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Il famigerato carcere di massima sicurezza di Badu 'e Carros a Nuoro ------ Ero appena un ragazzo quando la mia famiglia si è trasferita da Bosa a Nuoro, Bosa era una tranquilla cittadina di mare, Nuoro la capitale del malessere nel cuore della Bargagia. Nelle strade i bandi di cattura dei latitanti come nel Farwest. A carnevale proibito mascherarsi, la notte si sentivano le esplosioni delle bombe perché ogni tanto c'era un attentato. Io abitavo in una zona alta e vedevo passare centinaia di camionette cariche di Baschi blu (Baschi blu i soldati mandati a scovare i banditi) con un dispiegamento di forze da guerra civile, in un grande spiazzo fuori della città proprio di fronte a casa mia iniziava la costruzione del super carcere di Badu 'e Carros. Per chi vuole saperne di più riporto alcuni interessanti articoli sull'argomento. ----------------------------------- La storia del carcere. Costruito nel 1967 e aperto nel 1969, si trova nella periferia sud del capoluogo barbaricino. Il 4 gennaio 1977, in un progetto definito Circuito dei Camosci, l'istituto venne inserito nella lista di case circondariali che dovevano ospitare i detenuti colpiti dai regimi-circuiti detentivi speciali, dal carcere speciale negli anni settanta fino al 41-bis poi. La quasi totalità dei reclusi è in regime di AS3. Da alcuni anni è stata istituita una sezione destinata ai detenuti AS2 (gestita dal Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria), negli stessi spazi precedentemente occupati dal regime di 41-bis, ovvero nei locali originariamente destinati all'isolamento. Storicamente sono stati e sono tuttora rinchiusi prigionieri ritenuti particolarmente pericolosi, come terroristi e mafiosi, includendo membri di Cosa nostra, della camorra e della 'Ndrangheta. Al 6 febbraio 2017 ospitava 155 detenuti. Questo ha fatto sì che spesso si generassero violente tensioni al suo interno, nonché nuove alleanze tra vari membri delle famiglie criminali, tanto anche da contaminare la malavita sarda. Nel 1980 durante una rivolta vengono uccisi Biagio Iaquinta, cosentino, e Francesco Zarrillo, di Caserta. Per il delitto vennero condannati Pasquale Barra, noto come o' Animale, il boia delle carceri genovese Cesare Chiti e il cutoliano Marco Medda. Ma il delitto più noto avvenuto tra queste sbarre risalì al 17 agosto del 1981 quando Francis Turatello, boss della mala milanese, uscendo dalla cella come tutti i giorni per l'ora d'aria, venne circondato nel cortile da un gruppo di killer delle carceri e ucciso a coltellate. A Nuoro morì Luciano Liggio, boss corleonese che a Badu 'e Carros visse i suoi ultimi giorni, prima dell'infarto che lo stroncherà nel 1993. Evasioni. Il carcere vanta diversi tentativi di evasione non riusciti, grazie all'alto livello di sicurezza degli edifici e del complesso. Tutto ciò lo avevano reso uno dei carceri più sicuri e temuti d'Italia, anche considerando il contesto geografico-sociale in cui era inserito. Il 24 febbraio 2023 Marco Raduano (capo degli scissionisti del clan Notarangelo, con 19 anni da scontare per mafia nella sezione di Alta Sicurezza 3) compie la prima evasione, avendo trovato una serie di porte inspiegabilmente aperte ed essendosi calato dal muro esterno con una corda di lenzuola, precedentemente costruita. Detenuti famosi [modifica | modifica wikitesto] • Graziano Mesina • Attilio Cubeddu • Luciano Leggio • Renato Vallanzasca • Francis Turatello • Antonio Iovine • Pasquale Barra • Settimo Mineo • Marco Raduano • Antonio Papalia • Valerio Morucci • Pierluigi Concutelli • Salvatore Buzzi • Giuseppe Mastini DA Vikipedia ------------------------------ Badu 'e Carros, un supercarcere esplosivo tra sommosse e omicidi di Luciano Piras - La Nuova Sardegna 27 febbraio 2023 - Inaugurato nel 1969, divenne la Cajenna delle Brigate Rosse È successo esattamente quarant'anni fa: 1983. Era il mese di dicembre. A Roma Papa Giovanni Paolo II entrava a Rebibbia per incontrare Mehmet Alì Agca, il fanatico terrorista turco che gli aveva sparato il 13 maggio di due anni prima. A Nuoro, invece, il cappellano don Salvatore Bussu usciva dal supercarcere di Badu 'e Carros sbattendo clamorosamente i cancelli. L'umile prete di Ollolai si era schierato con i brigatisti rinchiusi in Barbagia in sciopero della fame per denunciare le condizioni disumane cui erano sottoposti dal regime di massima sorveglianza. Dopo tanti anni di sommosse, rivolte e persino omicidi, quella era la prima manifestazione pacifica dei detenuti in Italia. Le parole di don Bussu esplosero, i riflettori vennero puntati su Badu 'e Carros. Da lì parti il dibattito parlamentare che portò alla riforma Gozzini. I fatti del 1983 fecero da spartiacque. Nel sistema penitenziario italiano c'è un prima e un dopo Badu 'e Carros. Un penitenziario nato già con i riflettori puntati. Considerato «un modello di edilizia carceraria», così nel 1966 lo definì l'architetto Bruno Zevi mentre erano ancora in corso i lavori di costruzione, il penitenziario nuorese era moderno, all'avanguardia in tutta Europa, fuori dalla città e quindi isolato e facilmente controllabile dalle camionette a prova di proiettile in servizio di perlustrazione. Inaugurato nel settembre 1969, Badu 'e Carros era stato progettato nel 1953, su commissione del ministero dei Lavori pubblici. Saloni spaziosi, vari laboratori, celle riscaldate, luminose, con i servizi igienici, fornite persino di apparecchi radio e di televisori. Una svolta rispetto alle vecchie carceri nuoresi di via Roma, la Rotonda, una fortezza borbonica demolita nel 1975. Ciò nonostante, il nuovissimo carcere fu da subito teatro di diverse rivolte, ben tre nei primi sei anni. Nel 1973 i detenuti salirono sul tetto e ci restarono per due giorni e due notti, poi si arresero. Nulla a che vedere con le sommosse dei terroristi degli anni seguenti e neppure con l'assalto fallito del 1979. Badu 'e Carros, ormai supercarcere per volontà del generale dell'Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa, era finito nel mirino della colonna sarda delle Brigate Rosse, Barbagia Rossa, un gruppo militante che alla sottocultura criminale barbaricina coniugava la teoria e la prassi rivoluzionaria di matrice marxista-leninista. Una deriva che prendeva forma, esattamente come aveva già paventato l'allora cappellano don Giovanni Farris. Il prete di Lodè mise in guardia Nuoro dai molteplici rischi di natura giuridica, ma anche e soprattutto psico-sociologici, ambientali, culturali. «Le conseguenze possono essere disastrose, è una spinta alla guerriglia da cui, almeno in parte, eravamo immuni». Lo stesso procuratore della Repubblica di Nuoro, Francesco Marcello, era stato chiaro: «Noi giudici di Nuoro – disse – siamo contrari alla presenza della sezione differenziata a Badu 'e Carros, perché riteniamo estremamente pericolosa la commistione tra delinquenti politici e delinquenti comuni». Il bollettino di guerra arrivò di lì a poco: da carcere di massima sicurezza, Badu 'e Carros, la Cajenna delle Brigate Rosse, divenne un vero e proprio mattatoio. Nel 1980 vennero trucidati Biagio Jaquinta, di Cosenza, e Francesco Zarrillo, di Caserta. Nel 1981 fu la volta di Claudio Olivati, di Cervicara, strangolato. È di pochi mesi dopo, invece, il massacro di Francis Turatello “Faccia d'angelo”, boss della mala milanese, squartato in un cortile interno del carcere durante l'ora d'aria. ----------------------------- Gli anni violenti in cui Badu 'e carros ospitò capi del terrorismo e boss mafiosi- La Nuova Sardegna 26 febbraio 2012. Accadde tutto molto rapidamente, fuori dal contesto del confronto politico. Ma la decisione venne assorbita senza polemiche. Perché quelli erano anni tormentati e violenti e si conviveva con una condizione sociale che aveva forti riflessi giuridici e politici: l'emergenza. Una condizione che aveva posto le premesse all'accordo storico dell'unità nazionale. Era il 4 maggio 1977 quando un decreto interministeriale fece entrare il carcere nuorese di Badu'e carros nella geografia strategica di quella guerra crudele e asimmetrica, poi consegnata alla storia come gli «anni di piombo». La fortezza grigia che sorgeva alla periferia di Nuoro, là dove la città si perdeva in una disordinata fungaia di case, diventò così «carcere speciale» insieme all'Asinara, Pianosa, Favignana e Termini Imerese. Il «circuito dei camosci». L'ideologo e lo stratega di quella complessa macchina costruita per cercare di arginare e piegare il terrorismo era il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Una logica fredda e pragmatica, quella del generale, poi ucciso a colpi di kalashnikov a Palermo, il 3 settembre del 1982: creare un circuito carcerario superprotetto per ospitare i militanti della lotta armata e i detenuti comuni più pericolosi. Un circuito che i brigatisti rossi chiamarono con amara ironia «il circuito dei camosci». La spinta dell'emergenza ignorava però complessità ed evoluzioni pericolose nelle quali non era difficile prevedere sismi culturali, nuove elaborazioni criminali e inquinamenti velenosi in tessuti sociali fragili come quello barbaricino. Badu'e carros, prima carcere simbolo dell'antico malessere della Sardegna, si trasformò così in poco tempo in un vulcano dal quale tracimava la lava incandescente di ideologie radicali e violente, ma anche dal quale partivano insinuanti radici tossiche che potevano corrompere un universo ancora sospeso tra passato e futuro, tra antiche anomie e voglia di modernità. Coloro che intuirono per primi questo rischio furono alcuni magistrati, come l'allora procuratore della Repubblica di Nuoro Francesco Marcello, che parlò di «un braciere perennemente acceso», e l'allora presidente della corte d'appello Salvatore Buffoni, che definì il supercarcere di Badu 'e carros un «focolaio di violenza che rischia di incendiare la Barbagia». Non erano semplici paure: in quel gelido mondo separato, fatto di pietre grigie e di sbarre, si cominciarono subito a contare i morti. Nel 1980, durante una rivolta, furono uccisi Biagio Iaquinta, 28 anni, cosentino, e Francesco Zarrillo, 34 anni di Caserta. Per quel delitto furono condannati Pasquale Barra (detto O' Animale), il boia delle carceri Cesare Chiti e il cutoliano Marco Medda. Una delle due vittime fu decapitata. Poi fu la volta di Claudio Olivati, strangolato durante l'ora d'aria. Ma il 17 agosto del 1981 fu soprattutto l'omicidio di Francis Turatello «Faccia d'Angelo», boss della mala milanese, che mostrò cosa stava diventando il supercarcere nuorese nel quale erano compresse realtà criminali e politiche estreme: un mattatoio. Durante l'ora d'aria Turatello venne assalito e massacrato a coltellate. I suoi boia gli strapparono il cuore dal petto e lo morsero come gesto di estremo dileggio. Poi Turatello fu sventrato. Probabilmente Faccia d'Angelo rimase schiacciato dall'accordo fatto da Raffaele Cutolo e Angelo Epaminonda, detto il Tebano, per spartirsi la piazza di Milano. Tutto questo non bastò per arrivare a un ripensamento. Badu 'e carros, per ragion di Stato, doveva restare un bunker impenetrabile nel quale lo Stato doveva seppellire una stagione politica di sangue e uccidere i sogni rivoluzionari di vite perdute. Non solo: doveva anche essere un inferno ermetico per i boss della grande criminalità. Ma l'allarme lanciato da Marcello e da Buffoni non si riferiva solo alla pericolosissima concentrazione di violenza che inevitabilmente avrebbe portato a devastanti esplosioni. L'altro rischio era quello della "contaminazione criminale". Cioè come la presenza di boss come Luciano Leggio, il capo dei corleonesi, di Francis Turatello e di Renato Vallanzasca avrebbe potuto condizionare la malavita sarda. Il rischio altissimo per la Sardegna era quello di una catechesi criminale, una modificazione culturale che avrebbe potuto coniugarsi con le logiche mafiose. Una catechesi criminale. Nel libro "Il ventre della bestia", lo scrittore-assassino Jack Abbott aveva raccontato come nel carcere si compongono e si scompongono geografie esistenziali, maturano conflitti e solidarietà, ma soprattutto, nello spazio angusto e claustrofobico della galera, si incontrano e dialogano universi umani lontani, costretti a una contaminazione reciproca nella convivenza forzata. E la risultante può essere imprevedibile. Secondo la Commissione parlamentare Antimafia, il salto di qualità della malavita barbaricina e ogliastrina si sviluppò negli anni Ottanta e Novanta, proprio grazie a «rapporti creatisi a Badu e carros tra camorristi e banditi sardi»: da Napoli arrivavano l'eroina e la cocaina che poi venivano immesse nel mercato locale grazie alle prime strutturazioni della malavita sarda. Certo, non tutta l'evoluzione della criminalità isolana degli ultimi trent'anni può essere ricondotta a incontri, accordi e complicità nati e maturati in carcere. Ma sicuramente Badu e carros ha rappresentato un luogo strategicamente significativo per la nascita di nuove solidarietà e l'inizio di una violenza nuova. Pericolose solidarietà. In alcuni rapporti di polizia degli anni '70, poi, sono stati registrati alcuni controlli in Barbagia dai quali risulta che personaggi emergenti della malavita mamoiadina erano stati sorpresi insieme ad alcuni boss della mafia agrigentina. E come interpretare, poi, l'evoluzione di quella che sarà chiamata la seconda faida di Mamoiada nella quale diventò sempre più frequente il ricorso a tecniche mafiose come le bombe telecomandate o l'uso di quantità sempre maggiori di esplosivo negli attentati? Ma anche agguati in stile palermitano e l'ammodernamento degli arsenali con l'introduzione di armi potenti ed efficienti come i kalashnikov al posto dei vecchi Sten inglesi. Era il segno esteriore, forse ancora superficiale, che Badu 'e carros era stato capace di creare una sintesi tra sapienze criminali fino ad allora lontanissime. In alcune inchieste su delitti eccellenti commessi a Nuoro affiorarono perfino indizi concreti che i sicari fossero arrivati da oltremare. E poi, come interpretare fenomeni storicamente certi come la latitanza in Sicilia e in Calabria di alcuni personaggi appartenenti all'aristocrazia criminale barbaricina? C'era poi un livello più segreto e nascosto di rapporti. Quello che era nato tra ambienti nuoresi e i cosiddetti supporti logistici ai boss. A Badu 'e carros, per esempio, scontava l'ergastolo Luciano Leggio, il boss corleonese che aveva cominciato la sua irresistibile ascesa, insieme ai suoi fedelissimi Totò Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella. Leggio, il "viddano" crudele, aveva cominciato la guerra di conquista dentro Cosa Nostra attaccando il vertice dell'organizzazione rappresentato dalle famiglie palermitane dei Bontate, degli Inzerillo e dei Badalamenti. Ebbene, Leggio aveva bisogno di supporti esterni per avere garantito il proprio tenore di vita in carcere, adeguato al suo alto lignaggio di boss carismatico della più potente organizzazione criminale. Si scoprì così una struttura d'appoggio, una rete silenziosa e discreta, nascosta dietro alcuni esercizi commerciali di Nuoro. La scoperta della droga. C'è poi il capitolo dello sdoganamento della droga in Sardegna. Business che la criminalità locale guardava con diffidenza e sospetto perché culturalmente non accettata. Esistono pesanti riscontri processuali che comprovano il fatto che fu don Gaetano Iannì, il boss degli "stiddari" di Agrigento e Caltanissetta, al confino nel Sulcis, a far crescere aggregazioni criminali di Cagliari, come la cosiddetta Banda di Is Mirrionis che creò un contatto diretto con le mafie internazionali. Come quella turca, che aveva in mano il traffico dell'eroina. Sta di fatto che la stagione delle prigioni speciali cominciò a finire quando, nel 1983, Papa Giovanni Paolo II dichiarò solennemente: «L'uomo conserva integra la sua dignità di persona, che per sua natura è inalienabile, anche in stato di colpevolezza. La restrizione delle libertà personali trova in quella dignità un limite inalienabile». Il Pontefice aveva raccolto il grido amaro e disperato dell'allora capellano di Badu 'e carros, don Salvatore Bussu. ---------------------- Badu 'e Carros, i segreti della fuga: aveva la chiave - Cronaca della clamorosa beffa in carcere Della "porcilaia", le celle malfamate del carcere nuorese, ne aveva solo sentito parlare. Qualche volta c'era passato lì davanti. Ne percepiva muffa e buio, spranghe inamovibili e tanfo a sufficienza. Gli è bastato per pianificare una fuga senza precedenti dal carcere, una volta di massima sicurezza, di Badu 'e Carros, periferia estrema della capitale della Barbagia. Il solo pensiero che da lì a poco i magistrati potessero spedirlo dritto al 41 bis, con tanto di isolamento nella latrina storica destinata ai più riottosi, gli è bastato per pianificare ogni minimo dettaglio di un'evasione destinata a passare alla storia del penitenziario nuorese. Salto nel vuoto La cronaca di quel salto nel vuoto è racchiusa in fotogrammi che le telecamere incustodite hanno impresso nella memoria di una regia a quell'ora abbandonata a se stessa. Le immagini sono quelle esterne, con tanto di gesto atletico compiuto con la rapidità della luce, senza nemmeno sfruttare a pieno i nodi delle lenzuola sistemati come scalini, prima per salire e poi per scendere. È una cronaca che si commenta da sola, con tanto di caduta rovinosa ma indolore, sino a quella corsa forsennata verso il primo angolo utile per sparire verso l'innesto con la strada che porta dritti sulla diramazione centrale nuorese. Sono i fotogrammi di una fuga impressionata dall'esterno, documentata per dieci metri d'altezza e venti di lunghezza, sino al buio, quello che è calato dopo le 18 di venerdì intorno a quel carcere che fu di Francis Turatello, Renato Vallanzasca, Luciano Liggio, Antonio Iovine, Pierluigi Concutelli e Graziano Mesina. Le primule rosse finivano tutte lì, a smaltire ergastoli e "fine pena mai". Ora il carcere dei mafiosi, camorristi, delle 'ndrine, della Sacra Corona unita e dei terroristi più efferati non è più inviolabile. Anzi, di colpo, il terrore dei detenuti è diventato un colabrodo, con varchi inimmaginabili per detenuti rinchiusi nel braccio in teoria più blindato, quello dell'Alta Sicurezza. Quello che stiamo per raccontarvi è il dietro le quinte di una fuga con tanti segreti e mille misteri, tutti racchiusi all'interno di quelle mura di granito che avrebbero dovuto evitare qualsiasi azzardo. Puzza di "porcilaia" Eppure Marco Raduano, trentanove anni all'anagrafe, ma già venti da scontare nelle patrie galere, boss mafioso incallito, numero uno del clan dei Montanari della mafia garganica, non voleva correre il pericolo di passare la vita dietro le sbarre della quinta sezione del carcere nuorese, il più tosto di tutti. In arte delinquenziale soprannominato "Pallone", originario di San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia, sapeva che non aveva molto tempo per mettere a segno il colpaccio. I giudici da lì a poco avrebbero potuto assestargli il colpo finale. Dal reparto dell'Alta Sicurezza, già oppressivo, poteva passare in un attimo al carcere duro, quello del 41 bis, venti metri più avanti della stanza d'hotel con le sbarre che lo custodiva sul versante sud della città. Le finestre, non più bocche di lupo, erano uno sguardo perenne sulla via Dessanay, quella della fuga. Per arrivare a quell'ultima rete, prima della strada, però, c'erano almeno tre ostacoli, apparentemente insormontabili: la porta blindata della cella, le sbarre del reparto, l'accesso inviolabile nel cortile verso il muro di cinta. Per le prime due conosceva orari e regole. A quell'ora celle aperte per tutti. Comprese quelle che collegavano un reparto con l'altro. L'ostacolo era quella porta sigillata con tanto di chiave d'ottone, pesante come un randello, varco finale tra le mura interne e quelle perimetrali. "Pallone", però, aveva studiato ogni dettaglio, forse con largo anticipo. Aveva quasi tutto scolpito in testa, ogni minimo passaggio di quella fuga che solo nei film poteva essere gestita con un copione senza intoppi. Le immagini dello scavalcamento del muro di cinta sono ormai un best seller per social e media, quelle interne, invece, quelle che raccontano il trapasso dalle mura di granito al cortile, sono top secret. Tutte le falle È in quei fotogrammi, quelli registrati dalle telecamere piazzate un po' ovunque dentro il carcere, che si cela il mistero della fuga di questo capomafia, finito non per caso nella Cayenna sarda. I soloni di Stato, qualche anno fa, imposero anche nelle carceri di massima sicurezza la vigilanza passiva, telecamere e regia, per sostituire uomini e agenti penitenziari. Lui, "Pallone" lo sapeva perfettamente. Aveva cronometrato varchi temporali, buchi di guardiania nella regia televisiva del grande fratello del carcere. Sapeva che a quell'ora poteva osare, dove mai nessuno aveva nemmeno tentato. Il video impressionato intorno alle 17 lo racconta sereno, come se quella rampa di scale che sta percorrendo all'interno della quinta sezione lo stesse portando dritto verso il paradiso della libertà. Quando sale al piano superiore sa cosa sta cercando. Gli manca il "passepartout" per aprire la porta finale. Se l'è andata a prendere, proprio dove sapeva che fosse nascosta. I fotogrammi lo immortalano mentre preleva la chiave. Gli zoom lo seguono mentre scende, lo cristallizzano ne l frangente in cui, una volta arrivato al piano inferiore, si accorge che la chiave è quella sbagliata. Non si perde d'animo. Con la flemma di chi sogna quel prato verde all'esterno dove ruzzolare rovinosamente, risale per le scale, sempre seguito dalle telecamere passive, preleva la chiave giusta e riconquista la porta del paradiso, quella che gli consente di lasciarsi alle spalle il penultimo muro della sua segregazione. A quel punto, nascosto chissà quando, prende da un lato della porta quel rotolo di lenzuola, con un gancio d'acciaio sagomato per avvinghiare la vetta del muro perimetrale. Un gancio prodotto all'interno del carcere, in un unico reparto capace di quei lavori, quello dei detenuti Mof, Manutenzione ordinaria fabbricati. All'estremità degli otto metri di lenzuola il gancio ha la forza di una cima per agganciare la vetta del muro. L'operazione è fulminea. Un lancio, una rapidissima scalata, un attimo per posarsi a cavalcioni sopra il muro di cinta, ribaltare sul fronte esterno il gancio e le lenzuola e gettarsi oltre il confine del carcere. Trenta passi veloci. Tutto sotto gli occhi vigili di una telecamera che nessuno, però, sta guardando. Ad attenderlo c'è sicuramente un basista. Sono le 18. In tempo per gettarsi nel buio della 131 dcn, con una meta segreta e una variabile di non poco conto, il mare, da attraversare entro la notte, prima che l'allerta possa scattare anche oltre il Tirreno. Ultimo dettaglio, il capo clan aveva in carcere una disponibilità finanziaria evidente. Una fuga che non poteva realizzare da solo. Lo cercano ovunque, ma per adesso non lo trovano. Mauro Pili --------------------------- I Baschi blu. Reparto nato nel 1966 su iniziativa dell'allora capo della polizia Angelo Vicari e costituito organicamente presso il 2? Reparto celere di Padova, dopo la crescita dei sequestri di persona in Sardegna. Fu così che nei primi giorni del gennaio 1967 sbarcò nell'isola un migliaio d'uomini, appartenenti al neo costituito reparto speciale della polizia (conosciuto come i baschi blu) ed a quello omologo dei carabinieri. Fu molto attivo in Sardegna, specialmente nel nuorese, nella località Abbasanta tra il 1966 e il 1970. Parteciparono attivamente nel contrastare la fuga di Miguel Atienza e Graziano Mesina il 17 giugno 1967: scoppiò un conflitto a fuoco nel quale Atienza uccise due agenti, rimanendo anch'egli ucciso. Il reparto fu sciolto nel 1970.
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Giuseppe, hai fatto un lavoro enorme in didascalia che ho letto alcuni giorni fa. Per la maggiore non conoscevo tante cose che hai scritto ed il tutto è interessante, fa parte della nostra storia. La foto ha una qualità di luce ,cielo e viraggio del colore che legano alla perfezione con il significato che trasmette. Tanti complimenti per i grandi lavori che spesso pubblichi. Ciao.
L'immagine è bellissima in uno stupendo b/n, ma ho letto con molto interesse la non "tringata" didascalia che mi ha riportato in mente parecchi episodi che sembravano essere stati completamente dimenticati. Complimenti e saluti, Paolo