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Sognando l'Himalaya... sulle Alpi


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Sognando l'Himalaya... sulle Alpi, testo e foto by Matteobedendo. Pubblicato il 09 Novembre 2015; 48 risposte, 8572 visite.


Siamo solo all'inizio di Settembre e su social, webcam e telegiornali mi dispero guardando le immagini delle abbondanti nevicate di questi giorni. Se già nevica ora presto sarò costretto ad abbandonare l'alta quota per svariati mesi, e ridurmi a girovagare per quelle prealpi che - nonostante l'affezione - non soddisfano la mia ricerca preferita: quella alla remotezza più assoluta. Con una mossa disperata decido di aggrapparmi alle ultime giornate d'estate e, fingendo di ignorare la preoccupante situazione, mi organizzo per un giro solitario in tenda di un paio di giorni. Sto fissando lo zaino carico di materiale, chiedendomi se davvero riuscirò a percorrere quei duemilaseicento metri di dislivello così carico, quando mi arriva il solito messaggio a stravolgere i piani. Mi viene proposto a sorpresa un giro nell'Oberland, e in particolare a uno dei suoi quattromila, partendo il giorno successivo. Guardo di nuovo lo zaino che, così esplosivamente pieno, sembra volermi garantire qualsiasi tipo di rogne possibili. Scordo all'istante tutti i problemi legati alle nevicate recenti, rispondo positivamente al messaggio e butto all'aria tutti i preparativi. D'altronde è l'Oberland! E' quella regione delle Alpi Svizzere che da un paio d'anni è nel mio mirino, probabilmente perché, a giudicare dalle foto e dalle descrizioni, è unico nel suo genere e assomiglia più a uno scenario Himalayano che ad uno Alpino. Non vedo l'ora di fotografare questa splendida regione! I ghiacciai più estesi delle Alpi sono tutti qui, insieme ad un gran numero di quattromila e altri giganti selvaggi.

La mattina dopo alle otto sono già in macchina con Elke che, al contrario di me, ha passato le ultime tre ore e mezza a guidare nell'oscurità da Bolzano, mentre io dormivo a casa. E' la seconda gita che facciamo insieme: la prima è stata alla Dent d'Herens, bellissimo quattromila a lato del Cervino: i trenta chilometri totali e le condizioni precarie della parte finale ci hanno costretto ad una ritirata poco sotto la cima. Anche questa volta le condizioni sono un po' preoccupanti, a causa delle precoci nevicate. Senza un minimo di razionalità partiamo confidenti che in quella remota regione (la più fredda, ventosa e instabile delle Alpi), per qualche imprevedibile motivo, non sia ancora successo niente.




Alle dodici e mezza siamo sulla funivia. A giudicare da ciò che si vede dal fondovalle, deve aver nevicato pochissimo qua. Bene! Camminiamo la prima ora e mezza con in mano i nostri sacchi a pelo. L'idea è di nasconderli sotto qualche roccia nella prima parte di itinerario, viste le discrete probabilità, il giorno seguente, di non tornare in tempo per la funivia. Questa volta - nonostante l'aiuto che ci concediamo con gli impianti - si prospettano oltre quaranta chilometri e svariate ore di cammino, oltre che ad un onesto dislivello da superare: probabilmente guidare la sera stessa del rientro ci avrebbe regalato l'emozione di un indesiderato schianto per colpo di sonno.




Dopo una quarantina di minuti di sentiero entriamo in una inquietante galleria pedonale lunga un chilometro, che ci proietta in un mondo decisamente più selvaggio e inaspettato. Siamo in vista del gigantesco Aletschgletscher, una lingua di ghiaccio lunga quasi venticinque chilometri e terribilmente larga - la più estesa di tutte le Alpi. Sicuramente una delle "cose" più immense su cui io abbia mai posato lo sguardo, o su cui abbia puntato la macchina fotografica. Lasciamo i sacchi a pelo sotto un grosso masso poco prima di mettere piede sul ghiacciaio, e poi lo percorriamo senza un vero percorso obbligato per svariate ore.




L'ultimo terzo di ghiacciaio è decisamente tormentato da crepacci troppo grandi da aggirare (il caldo tropicale di quest'estate ha lasciato i suoi segni) e ci costringe a camminare sulla morena laterale: i saliscendi su detriti instabili ci impegnano terribilmente per un altro paio di ore. Ad ogni modo io sono felice come un bambino e passo buona parte del tempo a disturbare Elke facendole notare quanto sia tutto esageratamente immenso (ma essendo lei dotata della vista e di un'altra manciata di sensi, quasi sicuramente se ne è già accorta da sola). La mia mirrorless scatta foto senza tregua.




Arriviamo al rifugio Konkordia alle sei e mezza di sera. Il rifugio sorge su uno sperone roccioso circa duecento metri sopra al punto dove quattro ghiacciai si incontrano, in un gelido plateau di svariati chilometri di diametro - chiamato appunto Konkordiaplatz (ne eredita il nome anche il gigantesco plateau glaciale alla base del K2, che effettivamente lo ricorda molto). La vista da qua è la più spettacolare che io abbia visto fin'ora, probabilmente: nemmeno durante la mia gita in Nepal qualche anno fa mi ero sentito in un posto così.. Himalayano.




Ceniamo a base di panini freddi e altre schifezze schiacciate che ci siam portati dietro, per evitare di spendere tutto il nostro budget in costosissime pietanze Svizzere; nel frattempo ne approfittiamo per chiedere a una guida alpina presente qualche consiglio sulla nostra meta - che apparentemente è consigliabile salire in tre giorni e non due - e chiediamo a una rifugista il modo migliore per evitare di ripercorrere i faticosissimi detriti che precedevano il rifugio. Poi Elke scopre che altri due alpinisti tedeschi sono diretti al Grunhorn (questo è il nome della nostra meta) l'indomani, e partiranno alle cinque: partiremo quindi anche noi a quell'ora un po' tarda, con mio vago dispiacere. La sera mi soffermo un pò sul terrazzo dove riesco a fare qualche foto appoggiandomi alla ringhiera di legno.




Alle cinque, come previsto, siamo in marcia. E' ancora buio pesto e il termometro del rifugio segna -5°. Camminiamo per un paio di ore lungo una morena detritica, poi superiamo un pezzo di ghiacciaio aggirando qualche crepaccio. Non appena raggiungiamo una zona ancora coperta di neve ci leghiamo e proseguiamo un po' più cauti, ma comunque di buon passo e senza pause.




Raggiungere il Grunhorn è abbastanza faticoso: le prime ore sono un'infinita camminata ripida su ghiacciaio, poi bisogna trovare un passaggio tra un labirinto di seracchi, mentre si sale un faticosissimo e ripido pendio. Si raggiunge poi uno stretto canalino nevoso tra due bastionate rocciose e si spunta sulla cresta del Grunegghorn, che si risale fino all'esposta cima. Dopodiché si ridiscende sull'altro lato e finalmente si sale la cresta vera e propria del Grunhorn, fino alla sua cima, che è esattamente al centro di questa regione glaciale, a cavallo tra due valli gigantesche e spettacolari. L'abbiamo scelta proprio per questo puro piacere esplorativo - e per evitare salite troppo tecniche, visto il sospetto di trovare tutto abbondantemente innevato. Una gita di puro piacere in cerca di posti spettacolari, più che in cerca di grosse difficoltà; ad ogni modo queste si sono riproposte nella forma di una mazzata fisica non indifferente.
Dopo aver sudato e aggirato buchi, torrenti, seracchi e scivoli di neve, ci troviamo sotto ad una grossa e asciutta bastionata rocciosa. L'alba ci coglie qua, e finalmente mi dà l'opportunità di fare qualche bella foto. Poi, risistemando goffamente la fotocamera, bagno completamente l'obiettivo; scoprirò poi a casa che una buona decina di foto saranno inutilizzabili.




Arriviamo quindi, trascinandoci un passo alla volta, al ripido canalino nevoso che dovrebbe condurci sulla cresta del Grunegghorn. Il canalino però non c'è. Al suo posto c'è un grosso crepaccio terminale, dall'aspetto maligno e strapiombante; nella sua "bocca" c'è una fittissima schiera di stalattiti che sembrano denti di squalo. Noto che alla sua sinistra, tra il ghiaccio e la roccia, c'è una breve e stretta colata di ghiaccio percorribile, e in cima ad uno sperone di roccia noto anche un anello di corda. Lo punto immediatamente e risalgo la colata, dando spiccozzate di gusto nel ghiaccio vivo. Elke mi fa notare come a sinistra, su roccia, sarebbe stato molto più semplice salire e sarei sbucato comodamente accanto al solido anello. E' vero, ma fingo comunque di divertirmi un casino e con qualche scusa del tipo "eh ma vuoi mettere il ghiaccio" mi trascino fuori poco elegantemente da quel cunicolo e poi la recupero.

Aggiriamo una vaga cornice e mettiamo piede sulla cresta nevosa, che in breve diventa un pendio molto largo. Il panorama inizia ad essere quello giusto. Puntiamo l'evidente cresta rocciosa in cima al pendio: sembra ancora così lontana... Ogni pochi passi sono costretto a fermarmi. Ero partito abbastanza lanciato stamattina ma adesso, dopo un migliaio di metri di dislivello, mi sento già esausto. Ci trasciniamo avanti seguiti dai due tedeschi che ora accusano qualche decina di metri di svantaggio; la vetta ancora non si vede.




Mi sembra sia passata un'eternità dalla partenza, ma non oso guardare il telefono per accertarmene. Temo di vederci scritto un orario da infarto, come "16.30". Finalmente però ci portiamo alla sella da cui parte l'affilata cresta finale del Grunegghorn, da dove possiamo guardarci in giro e fare il punto.
Punto primo: ecco in vista il Grunhorn, finalmente! Ma è lontanissimo, cavolo, e guarda quanto è ripida e lunga la sua cresta. Punto due: la cresta che ci si presenta qua davanti, per superare il Grunegghorn, sembra davvero affilata ed esposta. Punto tre: siamo stanchi morti. Com'è possibile? I due tedeschi sembrano trascinarsi in questa direzione anche loro, sofferenti. Guardo l'orologio: undici e venti! E' una sorpresa positiva: siamo in marcia solamente da sei ore e ci rimane ancora un pò di tempo. Decidiamo di fare un tentativo: lasciamo accanto ad un masso tutto il materiale che non ci serve più (compresi bastoni, vestiti sporchi, borracce vuote, cibo) per alleggerirci di qualche chilo e, con i ramponi ai piedi, partiamo a gran velocità sull'esile cresta.




L'esposizione qua è spesso notevole, ma riusciamo a procedere spediti, ogni tanto passando la corda dietro a qualche spuntone come assicurazione; le uniche pause sono per fare qualche foto. I due tedeschi raggiungono la sella della cresta dove ci osservano procedere per qualche minuto, indecisi ed esausti. Poi si girano e li vediamo sparire dietro al colle da cui sono venuti. Perlomeno nessuno ora sarà qua a vedere la nostra figuraccia, se le gambe non ci consentiranno di arrivare in cima. Ora la situazione assomiglia preoccupantemente alla nostra salita alla Dent d'Herens di un mese fa, nella quale dopo un'interminabile e faticosissima marcia siamo stati costretti a tornare indietro ad un soffio dalla cima. Se accadesse di nuovo, questa nostra cordata sarebbe ufficialmente marchiata da una demotivante maledizione.

La cresta, inizialmente di roccia, si trasforma in misto nella parte centrale e diviene quasi unicamente nevosa in quella finale. Arriviamo in cima al Grunegghorn, a quota 3860 metri; il panorama è già superbo, la temperatura né troppo alta né troppo bassa. Ma le mie gambe sono infuocate. Da qui dobbiamo ridiscendere per un centinaio di metri dall'altra parte. Decidiamo di fare un ultimo tentativo: Elke sostiene che secondo lei la cresta del Grunhorn è più corta di quanto sembri; a me la cosa convince di meno e con rassegnata onestà le dico che mi sembra più lunga, ripida e faticosa di quanto potessi immaginarmi. Ma ad ogni modo ci proverò, perché ormai siamo qui e dopo un pellegrinaggio così faticoso ci vorrà qualche secolo prima che io torni in questo posto.

La discesa dal Grunhorn è parecchio ripida: le relazioni trovate non ci avevano fatto immaginare niente del genere. Da una lato ovviamente c'è il solito salto roccioso nel vuoto; dal lato nevoso invece c'è un pendio a quasi cinquanta gradi di neve e ghiaccio, con un eventuale tuffo da un muro di seracchi alto come una casa per chiunque fosse sceso un po' troppo in basso. Cautamente raggiungiamo la sella tra Grunegghorn e Grunhorn: al ritorno, salendo, sarà tutto tecnicamente più facile; perlomeno se escludiamo il dolore infernale che proverà il mio corpo nel ripercorrere questi cento metri di salita.




Da quaggiù la cresta che ci aspetta ha un aspetto un po' meno spaventoso. In condizioni normali, anzi, è una cresta che saliremmo velocemente e senza problemi. Ora però siamo orribilmente stanchi. Vado avanti: non sto direttamente sul filo di cresta ma percorro un lungo traverso nevoso al di sotto della striscia di rocce; la mia idea è che in questo modo, attaccando la cresta dopo il primo terzo, potremmo risparmiare un po' di tempo e fatica. Unico lato negativo di questa scorciatoia è il dover traversare su neve molto ripida per qualche minuto al di sopra della brutta voragine terminale: risolviamo brillantemente evitando di guardare in giù o pensarci.
Tutto fila liscio, risaliamo per rocce rotte fino al filo di cresta e togliamo i ramponi per esser più veloci. Saliamo senza soste nemmeno per le foto, passando ogni tanto la corda dietro qualche vago sperone. La cresta si rivela abbastanza facile: una buona notizia finalmente. C'è da stare attenti a molte rocce marce e detriti instabili ma generalmente, stando sul filo, la roccia è abbastanza solida. Alle tredici, dopo aver pestato qualche timida chiazza di neve, siamo in cima ai quattromilaquarantaquattro metri del Gross Grunhorn.




Dieci minuti passano solamente nel fotografare la bellezza estrema di questo luogo. Cerco qualche indizio che possa giustificare il nome della montagna, letteralmente "Gran Corno Verde" (un nome un po' azzardato per una piramide di neve e ghiaccio), ma probabilmente l'unica cosa di questo colore nel raggio di molti chilometri è il mio piumino. Temendo di perdere qualche dettaglio per sempre, scattiamo foto senza pietà in ogni direzione, ripetutamente. Arriviamo alla conclusione che questo è di gran lunga il posto più panoramico e remoto raggiunto fin'ora sulle Alpi da entrambi, e sicuramente anche il più faticoso. Inoltre concludiamo che l'alpinismo è un'attività fantastica, ma solo quando non la stai praticando in un bagno di sudore e brividi, e ti stai godendo le foto di fatiche passate seduto e al caldo. Stiamo in cima una buona mezz'ora senza aver il coraggio di alzarci o pensare alla discesa.




La cresta, scendendo, si rivela un po' più lunga e psicologicamente faticosa. Siamo assetati, l'acqua è quasi finita e le gambe fanno male. Non troviamo il punto da cui abbiamo traversato e quindi la percorriamo tutta integralmente; dal colle ora ci aspetta la faticosissima risalita al Grunegghorn. Poi di nuovo cresta, in discesa. Quando al termine delle difficoltà rimetto piede sul colle dove abbiamo lasciato il materiale in eccesso sono totalmente dolorante. La stanchezza ha reso l'esposizione della cresta abbastanza snervante. Finalmente ora siamo al sicuro, su larghi pendii nevosi. Bevo l'ultima goccia d'acqua della borraccia: la prossima acqua potabile è una bottiglietta da mezzo litro che ho nascosto con il sacco a pelo, a una quindicina di chilometri da qui. Durante la discesa sui pendii resi molli dal sole pomeridiano mi riprendo un po'. Mi è sempre piaciuta la discesa su questo tipo di terreni, saltellando su neve che sprofonda e ammortizza il carico sulle ginocchia.




Presto siamo al canalino-voragine che precedentemente abbiamo dovuto risalire, più o meno atleticamente. Decidiamo di calarci in corda doppia per non rischiare di finire dentro il crepaccio, cosa non improbabile visti i dolori e la stanchezza: gli anelli di corda sono già stati lasciati da qualcuno su uno spuntone di roccia e non dobbiamo quindi abbandonare materiale. Mi calo per tre o quattro metri sulla verticale e poi, per non finire la mia esistenza nella voragine sotto ai miei piedi (al momento i dolori alle gambe mi hanno fatto considerare anche questa opzione) traverso in obliquo verso il lato, dove intercetto un pendio solido e sicuro. Mentre mi guardo intorno stanco e intontito l'occhio mi cade su Elke, che si sta calando: gli anelli intorno allo sperone stanno inesorabilmente scivolando fuori a destra. Questo è un momento spiacevole: se Elke finisse sul fondo di quel buco, le mie speranze di vedere il sacco a pelo entro domani svanirebbero (oltre al problema in sé, non sottovalutabile, di avere il compagno di cordata sul fondo di un crepaccio). Faccio notare a Elke la cosa cercando di non mostrarmi troppo preoccupato, ma neanche troppo rilassato. Non è facile dire a qualcuno che sta rischiando di finire in una voragine senza fondo, e per un istante medito se - nel mio tentativo di avvertirla - è il caso di infilare dentro anche qualche battuta sdrammatizzante. Ma forse è meglio di no. Con un buon autocontrollo lei si attacca alle rocce scaricando il peso dalle fettucce, poi traversa cautamente fino ad un punto sicuro. Ci mancava giusto qualche altro brivido.. perlomeno però scendiamo i primi minuti con il fiato sospeso per l'accaduto e non pensiamo alla fatica. Poi, con passo spedito - per quello che ci concede il fisico - ripercorriamo le nostre tracce perdendoci solo un paio di volte, fino ad arrivare nei pressi del vallone glaciale che si immette nella gigantesca "Konkordiaplatz".




E' tardi e siamo totalmente disidratati. Decidiamo di seguire i consigli che ci sono stati dati la sera prima al rifugio: invece di percorrere la faticosissima e interminabile morena di detriti e sali-scendi a lato del ghiacciaio, avremmo puntato il centro della piana glaciale e avremmo seguito la seconda delle fasce detritiche che ne percorrono il centro. La sete inizia ad essere quasi insopportabile e ci ritroviamo a riempire le borracce con l'acqua del ghiacciaio, cosa tendenzialmente da evitare. Ad ogni modo è talmente fredda che, nonostante la sete, riusciamo a berne pochissima; d'altronde siamo legati da una breve corda e circondati da centinaia di metri di ghiaccio assolutamente piatto: se l'acqua gelida mi provocasse un probabile attacco intestinale qui, la situazione diventerebbe così imbarazzante che probabilmente preferirei gettarmi in un crepaccio. Scavalchiamo gli ultimi detriti e, passando duecento metri sotto lo sperone su cui sorge il rifugio, puntiamo al centro della Konkordiaplatz. Ci mettiamo quasi mezz'ora a raggiungerlo. Questo preciso punto, al centro della distesa di ghiaccio più vasta delle Alpi, è da qualche anno al primo posto tra i luoghi che volevo esplorare sulle Alpi. Ora però sono le otto di sera, sono stanco morto e so che da qui dovrò camminare ancora chissà quante ore: più che la coronazione di un sogno è una sorta di incubo. Davanti a noi la lingua glaciale scende verso valle per oltre venti chilometri, prima di ridursi e scomparire nella valle del Rodano. La prima parte del percorso ci costringe ad aggirare qualche piccolo crepaccio. Poi, nel giro di mezz'ora, le cose si complicano.




Sono le nove e l'oscurità è quasi totale. Ci siamo rassegnati all'idea di una rapida progressione: i crepacci ora sono giganteschi e non ci resta che aggirarli uno per uno. Confidiamo che questa parte così tormentata non duri molto, ma presto ci rendiamo conto che il nostro piano è stato un fallimento e che probabilmente chi ci ha consigliato questo percorso è stato qui quando il caldo non aveva ancora ridotto i ghiacci in questo stato. Quando l'ultima debole luce sparisce completamente ci troviamo in una situazione davvero spiacevole: siamo in un vicolo cieco, in fondo ad una penisola glaciale circondata da voragini larghe parecchi metri. Cerchiamo in ogni direzione una scappatoia, ma sappiamo bene che il ghiacciaio è talmente largo e lungo che dietro ogni voragine ce n'è molto probabilmente un'altra, e poi un'altra ancora, e così per chissà quante centinaia di metri. Nella testa saltano in mente svariate opzioni: tornare indietro? Ripercorrere per almeno un'ora un labirinto di ghiaccio, al buio, per poi forse riuscire a trascinarci in piena notte nel rifugio. Vorrei evitarlo. Chiamare un elicottero è fuori discussione, e poi in questo posto dimenticato non c'è linea telefonica. Forse dovremmo stare qui, in piedi in questo posto, fino al sorgere del sole: magari allora riusciremmo a trovare un passaggio. Il morbido sacco a pelo di piume d'oca appare nella mia mente stanca come una lussuosa stanza d'albergo e mi rifiuto di doverci rinunciare proprio ora.


Con Elke un po' sospettosa, decido di tentare di attraversare una sottile lingua di ghiaccio che sembra essere un timido collegamento con il resto del ghiacciaio. Scopro che non è particolarmente difficile: Elke mi segue e ora dobbiamo solo sperare che questo nuovo isolotto di ghiaccio porti da qualche parte. Grazie ad uno scherzo della sorte in questo preciso punto c'è un debole segnale telefonico, mai trovato negli ultimi due giorni; provvidenzialmente in quel momento ricevo anche una telefonata. I miei amici mi chiedono di raggiungerli al solito locale; rispondo con naturalezza che al momento sono impegnato a trovare una via d'uscita dal ghiacciaio più grande d'Europa. In risposta mi arrivano in gran parte risate. Posso comprendere che le dieci di sera non sia un orario credibile per mettersi a fare certe gite. Mi scuso per la mia imperdonabile impossibilità ad uscire e ci salutiamo come se niente fosse: probabilmente hanno almeno apprezzato la creatività della mia scusa.




Decidiamo di abolire il tentativo di attraversamento dal centro del ghiacciaio e puntiamo sconfitti all'inevitabile e faticosissima morena laterale: grazie a evidenti botte di fortuna (e forse un po' di intuito) riusciamo al buio a riattraversare verso il lato e aggirando gli ultimi canyon senza fondo mettiamo piede sulle masse di detriti congelati della sponda est. A rendere più completa l'esperienza ci vengono offerti dei piacevoli rumori di crolli e frane nell'oscurità sul percorso che ci accingiamo a seguire. Il disagio e l'inquietudine di percorrere alla cieca un ghiacciaio ci accompagna per le successive tre ore, nelle quali continuiamo senza sosta il nostro aggiramento di crepacci notturno. Per la ripetitività dei movimenti, la stanchezza, la disidratazione e l'assenza totale di qualsiasi riferimento che possa darci un qualsiasi segnale, il tempo si dilata e mi sembra di camminare tutta notte.

Poi, nell'oscurità, riesco a riconoscere la vaga sagoma del vallone da cui siamo scesi due giorni prima e, dopo aver evitato le ultime gole senza fondo, rimettiamo piede sulla terraferma. Con le ultime energie, trascinandoci come zombie, saliamo gli ultimi cento metri di dislivello fino ai sacchi a pelo. E' l'una di notte, siamo svegli da più di venti ore e abbiamo percorso, negli ultimi due giorni, circa quaranta chilometri. Ci infiliamo dentro e ci addormentiamo scomodi sulla prima chiazza di erba libera di sassi.

Cinque ore dopo abbiamo entrambi rinunciato all'idea di dormire. Fa un freddo che mi sembra di gran lunga il peggior sperimentato fin'ora, nonostante siamo al massimo a duemiladuecento metri di altitudine. Scopro così, grazie alle prime luci del giorno, di essermi addormentato ad un metro e mezzo da un laghetto che credevo trovarsi in fondo a una conca a qualche decina di metri. Inoltre noto con discreto dispiacere di avere sacco a pelo e scarponi totalmente fradici: una sorte quasi peggiore di quella dei miei zaini che perlomeno si sono limitati a ricoprirsi di ghiaccio.




Le nostre facce sono abbastanza imbruttite e gli occhi sono rosso sangue; non invidio chi ci vedrà arrivare alla macchina più tardi e immagino già le facce sospettose dei doganieri. Consapevoli però di esser ormai fuori pericolo di morte, ma decisamente in pieno pericolo herpes, raffreddori e malanni poco eroici, impacchettiamo rozzamente la roba e puntiamo al tunnel che attraversa la montagna. Un'ora e mezza dopo arriviamo alla stazione della funivia di Fiescheralp, dove terminano le nostre fatiche.. o perlomeno le mie: non dovendo guidare, sfrizionare o muovere qualsiasi arto, mi godo i panorami svizzeri immobile come un relitto sul sedile del passeggero.


Matteo Bedendo scrive di sè:" Mi chiamo Matteo, ho venticinque anni e amo la fotografia ma, più di ogni cosa, la sensazione di trovarmi in luoghi remoti e poco visitati, dove la natura regna sovrana. Dopo aver girato un pezzo di mondo, sono tornato qui in Italia dove mi sono trovato a esplorare verticalmente le Alpi. Questa gita è nata dall'idea di salire una montagna nel luogo più Himalayano possibile.. pur restando a poche ore di macchina da casa. Tutte le foto sono scattate con Sony a5100 e obiettivo 16-50 dal kit. "



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avatarjunior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 12:44

Complimenti... sensazioni splendide.

avatarjunior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 13:07

foto spettacolari'complimenti

avatarsenior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 13:12

Che figata!

avatarsenior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 13:15

Che avventura grandiosa, complimenti a entrambi, mi ha appassionato molto la lettura del tuo resoconto!
E complimenti anche per le foto, a volte la stanchezza ti fa passar la voglia di scattare, invece tu l'hai mantenuta, bravo!

avatarsenior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 13:23

e tanto coraggio

avatarjunior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 13:25

Bellissimo racconto in luoghi eccezionali! Vi invidio.

avatarsenior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 13:39

Mi sono "bevuto" la tua avventura nell' Aletsch arena, essendo stato qualche estate fà lì comprendo le vostre difficoltà, poi di notte sul ghiacciaio credo che sia stata davvero durissima , per di più stravolti dalla fatica. Il laghetto dove ti sei messo a dormire ha l'abitudine di cambiare la sua altezza piuttosto velocemente, direi che vi è andata bene a non svegliarvi nell'acqua gelida, ci mancava solo questo.Eeeek!!! Hai davvero ragione quando dici che lì è un ambiente particolare nelle Alpi, chi ama la montagna non può non vederlo! Complimenti !!Sorriso

avatarsupporter
inviato il 09 Novembre 2015 ore 13:52

Mi sono stancata per empatia a leggere il tuo raccontoSorriso. Deve essere stato uno spettacolo meraviglioso essere lì ma che fatica! Grazie per aver postato queste meravigliose foto di un posto che sicuramente non vedrò mai di persona (Eeeek!!!Eeeek!!!) Complimenti a te e alla tua amica Elke che è riuscita pure a portarti a casaSorriso

ciao Tiziana

avatarjunior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 13:54

Bellissimo tutto, foto e racconto. Complimenti!

avatarsenior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 14:29

Bellissima avventura e gran bel racconto, complimenti a te e ad Elke...braviEeeek!!!Sorriso

avatarjunior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 14:45

Racconto molto appassionante ed avvincente. Quanta invidia!!!
Complimenti a tutti e due.

avatarjunior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 15:02

meraviglioso.... da fotografo di viaggio e non proprio amante della montagna, le foto fatte in vetta son le piu' belle, perchè solo veramente pochi possono vantare d'esserci stati

avatarjunior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 15:14

Bravo,
faticaccia ,ma non sai quanto ti invidio;-)

avatarjunior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 18:01

Complimenti per l'avventura, grazie per avercela raccontata.
Solo l'idea, mi fa venire freddo...
Ciao
Stefano

avatarsenior
inviato il 09 Novembre 2015 ore 19:00

Viaggio davvero avventuroso, hai scritto un articolo davvero ben fatto, mi hai tenuto attaccato all'articolo dall'inizio alla fine. Davvero avvincente! ;-)
Un saluto,

Andrea





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