Tipo di evento: Segnalazione mostra fotografica
Proposto da: Bonnyslow
Venezia, Penitenziario femminile della Giudecca (Veneto), dal 06 Dicembre 2025 al 12 Dicembre 2025
Foto dal carcere: quando il Vangelo ci chiede non di giudicare ma di ascoltare
di Matteo Maria Zuppi
In occasione del Giubileo dei Detenuti, che cade in questi giorni, le porte del penitenziario femminile della Giudecca, a Venezia, si aprono ai visitatori. Sarà un gruppo di detenute ad accogliere chi vorrà visitare la mostra “I volti della povertà in carcere”. Per raccontare dolore e speranza senza giudizio, come spiega il cardinale e arcivescovo di Bologna proprio commentando le immagini della mostra
Dal 6 al 19 dicembre la Casa di Reclusione Femminile della Giudecca a Venezia ospita, nella cappella di Santa Maria Maddalena, la mostra fotografica I volti della povertà in carcere ispirata all'omonimo volume di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero (Edb edizioni). La mostra arriva a Venezia in concomitanza con il Giubileo dei Detenuti, e coinvolge direttamente un gruppo di donne detenute che accompagneranno il pubblico durante la visita dopo un percorso di formazione dedicato. Vi proponiamo qui il testo che il cardinale Matteo Maria Zuppi ha scritto per il libro I volti della povertà in carcere.
«Ero in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25, 43), afferma il Vangelo. Non si dice nulla delle caratteristiche della persona rinchiusa, non si cercano meriti o al contrario condanne per giustificare la scelta di abbandonare i detenuti. «Ero in carcere e non mi avete visitato», ma noi siamo chiamati a non lasciare soli questi uomini e queste donne.
Non andiamo in carcere per giudicare, per fare pesare il reato o la condanna, ma iniziando con l'ascolto per incontrare e per portare un aiuto e affrontare i problemi concreti, a volte drammatici, ed anche per cercare modalità che li possano risolvere, a cominciare dal lavoro. Il libro ci fa incontrare l'altro e «vedere» pezzi diversi del carcere già in chi deve affrontarne le violenze e la disperazione, dirigendo una struttura così complessa, ma anche in chi vive dentro le celle; sono storie tratte dalla banalità del male che debbono essere conosciute perché la dignità inizia da questo: non sei un numero, non sei una matricola, non sei il reato che hai commesso, ma sei una persona. La condanna peggiore è il non senso. Il carcere non è l'altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l'inferno ma, semmai, sempre il purgatorio. Il contrario dell'inferno non è il limbo, attesa senza speranza e quindi inutile indugio.
Papa Francesco si interroga sempre su questo quando va in carcere: «Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro» (dal Discorso del Santo Padre ai cappellani delle carceri, ottobre 2013).
Ci viene chiesto di garantire e riconoscere la dignità umana sempre a tutti e camminare insieme ai fratelli carcerati, senza paura, con amore perché l'amore vince la paura e ci fa riconoscere nell'altro la persona che è, degna sempre della nostra «compassione», che vuol dire pensarsi insieme, e non si esaurisce nell'esercitare qualche buon sentimento utile a sé e non al prossimo.
La copertina del volume fotografico "I volti della povertà in carcere" (Edb)
Il libro ci restituisce i nomi – che vogliono dire le storie di vita e le caratteristiche peculiari di ciascuno – di quei fratelli più «piccoli» che dobbiamo visitare.
Nel percorso tracciato nel libro, riconosciamo l'angoscia di non fidarsi più di nessuno, l'umiliazione, i turbamenti.
Comprendiamo i racconti delle compagnie sbagliate e le conseguenze purtroppo prevedibili, ma anche la banalità del bene; vediamo cioè possibilità di umanità e di quella generosità che riaccende i sogni, quelli che preparano il futuro e iniziano a realizzarlo, scoprendo dietro il volto – grazie all'attenzione di qualcuno – le doti che non si sa di avere.
Capiamo i problemi psichiatrici – così importanti e che tanta attenzione richiedono, e strumenti adeguati per essere finalmente affrontati – perché altrimenti resta, come viene raccontato, solo la convinzione di «essere morto». Certo conosciamo anche comunità che sono luoghi di speranza perché la sfida è credere che l'errante non sarà mai il suo errore! «L'errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva; in ogni caso, la sua dignità di persona e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità» (Giovanni XXIII, Pacem in terris, 83).
La professoressa Marta Cartabia, nella già citata settimana sociale dei cattolici italiani a Trieste, ha ricordato come nella Costituzione non si parli di carcere, bensì di «pene», secondo la previsione dell'articolo 27, sottolineando il plurale, e come queste «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Appunto. Rieducazione e pene. Guai a credere che l'unica scelta sia «farla pagare» all'autore della sofferenza, come è giusto sia e come spesso anche il condannato cerca. Pene per rieducare. Ci crediamo? È su questo che è pensato il nostro sistema? Se pensiamo alle condizioni fisiche, dovute al sovraffollamento – problema decennale –, siamo costretti a credere che esso non sia visto come reale emergenza che richiede intelligenza applicativa e anche il coinvolgimento di tutta la comunità.
In molte carceri un terzo dei detenuti potrebbe uscire se avesse luoghi dove godere di pene alternative.
Un carcere solamente punitivo non è né civile, né umano e nemmeno «italiano» perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della nostra cittadinanza. La sicurezza non è data dalle famose chiavi da buttare, ma anzi esattamente dal contrario, cioè dalla rieducazione, con tutto quello che comporta. Certo, è indispensabile la certezza e la sicurezza delle pene. Sappiamo quanto al contrario si favorisca il cattivismo e la vendetta. Ma proprio per questo sono importanti le pene alternative che, proporzionate e amministrate con saggezza, sono le uniche che possono aiutare a cambiare, a guardare il futuro.
Non sono scorciatoie, concessioni «buoniste», ma esercizio di vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di amore. Solo il «riparativo» risana la ferita e offre sicurezza.
Il fondamento risiede nella possibilità riconosciuta a ciascuno di essere diverso, di riscattarsi dal passato e progettare un futuro di bene.
Come è raffigurato in una delle bellissime foto del volume, il muro ha come una sottile crepa. Filtrerà sempre un raggio di luce! Questo libro ci aiuta a capire come e anche quanto è decisiva la luce, fosse solo uno spiraglio, nel buio della disperazione e per una nuova consapevolezza. E questo, però, dipende anche da ognuno di noi.
La mostra
La mostra è aperta esclusivamente su prenotazione, in gruppi di massimo 10 persone e in fasce orarie prestabilite. Per prenotarsi:
www.eventbrite.it/e/mostra-fotografica-i-volti-della-poverta-in-carcer o attraverso il sito
www.retrosguardi.it Partecipanti:
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