Stolen Souls
Non ti guardano davvero — ti attraversano come se tu fossi trasparente.
Tra luce e ombra, in quel breve respiro sospeso, qualcosa si sposta: lieve, impercettibile. Il mondo oltre la cornice si dissolve, restano solo gli occhi. Silenziosi, profondi, portatori di segreti non detti.
La pelle diventa un paesaggio sommesso, le mani un rifugio senza parole; e il silenzio è così spesso che quasi diventa palpabile. Il bianco e nero spoglia ogni distrazione, lascia solo quello che non si può fingere: il peso di un pensiero, un ricordo che vibra, la sottile resistenza di chi si fa vedere senza parole.
Non sono fotografie, sono attimi presi in prestito – ombre di anime che svaniranno ancora. Non li possiedi, li custodisci nel cuore. E ricordando, forse, senti il furto al contrario: un pezzetto di te che resta intrappolato lì, nel loro sguardo.
In Stolen Souls l'intimità non si crea con gesti forzati: è concessa. La macchina si avvicina, fa sparire la distanza tra chi osserva e chi è guardato, finché ti ritrovi dentro l'orbita silenziosa dell'altro. Ogni ritratto è uno studio sulla presenza: gli occhi che ci ancorano, tutto il resto che si dissolve nel rumore là fuori.
In bianco e nero le immagini lasciano cadere il peso del colore, rivelando l'architettura nascosta delle emozioni: quella tensione che si vede in un m mezzo sorriso, il respiro bloccato tra i pensieri, le mani che stringono un volto come a trattenere qualcosa che non si può mostrare. L'essenza della vulnerabilità, ma non della debolezza. È forza, senza ostentazione.
Quello che “rubano” queste anime non è possesso, ma un momento effimero. Una verità indifesa e silenziosa, catturata prima di tornare nell'intimità del sé.