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Il desiderio che sento forte in me di comunicare attraverso l'arte fotografica mi spinge ad approfondire pulsioni, disperazioni, inquietudini. Non in modo concettuale, ma visivo: il solo modo in cui mi riesca bene parlare di morte e di vita. La pausa forzata della pandemia mi ha portato a scendere ulteriormente dentro me stessa, rispetto al periodo dei progetti in giro per il mondo. Qui ho deciso di mostrare la mia mente. Sono riuscita a farlo perché ho trascorso anni a ritrarre gli altri cercando di mostrare contemporaneamente qualcosa di loro e di me. Col tempo ho capito che con la mia fotografia mostravo quel mondo magico di incontri e di accadimenti che vedevo nel mirino, che era comunque sempre la mia mente, ed ora voglio mostrarla senza mediazioni. L'atto di defecare è un tabu nella nostra società e per me in particolare, tanto quanto lo è l'atto del morire. Si fa nascosti, e mediamente non se ne parla. Nei secoli passati tenevamo le feci in casa e poi le gettavamo dalla finestra. Ora invece esse spariscono immediatamente, risucchiate dallo scarico. Eppure ci sono. Le città galleggiano su un sistema fognario grande, capillare e invisibile, di fondamentale importanza per il corretto funzionamento della vita pubblica. Ho voluto dunque rappresentare qualcosa che permea la nostra vita ma è allo stesso tempo esclusa dall'esperienza di ogni giorno. È una sensazione strana perché mostro qualcosa di noto eppure di particolarmente nascosto. Qualcosa che associo al dolore e al rilassamento, dunque alla vita biologica e al suo respiro, alla sua circolarità in termini di piacere e dolore, ma anche al distacco, e dunque alla morte, che alla fine è pur sempre il tabù dei tabù, come momento supremo di respiro che cede il passo all'indicibile.
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