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Benedetta...

Prendersi Cura

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Benedetta inviata il 05 Dicembre 2021 ore 12:02 da Matteop7. 0 commenti, 46 visite. [retina]

, 1/60 f/2.5, ISO 250,

Benedetta, 31 anni, anestesia e rianimazione. Io non ho cominciato la mia carriera medica pensando che sarei diventato un Anestesista. Mi sono iscritto a Medicina con l'idea romantica di fare il Pediatra. Quando ho deciso dove fare la tesi sono finito in un posto particolare nel Policlinico Sant'Orsola; in maniera del tutto accidentale e fortuita, ma che si è poi rivelata una delle scelte migliori che potessi fare. Questo posto è l'ambulatorio di Malattie Rare e Congenito-Malformative. Un posto che accoglie ogni anno circa 3000 bambini con malformazioni fisiche, malattie serie, ritardi cognitivi, terapie che dureranno tutta la vita e famiglie che ne sono messe a dura prova. Un posto in cui ci sono bambini che sai che stanno male, ma non sai in maniera esatta il perché. I piccini, e meno piccini anche, hanno tra le condizioni più disparate: alcuni crescono poco (e necessitano di terapie pesanti per aiutarli), altri crescono troppo, entrambi spesso con proporzioni non armoniche del corpo; taluni hanno dei ritardi cognitivi o delle difficoltà nel linguaggio. Spesso riconosci il quadro generale, a volte no. Qualcuno dice “si riconosce solo quello che si conosce”, e nelle malattie rare è tristemente vero. In questo posto ho conosciuto la Benedetta, Betta per gli amici. La prima volta che l'ho conosciuta l'ho vista spiegare ai genitori che la figlioletta ha una malattia rara, cosa questo comporta e anche il dover spiegare perché non si guarisce. E' una scena che non riesco proprio a dimenticare. Ed è proprio da questo ambulatorio, dai ricordi che ne abbiamo e dalle esperienze vissute insieme che comincio questa chiaccherata. Betta non sa che voglio intervistarla, sono andato a trovarla in ospedale con una scusa. Con la faccia da culo che mi contraddistingue, le domando a bruciapelo quale fosse il suo ricordo più bello di quegli anni. “Se intendi la cosa più gratificante – mi risponde – è sicuramente una visita che feci un tardo pomeriggio. C'era questo bambino bellissimo, con degli occhioni che mi fissavano. Aveva una malattia congenita, l'Ipocondroplasia. Io ero in ambulatorio non da tantissimo, però il tempo sufficiente ad essere leggermente autonoma. E' stato traumatico e intenso al tempo stesso perché mi sono trovata di fronte, sola, i genitori con due occhi, due paia di occhi che mostravano ansia allo stato puro. Ho condotto la mia visita, ed è stata un'anamnesi lunghissima, con varie misure e vari referti, in tutto questo i genitori mi guardavano e aspettavano me, mentre il bambino era nelle retrovie, sempre con questi occhioni che mi fissavano. Ecco, di questo bambino mi era rimasto il pallino degli occhi, è stata poi una gioia rivederlo nei controlli successivi. Mi sono sentita pungolata e ho attinto a tutto quello che avevo fatto i giorni precedenti, e mi sono lanciata. Sentivo proprio il cervello che bruciava calorie, lo facevo lavorare. Ho dato tutto, e alla fine è arrivata la Responsabile per tirare le somme. Una volta arrivata a casa ero stanca morta, perché comunque ero lì dalla mattina; a casa è arrivata la canonica telefonata serale della Mamma, e mi son sentita esclamare 'Mamma, sono contenta di essere capitata qui', cioè loro mi vedevano deperita, ansiosa, preoccupata per il periodo pre-laurea ma ero comunque soddisfatta, tutti i dubbi che avevo nell'essere in un posto molto specialistico erano svanito. Il bagaglio che ne è venuto fuori, il rapporto con il paziente veramente complesso mi è arrivato addosso come una bomba. Poi li abbiamo avuto modo di vedere Persone che hanno veramente una cultura medica fuori dall'ordinario, e che si giostrano con momenti e con diagnosi non facili da comunicare”. Quando Betta parla, è come un fiume in piena. Ti lasci trascinare dal suono delle due parole, e rimani ad ascoltarle. Alla fine risulterà la registrazione più lunga che abbia fatto. E io mi lascio trascinare dalle onde, incalzo – Ma secondo te queste esperienze che hai avuto, in questi ambulatori e in quest'ambito, ti hanno dato una marcia in più, ti hanno dato un occhio diverso per affrontare alcune cose sul lavoro? – “Sicuramente mi hanno resa molto puntigliosa, queste visite lunghe, queste analisi precise da cui partire, da cui poi partivano i follow-up di un certo tipo, le misurazioni antropometriche. Cioè ti soffermavi molto su alcuni dettagli che poi, ovviamente, rimandavano a un quadro generale ben preciso. Penso che mi sia rimasto molto il fatto di non lasciarmi sfuggire i dettagli, almeno ci provo. Poi l'aspetto maggiore è stato quello dal punto di vista umano, che è quello che cercavo io, il confrontarsi con delle situazioni così difficili; sono stati degli anni veramente intensi, durante la giornata non c'era un riposo, la notte continuavi a pensare a quello che avevi fatto e chissà quando lo vedevi il letto, perché poi dovevi studiare quando tornavi a casa. Sono stati degli anni surreali, che però sono stati anche talmente intensi che quando li ricordi dici 'Cavolo, ho delle potenzialità che non pensavo di avere'. Potenzialità che poi ti hanno fatto fare l'ennesimo salto nel buio, com'è stato il primo anno a Parma? “Bello, folle ma bello. Nel senso che io cambiavo città, amicizie, colleghi, scuola di Specializzazione, era tutto nuovo. Io sono arrivata qui il primo giorno; cercavo casa, erano giusti giusti dieci giorni prima dell'inizio delle attività. Immaginami mentre esco dalla Stazione, piumino e berrettina con i fili biondi che spuntano, ed esclamo 'Bene, ciao Parma! Piacere!'. Lo ricordo come un anno di svolta, l'anno del mio secondo cambiamento di vita. Avevo un'adrenalina addosso che non avevo mai avuto in tutta la mia vita, arrivata qui mi sembrava surreale, perché io conoscevo l'ambiente di sala. C'ero stata durante i tirocini, sapevo che mi piaceva ma avevo paura di non essere all'altezza, e allora ho cominciato a vivere appieno ogni giorno, senza uno stop. Come a Bologna. Come faccio io quando sento di dover dar tutto”. Mentre racconta tutte queste emozioni, e quando Betta racconta le emozioni te le fa vivere e te le fa sentire come sue, la stanza si riempie. Fuori è nuvoloso, non sembra agosto ma una di quelle giornate uggiose di Settembre, tanto ben cantate dalla PFM. La stanza è luminosa perché la Betta sta pensando alla sua rotazione in Rianimazione. Mi racconta come sia stata intensa una guardia con una Donna imparagonabile, in cui in 12 ore le ha insegnato una quantità di cose enorme, una quantità talmente grande che solo per razionalizzarla ci ha messo dei mesi. Ma la luminosità di Betta ora deriva soprattutto perché mi racconta i piccoli momenti che ha vissuto con i suoi compagni di rotazione, compagni che poi son diventati famiglia e testimoni di nozze. Ultimamente ho il vizio di disturbare la gente nei momenti di pausa dal lavoro, infatti Betta comincia ad essere inquieta perché deve avviarsi. Allora lascio scivolare la mia solita domanda finale, seppur non vedendoci molto vista la luminosità della stanza. Cosa vuol dire per te “Prendersi cura?” “Sai, non me la sono preparata. Mi piacciono tantissimo le risposte che ti hanno dato gli altri, me le sono lette e me le sono gustate. Ho detto 'che belle, che belle, come sono bravi e come si esprimono bene. Le hanno definite nei modi più belli'. E prendersi cura, cioè sarà banale, secondo me è un atto talmente….è un atto d'amore puro, naturale, spontaneo, dove lo applichi lo applichi ma è qualcosa di bello, è un qualcosa che ti fa stare bene, fa stare bene chi lo riceve, altrettanto chi lo compie. Non lo so, non te lo saprei definire, non penso che abbia a che fare con la cura del paziente, oggettivamente. Perché io vedo dei medici bravissimi che curano benissimo, ma che non hanno sufficiente empatia, che la danno per scontata , o comunque non ce l'hanno sempre, perché è una dote umana ma un po' innata, secondo me. E quindi se la fai, è perché ti viene spontanea farla, per me è la base della vita”. Forse c'è più di una Donna Impareggiabile.



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