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L'incontro con il pescatore malinconico e il mio vagabondare. Passeggiando per Boccadasse, antico borgo marinaro alle porte di Genova, mi sono imbattuto in un uomo sulla settantina che stava delicatamente pulendo con la spugna una piccola barca di legno scuro. In un gioco di contrasti la bianca chiglia immacolata lasciava intuire al primo sguardo tutta la premura e l'amore di quel vecchio. Lentamente, centimetro dopo centimetro, passava la spugna sul corrimano staccandola soltanto per risciacquarla, con altrettanta tranquillità, in un secchio pieno d'acqua, per poi ripetere il procedimento più e più volte identico. L'età, le profonde rughe sul volto e la schiena curva, quasi stesse portando un peso che in quel momento non potevo vedere, cozzavano con i suoi capelli neri, macchiati solo a tratti da qualche ciuffetto bianco. Il suo viso modellato dalla tristezza e lo sguardo assente davano come l'impressione che stesse cercando rifugio in quel gesto affettuoso, quasi fossero carezze di un amante. L'incontro con il pescatore malinconico è stata un'altra, ennesima e fortuita occasione per riscoprire sfumature di me. Ho un'innata empatia per certi tipi di persone. Le cerco continuamente. Viaggio per conoscerle. A Cuba il piccolo Mario “Don Chisciotte contro gli uragani” o Alberto il fidelista. A Napoli gli abitanti di San Giovanni a Teduccio. In Giordania Rada degli ultimi beduini o Isa l'ambulante del deserto dei re. Il viaggio per me non significa vedere un bel posto, fare delle foto e dire “ci sono stato”. Molti hanno una necessità quasi meccanica di partire per mete lontane, di vedere incondizionatamente un paesaggio nuovo, una città più grande, senza nemmeno conoscere la realtà che hanno intorno casa. Io mi sento lontano anni luce da un'idea del genere. Quando mi sono avvicinato al marinaio di Boccadasse ho esordito complimentandomi per la bellezza di quella barca così semplice, ma tanto affascinante. In risposta le sue parole mi sono piombate addosso cariche di rassegnazione e tristezza: «L'ha fatta mio fratello 50 anni fa» mi ha detto «era bravissimo. È una barca stupenda». «Ci va a pescare?» gli ho domandato accennando un sorriso. «Poco. Qui è cambiato tutto». «Cos'è cambiato?» ho dovuto incalzare. «Il paese è cambiato. Una volta potevamo pescare e vivevamo con il pesce. Adesso con tutta questa gente che viene per fare le foto, bere, mangiare e poi la musica e la confusione non è più possibile. E costa tutto come l'oro qui intorno. Poi sporcano e non rispettano il mare. Io mi sa che la vendo questa barca. La salute non ce l'ho più e qui è tutto cambiato». «Se le piace non deve venderla» gli ho risposto ingenuamente «se la fa stare bene deve continuare a uscire in mare». «Chi lo sa… qui è cambiato tutto». «Le faccio di nuovo i complimenti per la barca e buona fortuna». Guardandomi con i suoi occhi malinconici, quasi chiedesse di raccontare ad altri la sua emergenza, mi ha salutato semplicemente con un sorriso. Il viaggio per me è vagabondare facendo affidamento sul caso e sulla fortuna. Partire dopo aver maturato per mesi o anni il desiderio di scoperta per quel posto, per quella gente, per quella cultura. Conoscere uomini e donne, ascoltare le loro storie, riviverle nell'immaginazione, poterle raccontare, capire quanto può essere bella o difficile la vita lontano da casa mia. Il viaggio per me sono gli altri. In questo volevo conoscere Genova Medaglia d'oro al valor militare per la lotta contro il nazifascismo, volevo camminare per la città di De André, multiculturale e multirazziale; volevo incontrare i pescatori.
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