio ora il numero di "National Geographic Italia" dal titolo: "La corsa per salvare il pianeta". Già i titoli altisonanti mi fanno venire l'orticaria per quanto ho scritto prima circa il sensazionalismo ricercato dalla stampa; il sottotitolo è già più "riflessivo" per com'è posto in forma di domanda: "La crisi climatica si può fermare con la tecnologia?" L'articolo relativo evidenzia di fatto, seppure in maniera molto soft (direi quasi "garbata", per usare un termine desueto), cioè senza abbracciare una posizione troppo perentoria, proprio questo tipo di problema: ci sono ricerche su vari sistemi di stoccaggio permanente della CO2, così da abbassarne la quantità libera in atmosfera e negli oceani, che però vengono (per certi aspetti anche giustamente) attaccati da una cospicua parte del mondo ambientalista perché si teme che finiranno per coprire l'estrazione e l'utilizzo continuativo dei combustibili fossili, cioè degli stock di CO2 già sequestrata dai normali processi geologici nel corso di milioni di anni. In effetti, il rischio di mettere in contrapposizione l'esigenza di far diminuire la CO2 libera con quella di produrne di meno, come se fossero due soluzioni "antagoniste" tra cui scegliere quella "migliore", è elevato, soprattutto se si pensa che tra i principali finanziatori dei progetti di decarbonizzazione ci sono proprio quelle compagnie petrolifere che si auspicano di poter continuare imperterrite ad estrarre petrolio. Nella realtà, i processi che guidano i cambiamenti climatici, o persino alcuni loro singoli aspetti come l'apporto dovuto alle attività umane, sono talmente complessi che anche il modo di affrontarli non può essere "univoco", nemmeno se rivolto al singolo aspetto della responsabilità umana. Se non basta riforestare senza porsi domande più complesse persino quando si parla di ambiti ristretti come quello dell'Argentario, figuriamoci se affrontare anche solo "una" delle concause (l'apporto umano) di un problema a scala globale possa comportare una risposta che vada in un'unica direzione!?! Se si vuole risolvere il problema della CO2, si dovrà necessariamente agire sia sulla sottrazione di quella già immessa, sia sulla diminuzione delle emissioni future; e stiamo comunque affrontando ancora solamente una "fetta" di quell'unica concausa dovuta all'uomo: inquinamento, cementificazione, eccessivo sfruttamento di altre risorse ecc. andranno affrontati comunque e con altri approcci e relativi filoni di ricerca. A mio avviso, il vero pericolo è costituito dalla mentalità del business che impedirà la continua "rimodulazione" dei vari approcci sulla base delle variazioni ambientali future; più sopra facevo l'esempio dell'assurdo sistema di riciclo "continuo" del vetro, ma qualunque soluzione tecnologica, anche quelle che si potranno adottare per la decarbonizzazione, diventa eccessiva e perciò controproducente se, una volta raggiunto lo scopo, non viene rimodulata (ridimensionata) sulla base delle reali esigenze, solo perché si perderebbe una parte del business. |
| inviato il 03 Dicembre 2023 ore 10:09
“ Se si vuole risolvere il problema della CO2, si dovrà necessariamente agire sia sulla sottrazione di quella già immessa, sia sulla diminuzione delle emissioni future. „ D'accordissimo su questi punti e aggiungerei un tema importante che non mi stancherò mai di ripetere...esiste già qualcosa che trasforma e quindi riduce la Co2 in atmosfera e si chiama ALBERO. Mi scuso se l'ho scritto in maiuscolo e se risulterò ripetitivo, ma questa è di fatto il modo più semplice ed ecologicamente efficace per ridurre CO2 ed inquinamento. Le foreste si possono sfruttare economicamente, dall'edilizia al riscaldamento, ma vanno gestiste in maniera ecosostenibile. Per ogni albero tagliato ne andrebbero ripiantati almeno 10. Invece si sta andando nella direzione opposta. Come ho già scritto, le campagne in pianura sono ridotte a ettari di monocultura, dove prima c'era un bosco, ora c'è un campo coltivato a mais che non viene usato solo per alimentare gli allevamenti ma spesso si coltiva per la biomassa perché risulta economicamente vantaggioso e redditizio ma che di biologico ed ecosostenibile è zero. Il risultato è che in inverno al posto di quel bosco ora c'è solo terreno incolto dove non cresce nemmeno un filo d'erba. Poi c'è la questione inquinamento in città. In Italia siamo solamente bravi a lamentarci che ci imporranno le auto elettriche, quando dovremmo imparare a ridurre quanto possibile l'uso dell'auto, almeno in città e per brevi spostamenti. Ieri guardavo un documentario sulla città di Friburgo, dove, come altre città della Germania e del Nord Europa, hanno capito la direzione da prendere riguardo l'ecosostenibilitá in città e noi a confronto siamo parecchio indietro. |
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