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pericolo immaginario...

Campagna

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pericolo immaginario inviata il 10 Novembre 2019 ore 21:20 da Mediamenta. 1 commenti, 120 visite. [retina]

a 28mm, 1/200 f/3.5, ISO 2000, mano libera.




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avatarjunior
inviato il 08 Giugno 2022 ore 19:55

Uno strano rito

Non sto qui a dire quanto tenessi a mio zio. Riferirò solo che ci accomunavano le lunghe camminate attraverso la terra viterbese, entrambi con la doppietta, che portavamo più per darci un contegno, diciamo così, che non per vera fame di prede.

Ci piaceva particolarmente quell'agro dall'andamento dolce, poco sopra Bolsena, ai confini con Castel Giorgio. Andavamo a notare viottoli disegnati e ribaditi dai cinghiali, strade bianche, la Francigena nelle sue varie diramazioni e vicoli secolari tra il grano e i girasoli; casupole, casolari, villini, frazioni, spacci di frutta e verdura sperduti nella campagna, macchine o trattori abbandonati nei boschi; tane di talpe, orme di tassi, peli di volpe strappati dai rovi, resti di istrici sbranati, gatti morti col sorcio in bocca; alveari, vespai, stagni e anfratti ottimi per i funghi autunnali.

Tutti questi segni erano annotati da mio zio su un quadernetto, e anzi negli ultimi tempi ero io a doverne tener conto. Segnavamo ubicazioni e aggiornavamo le precedenti con le variazioni, e ci era addirittura balenata l'idea di estrarne un bollettino da distribuire nei luoghi di smercio, le edicole, gli alimentari, i tabaccai, senza alcuna pretesa di periodicità.

In una di queste esplorazioni, tra Poggio Casetta e Pozzarello, ci inerpicammo attraverso un percorso mai visto prima. Consisteva in una stretta forra ricca di caverne laterali, alcune con una strana T all'apice. Erano certamente tombe, scavate nel tufo da braccia instancabili, o forse addirittura abitazioni, o magari entrambe le cose. Poteva infatti darsi che i ladri di tombe, da veri briganti, ne avessero fatto nei secoli le proprie tane. Chissà che dentro non si potesse trovare qualche coltello, qualche archibugio, un misericordia o uno stiletto.

Ci eravamo stavolta portati non i fucili, ma l'attrezzatura tipica dei tombaroli, anche se tombaroli non lo fummo mai e non lo fummo… o meglio non lo fui più, dopo quell'incredibile giornata.

Mi chiedevo se i cocci che ogni tanto trovavamo in terra tra il fogliame autunnale lungo il cammino erto fossero, come tutto lasciava presagire, di epoca etrusca. Avevamo fede : anzi credevamo entrambi che la nostra devozione alla Tuscia ci avrebbe riservato una bellissima sorpresa, un'avventura da ricordare.

“Zio, perché i gatti etruschi sono rossi?”

“Scherzi? Per confondersi in mezzo al tufo!”

A un certo punto il metal detector che mi ero imbracato sulle spalle cominció a suonare e entrambi prendemmo le pale da campeggio, le montammo e provammo a farci spazio nel letto di foglie. Il sole era alto, come lo può essere a maggio, ma quelle foglie simili alla magnolia non erano poche né marce. Piuttosto sembravano coriacee, quasi legnose, e leggere, e non c'è una scuola di scavo quando devi spalare nel polistirolo, o tra pagine di sughero, per così dire.

Ad ogni modo: dopo esserci liberati dell'ingombro dovemmo scavare davvero! Il punto, la x, non era sul sentiero ormai battuto solo dai cinghiali e dalle spinose, ma poco di lato: scavando ci imponemmo di stare attenti a non ingombrare troppo il sentiero stesso.

Dopo dieci minuti buoni e una foga adolescienziale che ci aveva fatto piuttosto sudare, trovammo una posata di metallo vile, del tutto simile a quelle vendute in set da sei o da dodici nei supermercati.

Era questa la prova che qualcuno recentemente avesse percorso quel sentiero? Ci facemmo due risate sul fantomatico brigante di stoviglie e, dato che il metal detector non dava più segno di “presenze”, proseguimmo.

Ci sono dei momenti, e sicuramente saranno capitati a ognuno di noi, in cui quando ci si trova a peregrinare per luoghi inesplorati anche se dietro sopra sotto affianco le zone della nostra infanzia, per ore e ore, sotto il sole, con lunghi momenti di silenzio, o meglio di ascolto del bosco, e dei nostri polmoni affannosi, allora qualsiasi solidarietà con il compagno di camminata viene insidiata da infantili pensieri di sospetto e paura. Ma si trattava di mio zio, della mia famiglia, e di un luogo affine a quelli a me noti, e inoltre ero abituato da centinaia di giornate escursionistiche estive o invernali a queste fantasie, come una radio che nei momenti di stanchezza venga improvvisamente ad accendersi automaticamente, di modo che poi noi la si possa regolare nel volume ma non spegnere.

Anche mio zio stava pensando, forse con gli stessi demoni interiori, che ormai fosse meglio fermarsi per mangiare. Eravamo giunti su un piccolo poggio erboso, o così credevamo, e individuammo l'ombra di un enorme tiglio, un albero lussureggiante e quasi brillante sotto il sole decisamente estivo. Provammo a pulire lá sotto delle solite foglie per il pic-nic improvvisato e… fummo molto fortunati, perché uno di noi poteva cadere dentro un buco che ci si palesó improvvisamente. Mio zio gettó un sasso, poi un altro, ma non riuscì a capire quanto quell'apparente pozzo fosse profondo. Decidemmo che l'avremmo esplorato nei limiti delle nostre possibilità dopo esserci nutriti. Non ce la facevo più!

Mi ricordo che parlammo delle varie sagre con cui i paesi lí intorno si sarebbero sfogati lungo l'estate, attirando migliaia di turisti dalla capitale e dai luoghi circostanti, e ultimamente anche da fuori. Ogni cittadina diventava il borgo del contado durante la sua festa, e gli altri paesi si rendevano campagna che il borgo attirava a sé. Tedeschi, inglesi, scandinavi, americani, asiatici avrebbero tutti subìto i tafani della Tonna di Civita, o dei due Palii di Siena, oppure avrebbero sofferto quietamente la ressa notturna della vigilia di Santa Rosa, domandandosi se ci fosse all'indomani un Museo delle Macchine da visitare.

Paragonammo facchini e fantini, Macchine che oscillano e cavalli mossi, briganti maremmani e viterbesi, il Trasimeno alle profondità del nostro lago. Infine ci chiedemmo quale fosse il regime alimentare degli etruschi, se commerciassero di carne e pesce tra città vicine, cibo magari sotto sale, e dunque la via Salaria, e la necessità di avere a che fare con Roma che forse era il mercato del sale più importante per i nostri stravecchi e stagionati antenati.

Convenimmo che tutti questi borghi, capoluoghi per un giorno, erano in fondo rioni di una metropoli, con tantissimo verde ad allietarla, e ben facevano i ciclisti a percorrerla, o i viandanti della Francigena ad assaporarla, oppure in definitiva noi stessi ad abbuffarcene.

Non finimmo con il vino, non lo avevamo portato temendo di addormentarci; bevemmo caffè, ormai non più bollente ma comunque gradevole, da un termos . Poi prendemmo le torce e risoluti cercammo di capire bene, e da sopra, la consistenza di quell' omphalos che così sinistramente ci era apparso.

Come mio zio aveva ipotizzato, era profondo, era pieno di foglie ma non era assolutamente un pozzo, se non per chi sia disposto a includere nei pozzi strutture architettonicamente sferiche o semisferiche con una enorme apertura in punta. A me ricordava molto il Pantheon di Roma, di cui si diceva che la colonna di aria calda in uscita dal soffitto impedisse alla pioggia di entrare allagandolo.
Da quel buco invece usciva aria fresca, umida, tipicamente di cantina o, per essere più precisi, di fungaia.

Questo poggio era abbastanza in alto da farci intravedere il Monte Amiata da un lato e dall'altra parte, di lá dalle fratte, spizzichi e bocconi del lago di Bolsena. Pensai che quello era un modo semplice di capire dove fosse il nord e dove il sud, anche di giorno, e quindi quale fosse la direzione della Cassia da prendere; o della Francigena, con tutte le sue diramazioni ai piccoli santuari, le famose Edicole della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che in epoca medievale in quanto difficile da visitare doveva essere in parte sostituita come meta di pellegrinaggio dalla Santa Sede, o da una sua Santiago occidentale, o appunto dalle Edicole.

Le transumanze umane si consumano nelle lande di passaggio, in stretti istmi tra deserti e mari, lingue e ponti tra continenti, tra enormi masse di popoli, dominate e non emancipate, che danno luogo a invasioni e a guerre sante.

Tuttavia qui non eravamo di fronte a una costruzione militare, a un fortino. Poteva essere indubbiamente architettura romana, o rinascimentale, o chissà magari etrusca, non piccola, apparentemente robusta, quasi megalitica. Le sue enormi pietre erano perfettamente incastrate tra loro, come scrissi poi nel nostro taccuino, in un modo che ci richiamò le teste dei facchini concentrati durante il trasporto della Macchina, di cui avevamo appena ciarlato mentre ci nutrivamo, oppure gli alberi e cespugli che cingono dai loro abissi la Rocca di Orvieto, o la Rupe di Civita, Calcata o Pitigliano o ancora Orte, e chissà quali altre immagini fantastiche e terribili.

Queste pietre, scure, color del cemento, o dell'asfalto, erano basalto, e per fortuna che gli antichi egizi non immaginavano quanto ne fosse ricca la Tuscia, altrimenti si sarebbero certamente organizzati da un punto di vista mercantile e militare molto prima di Greci e Fenici.

Fu a questo punto che mio zio prese una storta. Aveva messo un piede in fallo tra una radice che avevamo portato alla luce, prima, e un grosso pietrone nascosto dal fogliame e dall'ombra. Cercai di soccorrerlo come potei: certamente eravamo preparati nell'animo a una possibilità del genere, e non ne fummo granché sorpresi, ma questo non impedì a mio zio di imprecare con attributi di divinità e santi intercessori che non è ora il caso di elencare ma che chiunque abbia dimestichezza con le genti di qui può facilmente immaginare.

Giungo alla parte centrale e conclusiva di questa storia. Avendo io chiamato soccorso, rimanevo accanto a mio zio, che avevo accompagnato alla base di quello che, ribadisco, credevamo fosse un poggio – ma che in realtà doveva essere una struttura architettonica non moderna di cui avevamo intravisto una parte – di modo che fosse agevole per una eventuale ambulanza o per un elisoccorso arrivare nella radura ad esso sottostante.

Avevo steccato alla bell'e meglio la caviglia, mi ero caricato il malconcio, ero tornato a prendere le nostre cose, e ci sedemmo su enormi pietre stondate piene di fango e polvere ad aspettare.

Ora, si dá il caso che, in quel particolare momento del giorno, attraverso il garbuglio di rami, noi ci accorgessimo che la parte piena di muschio delle pietre guardasse verso una sorta di ingresso, illuminato dalla luce naturale, e che questo ingresso avesse non la strana T incontrata precedentemente, ma l'incisione di un astro, una stella insomma, o una rosa dei venti a raggiera, sulla sua volta orizzontale.

Certo che mio zio mi controllasse con lo sguardo di chi serenamente condanna una scelta sbagliata, impiegai qualche minuto, in attesa del soccorso, per farmi strada con un paio di semplici forbici da potatura. Dopo poco riuscii a liberare un passaggio.

Dunque entrai, la torcia accesa in mano. Vidi le foglie per terra, tantissime, ma non al punto d'avermi impedito la visita. La volta era a tratti decorata con scene truculente di donne, di profilo, alla maniera egizia, che uccidono un uomo, poi lo fanno a pezzi, poi lo mangiano, e infine ne partoriscono altri. Le scene erano interrotte da segni di fumo nero: forse erano le posizioni delle antiche torce e fuochi.

Riconobbi una Gorgone, che mi spaventó, e poi mi fece ridere, perché era scolpita in quel bassorilievo di bronzo lucente in maniera davvero buffa, la lingua di fuori, gli occhi sbarrati e quasi clowneschi.

Faceva davvero freddo lí dentro, la torcia di metallo mi raggelava la mano dolente.

Tornai indietro, riferendo a mio zio della felice scoperta, e poi rientrai, stavolta con il metal detector, non badando molto alla sua reazione, e cominciai con l'esplorare quello spazio insolitamente piano, senza altra vegetazione oltre alle innumerevoli foglie, posatesi per centinaia, forse migliaia di stagioni. C'e da dire che in realtà le foglie cadono prevalentemente in autunno, ma questa loro caducità è viva tutto l'anno, dico viva proprio perché sono fermamente convinto che la morte sia il segreto della vita.

Mi sembró che il metal detector avesse echeggiato, lí dentro tutto rimbombava di umido e di buio, di catacombe e di morboso. Alla luce delle due torce che rimbalzava efficacemente sulle pareti curve, provai a farmi strada tra le foglie.

Sentivo qualcosa accarezzarmi le caviglie per un lungo momento, ma non ci feci caso. Pensai che fossero le solite foglie che smuovevo con la pala e con le gambe, e invero era la stessa sensazione che mi aveva accompagnato prima, quando alle cave trovammo l'inutile posata. Poi però con la pala urtai qualcosa di duro. Era un orologio d'acciaio, agganciato… allacciato al polso di uno scheletro!

Corsi subito fuori. “Zio!” esclamai: volevo comunicargli ciò che avevo trovato. Ma lo vidi supino, al suolo, mentre, orrore!, tre enormi vipere lo abbandonavano allontanandosi, verso tre diverse direzioni, dopo esserglisi strusciate addosso e averlo certamente morso.

Il resto lo sapete: vi giuro che era la prima volta che mettevamo piede in quel luogo!

Luigi Menta 25 aprile 2018


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