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| inviato il 21 Maggio 2016 ore 8:24
Spettacolo. Esemplari anche le note storiche del veicolo. Raffaele |
| inviato il 21 Maggio 2016 ore 11:46
Grazie Raffaele. Queste Montreal me le ricordo da ragazzino e colpivano la mia fantasia quando avevo la ventura di vederne una; evento piuttosto raro per i motivi descritti nella didascalia. Anche qui in Italia ne beccavi una ogni parecchie Porsche 911. La "strategia" (sottolineo le virgolette) della dirigenza dell'Alfa Romeo, di sostanziale abbandono della fascia alta, si rivelò soprattutto nella gestione del segmento delle berline di prestigio: dopo aver prolungato la produzione della 2600 fino al 1979, quando ormai era superatissima, l'uscita del modello che avrebbe dovuto sostituirla, previsto nel 1973, venne posticipato al 1979. L'Alfa 6 fu un altro flop annunciato. Ciao Roberto |
| inviato il 01 Febbraio 2022 ore 22:42
In Alfa Romeo era più facile fare una cagata ed esserne fieri Che spingere le idee buone |
| inviato il 01 Febbraio 2022 ore 23:39
Oltretutto le idee buone non è che siano mancate. Il guaio è che non venivano adeguatamente supportate. Ad esempio l'Alfasud (sorvolando sull'opportunità di allargarsi verso il basso trascurando la fascia alta) dal punto di vista progettuale era un'auto tutt'altro che spregevole. Motore boxer brillante e dall'ottimo rendimento, con un ronzio inconfondibile... pazienza che per i vecchi alfisti esisteva solo il ringhio (anch'esso inconfondibile) del bialbero. Autotelaio tra i migliori, anzi probabilmente il migliore tra le berline a trazione anteriore dell'epoca. Carrozzeria e plancia, disegnate da Giuggiaro, modernisime per quei tempi, tanto che anche dopo 10 anni reggeva bene sotto quell'aspetto. Il problema erano gli standard qualitativi dello stabilimento di Pomigliano d'Arco: Materiali, assemblaggio, verniciatura, rifinitura e controllo qualità... Si diceva che iniziava ad arruginirsi quando era ancora dal concessionario... Poi, a partre dai tardi '70 - primi '80, all'IRI hanno cominciato ad avere difficoltà a coprire i passivi e quindi in Alfa Romeo dovettero tagliare gli investimenti, col risultato di tirare avanti sino alla fine degli anni '80 con le piattaforme (avanzatissime al lancio ma inevitabilmente invecchiate) di Afetta (90 e 75) e Alfasud (33). Poi fu ceduta alla Fiat al valore fondiario dei terreni di Arese e Pomigliano. Il guaio è che in quegli stessi anni aveva prevalso la linea di Romiti (imposto agli Agnelli da Cuccia), ovvero diversificare gli investimenti (operazioni finanziarie, grande distribuzione, persino Club Mediterranee ecc.) rispetto a quella di Ghidella (investire nel core business dell'automotive - come avrebbero fatto nei decenni successivi i gruppi tedeschi e la francese PSA), tanto che alla fine Ghidella* dovette rassegnare le dimissioni. Quindi la Fiat si trovò due marchi premium praticamente sovrapposti, ovvero Alfa e Lancia; con a disposizione investimenti che sarebbero stati sottodimensionati anche per una sola delle due. Le conseguenze erano fin da allora prevedibili. Buona serata. * Vittorio Ghidella, oltre che un manager, era un ingegnere di prim'ordine, laureato col massimo dei voti al Politecnico di Torino. Supervisionava la progettazione delle auto e poi le collaudava di persona facendoci dei gran chilometri. Ricordo una sua intervista, negli anni '80, sul supplemento illustrato, ora non ricordo se del Corriere della Sera o di Repubblica, nella sua villa sulla collina torinese. In una foto lo si vedeva suonare un antico clavicembalo e, se ben mi ricordo, aveva dichiarato una predilezione per J.S. Bach. Prima di iscriversi al Politecnico aveva conseguito la maturità classica, anche quella col massimo dei voti. Dall'intervista si capiva che per lui cultura umanistica e tecnico-scientifica erano tutt'uno; in ciò simile a un altro grande ingegnere piemontese, Adriano Olivetti. |
| inviato il 02 Febbraio 2022 ore 22:29
Bellissimo intervento Roberto P |
| inviato il 03 Febbraio 2022 ore 0:13
Grazie. A risentirci. |
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