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Karamoja: tra terra e cielo


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Karamoja: tra terra e cielo, testo e foto by Viaggiatorenotturno. Pubblicato il 15 Aprile 2015; 55 risposte, 7697 visite.


Entro in Karamoja aggrappato come posso nel cassone di un pick-up bianco. Un passaggio tanto casuale quanto inaspettato. Sono coperto di fango da testa a piedi. Alle spalle Kidepo National Park, una savana di remota bellezza. Ci sono passato attraverso come terzo passeggero (terzo!) di una motocicletta 125cc di fabbricazione indiana. Circa 15 Km di dritti, scivoloni e sbandate. Un paio di morbidi atterraggi nel fango rosso e appiccicoso. Zebre, antilopi e gazzelle. Il tutto con uno zaino da 25 Kg sulle spalle. Scrivo e quella libertà già mi manca.

Ora il vento forte addosso. Vento che asciuga i vestiti e mi fa lacrimare gli occhi. L'aria tersa, nuvole bianche e sole. Mi tengo stretto al mio appiglio mentre il pick-up divora la striscia di terra rossa che è la strada. Questa è la vera meta del mio viaggio. E' per questo paesaggio ancestrale nell'angolo più remoto d'Uganda che sono partito. Mi guardo intorno ma non trovo confini. Sono in Karamoja. Libero di andare, di inseguire la mia visione. Il vento forte tra i capelli. E la faccia impiastricciata di lacrime e terra.


La via d'accesso Nord per entrare in Karamoja

Arriviamo a Kaabong. Non ho un posto dove dormire. Il pick-up che mi ha portato fin qui è di una delle ONG che si dannano per evitare che carestie come quella che nel 1980 uccise il 21% della popolazione della Karamoja e il 60% dei bambini sotto i 10 anni (in termini di mortalità è tutt'ora una delle carestie più gravi di tutti i tempi), si possano ripetere. Mi mettono in contatto con una missione cattolica. La madre superiora è gentile nonostante lo sguardo severo. Mi scruta attraverso un paio di occhiali spessi. E' piccola, alta si e no la metà di me, eppure mi incute un certo rispetto. Dopo essersi assicurata che non porterò donne in camera e la promessa di seguire la messa del mattino seguente, mi lascia le chiavi di una piccola stanza. Letto, zanzariera e una finestrella. Ringrazio.



Le montagne che segnano il confine con il Kenya

E' mattina presto, sgattaiolo via dalla missione furtivo per evitare che la madre superiora mi inchiodi alla promessa di attendere la messa. Percorro a piedi un ponte sotto il quale appena si distingue un rigolo d'acqua. Tra pochi giorni sarà un fiume in piena, per poi tornare subito dopo ad essere un letto di sabbia appena umida. Raggiungo la zona del mercato. Ortaggi e qualche frutto esposti su teli di plastica per terra. Pezzi di carne e budelli appesi a dei ganci penzolano dal ramo di un grosso albero in compagnia di uno sciame scuro di mosche e moschini. Qualche sacco di riso. Poco altro. L'atmosfera è un po' dimessa. Ci sono molti anziani che ciondolano senza meta. Quando gli passo accanto si portano la mano vicino alla bocca. Mi chiedono del cibo. Più che una richiesta è quasi un riflesso. Da anni i bianchi qui sono solo quelli che portano generi alimentari di prima necessità. Riso soprattutto. Il ricordo delle carestie è nitido nella memoria dei superstiti.

Faccio colazione con delle uova fritte in un olio scuro. Il mio girovagare ha uno scopo ben preciso. Cerco una guida per andare a visitare i villaggi fortificati, detti anche kraal, che si trovano lontano da Kaabong. Qui il turismo non esiste, di conseguenza non ci sono guide. Ma confido di riuscire a trovare qualcuno adatto al ruolo. Scorgo un autobus che sembra un residuato bellico. All'interno un ragazzo è indaffarato a staccare biglietti. «Ciao, questo è l'autobus che va a Kotido vero?». Il ragazzo si avvicina, si ferma sull'ultimo gradino della porta di ingresso dell'autobus. «Si. Parte tra poco. Domani torna e dopodomani riparte alla stessa ora. Circa». Parla un inglese sorprendentemente buono. Sembra sveglio e sembra onesto. «Grazie. Senti, sto cercando qualcuno che mi accompagni a visitare i villaggi qui intorno». Scende anche l'ultimo gradino. «Ti porto io. Sono nato qui e conosco bene la zona, e poi tanto coi biglietti ho finito. Mi chiamo Daniel». Tre minuti e tutto è pronto. Andiamo a svegliare un tipo appisolato all'ombra di un arbusto. Ha una moto. Daniel contratta un po' sul prezzo. Poi arriva con la moto. Gli dico quanto posso pagarlo per la giornata. Annuisce, mette in moto e via.


Ragazze trasportano sulle teste dei rudimentali gioghi

Ancora terra rossa sotto due ruote. Si sa poco della Karamoja e nemmeno le infinite risorse della rete sono state di grande aiuto. Qualche foto area dei villaggi fortificati, vari progetti di sviluppo e poco altro. La Karamoja è in realtà un mosaico complesso di tribù ed etnie diverse. Principalmente pastori nomadi guerrieri. La fama che li accompagna è quella di popoli feroci e combattivi in grado di tenere testa ad interi eserciti. Il governo ugandese ha avviato da diversi anni un programma per il disarmo delle tribù. Prima con azioni repressive e violente, poi pagando per ogni arma restituita. Ma un cultura millenaria non si piega tanto facilmente alle regole dello sviluppo. Vivono per il bestiame, tutta la loro vita ruota intorno ad esso. Non hanno paura di morire per difenderlo e ogni capo rubato ad un villaggio rivale significa onore e rispetto.

La strada inizia a salire. Le mandrie sono in cammino verso le poche sorgenti d'acqua. A dirigerle e difenderle uomini alti e severi. Impugnano un bastone lungo e sottile. Lo fanno roteare in aria per indirizzare la mandria dove vogliono. Non scorgo nessuno armato, e la cosa non deve sorprendere, perché siamo ancora vicini a Kaabong, dove c'è un presiodo dell'esercito. I primi kraal appaiono improvvisi tra la vegetazione bassa. Daniel ferma la moto. Imbocchiamo un sentiero che presto scompare nell'erba fina. Davanti a noi una palizzata di bastoni e rovi alta più di 2 metri. E' la cerchia più esterna della fortificazione. Nessun ingresso che i miei occhi riescano distinguere. Una ragazza ci raggiunge. Porta in equilibrio sulla testa un recipiente che sembra ricavato da una grossa zucca. Daniel le parla sottovoce. Poco dopo un bambino spunta da un piccolo passaggio sotto la palizzata. Un cespuglio secco di rovi, perfettamente mimetizzato con il resto della fortificazione, lo celava perfettamente. Il passaggio è alto meno di 50 cm. Mi abbasso e gattono.


L'ingresso di uno dei villaggi Dodoth fortificati

Ci passo a fatica. La palizzata è molto più spessa di quanto non sembri. Chiaramente ci deve essere un altro ingresso per permettere il passaggio del bestiame. Ma è inutile chiedere. Il tempo di rialzarmi e mi accorgo di tante facce che mi osservano stranite. Mi guardo intorno. Difficile dire quanto sia grande il villaggio. Al suo interno infatti ci sono altre palizzate, a formare un reticolo complesso. Ogni famiglia ha un suo spazio ben delimitato e ben difeso, che comprende l'abitazione e una serie di enormi ceste rialzate da terra che fungono da deposito per le sementi, la farina e gli animali domestici. Poi nel cuore del villaggio, protetto da un'ultima cerchia di bastoni e spine, un ampio spazio. E' il luogo più sicuro, è dove viene riportato il bestiame ogni sera a fine giornata. La maggior parte degli uomini sono fuori con la mandria. Ma qualche giovane rimane sempre di guardia.


Una donna di etnia Dodoth scarica della paglia dal dorso di un mulo


Una capanna in costruzione e le ceste usate come magazzini

Con l'aiuto di Daniel, parlo un po' con tutti per cercare di capire meglio dove mi trovi. Sono ospite in un villaggio Dodoth [uno dei maggiori gruppi etnici di pastori-guerrieri che abitano la regione, assieme a Karamojong, Jie e Turkana] , uno dei tanti del distretto di Kaabong. I Dodoth sono spesso rappresentati come violenti che non si curano dei loro stessi bambini e degli anziani. Non è vero. La loro vita è certamente dura e il primo impatto è quello di avere di fronte persone temprate da avversità inimmaginabili. Nessuno sorride. In fondo però, un bianco, è appena piombato dal nulla a casa loro. Semplicemente si staranno chiedendo chi io sia e cosa voglia da loro. Col passare del tempo infatti le le facce si fanno più rilassate. Capisco che i Dodoth sono prevalentemente sedentari, a differenza degli altri gruppi che sono nomadi o semi-nomadi. Fatico invece a farmi dire quante persone abitino il villaggio e da quanto tempo abitino qui. Forse faccio le domande sbagliate, sicuramente il gap culturale è notevole e colmarlo in così poco tempo è difficile. Ma appena si parla delle mucche l'attenzione torna massima. Il bestiame è il fulcro attorno cui ruotano le loro vite. Non solo perché rappresenta la fonte primaria di sostentamento e di guadagno. Per prendere in sposa una donna infatti è necessario dimostrare il proprio valore rubando una mucca e offrirla alla famiglia della futura sposa. Se la donna è particolarmente bella e corteggiata, una sola mucca non basta. Ovviamente sarebbe scortese chiedere se loro abbiano rubato dei capi di bestiame di recente.


Giovane donna di etnia Jie ritratta alcuni giorni dopo nei pressi di Kotido

Le mucche sono talmente preziose da scatenare vere e proprie guerre. Si combatte per possederne il maggior numero possibile. «Ma chi sono i nemici?». La domanda sorge spontanea. «I Jie». Rispondono senza esitazione. «E i Turkana. Anche loro sono nemici». Mi spiegano che i Turkana hanno molte armi perché vengono dal Kenya. Passano il confine di notte, attaccano e poi tornano nei loro territori. L'aria si fa più greve. «Ci sono stati attacchi di recente?». Un attimo di silenzio. Poi l'uomo più anziano stende il braccio indicando un punto verso le montagne. «Si. Ieri i Jie hanno attaccato un villaggio non lontano da qui». Guardo Daniel. «Andiamo».

Inutile fingere di essere sicuri di se la prima volta. Inutile mentire a se stessi. Non è paura. La mano non è ferma come al solito ma non sono spaventato. E' la realtà che mi strattona così forte da farmi quasi perdere l'equilibrio. La prova inconfutabile che il mondo che non vediamo esiste, che la vita non ha ovunque lo stesso valore. E non basta sentirselo dire, non basta studiare che la storia dell'uomo è fatta di lotta per sopravvivere, di guerre piccole e grandi. Da sempre. Per sempre.

Avrà si e no la mia età, anzi meno. Mentre gli giro intorno come farebbe un medico legale al tavolo dell'obitorio, un po' mi vergogno. Perché sono costretto a fingere. Ma non posso fare altro. Mi abbasso accanto a lui come fosse routine. Sono freddo, insceno un glaciale distacco. E invece mi importa. Mi sforzo di capire, di vedere coi miei occhi come possa essere possibile andare avanti senza sapere se domani sarai vivo o cadavere. Ancora una volta, forse, non riesco a pormi le domande giuste.


Il guerriero Jie caduto, giace in una radura pochi metri fuori dal villaggio

Le mosche ronzano eccitate. La pozza di sangue si è ormai del tutto asciugata in una macchia scura sul terreno. Appena più in là dei braccialetti di plastica spezzati. Gli hanno tolto i pantaloni e preso qualsiasi cosa di valore avesse addosso. Probabilmente niente. E' composto. Le braccia stese lungo il corpo. Con la mano sinistra sembra quasi voler coprire il suo pudore. Ha gli occhi chiusi e la faccia impiastricciata di sangue e terra. La sua agonia è stata breve. Il primo proiettile gli ha perforato la coscia destra. Un secondo colpo alla testa, sparato da non saprei dire quale distanza, ha messo fine a tutto. Lo guardo ancora. Giace sotto il cielo più bello del mondo. Il cuore, il mio, batte irregolare. Questo è il mondo mortale che ci sforziamo di ignorare. Mi rifugio ancora dietro una freddezza disinvolta e apparente. «Chi l'ha ucciso?». Daniel traduce. «I soldati». Rispondono quasi in coro i ragazzi del villaggio. Sorridono. Sereni, loro sì, come fosse routine, perché questo semplicemente è un pezzo di vita in questo angolo di mondo. Daniel sembra scosso ma continua a tradurre in inglese il racconto degli abitanti del villaggio.

Dovevano essere diversi giorni che il manipolo di Jie, seguiva la mandria del villaggio. Hanno atteso il tramonto per sferrare l'attacco, mentre la mandria rientrava verso il kraal. Erano in otto, forse nove, armati. Ma a protezione del kraal ieri sera c'era una pattuglia dell'esercito ugandese. I Jie non se lo aspettavano. Il conflitto a fuoco è durato alcuni interminabili minuti. Poi i Jie si sono dati alla fuga. Tutti tranne uno.



Il volto del giovane guerriero Jie caduto durante il conflitto a fuoco

E' morto da poco più di 12 ore.

«E il corpo? Cosa ne fate?». Facce perplesse. Nessuno sembra porsi il problema né sembra capire il senso della mia domanda. «Forse lo vengono a prendere i soldati. O forse lo lasciamo lì». Non c'è onore per il guerriero caduto.


Soldati dell'esercito regolare ugandese di pattuglia nei pressi di Kaabong

Sediamo all'ombra di una rupe di roccia dura color cenere. Davanti a noi si stende la Karamoja fino alle montagne che segnano il confine con il Kenya. Spazi aperti attraversati da vento e sole. Isolati pinnacoli granitici sembrano antichi guardiani. I kraal si confondono tra la vegetazione bassa della savana mentre un carico di nuvole, bianche e arruffate, si rovescia nel cielo limpido. Tra qualche giorno arriverà anche la pioggia.



Un kraal immerso nello splendido paesaggio della Karamoja

«Guarda quanto è bella la mia terra». Daniel ha lo sguardo rivolto all'infinito. Perfettamente immobile. Perfettamente consapevole di quanto sia importante "la bellezza". Quanto conti, per chi vive in questa parte di mondo, poter alzare, anche solo per un istante, lo sguardo dall'asprezza del quotidiano per sentirsi al centro del mondo. Annuisco. «Sai», mi dice senza guardarmi, «prima al villaggio». Si interrompe. «Qui muoiono in tanti». Non faccio in tempo a dire nulla. «Io ho perso mio fratello 2 anni fa. Era in moto, sulla strada che va a Kalapata. Gli hanno sparato. Non so perché. Semplicemente, gli hanno sparato». Daniel non è commosso, non ha cambiato tono di voce. Il suo sembra più un ricordo affiorato ad alta voce. Ora si volta. Come aspettasse una risposta. «Forse sono stati i Jie, forse i soldati, che importanza ha? Lo hanno ucciso senza motivo. Non è giusto». Lo guardo e, solo ora, mi rendo conto di quanto sia giovane. Un ragazzo appena. Sono uno stronzo. Accecato dalla mia fame di vedere, di capire, di toccare tutto sempre, l'ho costretto in qualcosa che per lui è stato doloroso. Sono un idiota e non riesco nemmeno a scusarmi. Ho mancato di quel rispetto che ho sempre considerato fondamentale tanto per viaggiare quanto per fotografare. Il rispetto che distingue un viaggiatore da un collezionista di mete esotiche, un fotografo da un cacciatore di immagini da esibire. Ma lui non sembra accorgersene. «Qui manca tutto». Prosegue nella sua riflessione. «Non ci sono strade, non c'è legge, non c'è domani. Il mio lavoro non mi piace e non mi porterà da nessuna parte». Non so cosa dire ma capisco che ha bisogno di sentire che le cose possono essere cambiate, che il futuro può essere migliore del presente. «Sai, venendo qui ho incontrato un po' di bianchi che lavorano sodo per portare un po' di sviluppo, creare lavoro e far rispettare i diritti di tutti. Piano piano le cose andranno meglio. Poi ci sono i giovani. Giovani in gamba come te. Potresti fare il politico». Gli strappo un sorriso. La giornata sta finendo e rientriamo verso Kaabong. Arrivati in città e restituita la moto gli passo i 20,000 Ush che avevamo pattuito per la giornata. Sono 6 euro. Daniel inizia a saltellare per la gioia. Ho la sensazione che se potesse mi abbraccerebbe. La sua felicità è indescrivibile e non ha nulla a che vedere con il denaro in se. E' felice di aver fatto un lavoro che gli piace, è il seme di quella speranza di cui aveva bisogno.

Mi accompagna sulla strada verso la missione. Accanto ad una delle tante porte di legno aperte sulla polverosa strada che attraversa Kaabong, una ragazza sta strizzando dei panni appena lavati. E' molto alta e bella. Daniel la saluta. Si parlano per pochi istanti. Lei lo guarda con occhi in cui sono sicuro di aver riconosciuto una cotta. Lui ride. Non ho idea di cosa si siano detti. «Tu le piaci». «E' molto bella vero?» «Dovresti chiederle di uscire». Sorride. «Si, forse domani vado a parlarle».

Quante cose che non sappiamo. Tutte cose che meritiamo di non sapere. Colpa del rumore che abbiamo nella testa. E' il frastuono delle nostre convinzioni. Sono le nostre tante, troppe certezze. E' il nostro andare sempre e solo dove sappiamo già cosa troveremo. Viaggiatore, cancella tutto. Pigia una felpa grigia con il cappuccio nel tuo zaino e parti senza paura di farti male. Parti verso ciò che tu solo senti di voler raggiungere.



Giovane madre di etnia Jie con il suo bambino, ritratti alcuni giorni dopo in un villaggio vicino a Kotido



Viaggiatorenotturno scrive di sè: "Ho fortemente voluto questo viaggio. Perché in questa terra, aspra e bellissima, c'è una parte della storia dell'uomo che ancora sopravvive. Ci sono culture che nessuno è ancora riuscito a conoscere e comprendere. Non ho pretese da esploratore. Solo una fune d'acciaio agganciata allo sterno che mi trascina verso luoghi come questo. Ho raccolto tutte le informazioni possibili e cercato contatti sul posto per verificare che le condizioni di sicurezza fossero sufficienti. Era così. Ed è così. Non ho corso alcun rischio. Però non posso fare a meno di pensare a quanta differenza ci sia nelle vite di persone simili. A quanto sia fragile il confine tra la mia vita e la loro. A quanta libertà avessi nei polmoni. A quanto sia facile trovarsi difronte a ciò che pretendiamo di non vedere. Eppure è bastato girare il solito, dannato, angolo."



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avatarsenior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 14:27

Grazie!!!!! non posso fare altri commenti

avatarsenior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 15:00

Complimenti prima di tutto per la tua iniziativa, un viaggio fuori dai soliti luoghi.
Belle le immagini e molto bello il racconto!

Eppure è bastato girare il solito, dannato, angolo

facile a dirsi, difficile da mettere in pratica!! Tu lo hai fatto.
Ancora complimenti e un saluto
Peppe



avatarsupporter
inviato il 15 Aprile 2015 ore 15:15

Bravissimo ! Grazie per la condivisione e davvero complimenti! Un saluto,Paolo

avatarsenior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 15:15

facile a dirsi, difficile da mettere in pratica!!


Certo mi sono spinto lontano, e non sono viaggi per tutti però quello che cerco si dire e che gli angoli da girare, per vedere cosa c'è "dietro" esistono ovunque. Storie simili (o totalmente diverse, ma comunque storie da raccontare) le trovi in tanti posti anche nostrani o battuti dal turismo. Non ero più lontano ad esempio dei tanti che vanno in Kenya, in Tanzania o in Etiopia, e di zone da scoprire traboccanti di storie ce ne sono tantissime anche lì.. ma ci facciamo spesso limitare dall'immagine che abbiamo del luogo.
Poi ovviamente dipende da quali sono gli interessi.. e poi c'è tanto altro ancora, tanta passione e volontà.

Grazie di aver letto e del commento!

Ciao!

avatarsenior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 15:20

Intense le emozioni ed intenso il modo di raccontarle.
Complimenti per tutto,
Guido

avatarsenior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 15:24

Affascinante ed agghiacciante insieme, grazie per questo fantastico racconto. Stefano

avatarjunior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 15:25

Bravissimo, commovente e struggente!

avatarsenior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 17:05

Grazie per la condivisione.

avatarjunior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 17:41

Bravissimo grazie!

avatarsenior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 18:03

Emozionante! Il fotoracconto mi ha totalmente assorbito, mi ha gettato in una realtà a me distante ed estremamente crudele.

"A quanto sia fragile il confine tra la mia vita e la loro. A quanta libertà avessi nei polmoni. A quanto sia facile trovarsi di fronte a ciò che pretendiamo di non vedere. Eppure è bastato girare il solito, dannato, angolo."

Mi piace mettere in rilievo queste tue parole che ti fanno onore.

Davvero tanti complimenti per l'avventura e per il coraggio di girare quel dannatissimo angolo, un grazie per questo bel racconto.Sorriso


avatarsupporter
inviato il 15 Aprile 2015 ore 18:47

Complimenti, davvero interessante e ben fatto.
Personalmente l' unica cosa che non mi convince è il primo piano del soldato morto anche perché credo che non aggiunga nulla alla narrazione.
Dovevo andare a fotografare i Jie del South Sudan ma a due mesi dalla c'è stata la guerra civile......

avatarsupporter
inviato il 15 Aprile 2015 ore 18:53

Solo grazie.

Gianluca.

Personalmente l'unica cosa che non mi convince è il primo piano del soldato morto anche perché credo che non aggiunga nulla alla narrazione.

Non sono d'accordo. Il confine tra morbosità e cronaca è sempre molto sottile in questi casi, ma il rischio per chi fortunatamente è distante da queste realtà è quello del non vedere l'orrore ma solo sentirne il racconto ed il racconto spesso è un potente filtro. Sottolineo che il ragazzo è ripreso nella sua interezza ad una distanza che non permette la piena definizione ed anche da vicino è stata fermata l'espressione e non le cause di questa. A mio parere non c'è alcuno scadere in morbosità. Senza questo documento l'orrore starebbe solo nel racconto. Comunque, come dicevo, in questi casi è sempre difficile.

avatarsupporter
inviato il 15 Aprile 2015 ore 19:21

Ho mai parlato di morbosità ??? Eeeek!!!Eeeek!!!Eeeek!!!
Per altro non sono una persona che si scandalizza o si trattiene dal fotografare anche scene forti...

Per me è ben più drammatica e racconta molto di più la foto precedente per cui, sempre secondo me , il primo piano non aggiunge nulla alla narrazione........
ribadisco per me;-)

avatarsenior
inviato il 15 Aprile 2015 ore 19:31

Grazie dei commenti.. non vorrei fermarmi troppo sul discorso della foto del giovane Jie rimasto ucciso.

Capisco perfettamente il commento di Memy ed è più che lecito. Ci ho riflettuto a lungo prima di decidere di lasciarla.. fa parte di ciò che ho visto e quel che conta è solo il rispetto che ho io dentro di me e il rispetto che deve trasparire da una foto in casi come questo. Perché l'immagine prima (un corpo buttato in un prato) è un brutto modo di ricordarlo. La seconda foto mostra il mio rispetto per lui: è l'unica foto della serie in cui ho usato un viraggio diverso, scelto apposta per ridurre al minimo il sangue e i segni della morte, restituendo al suo viso dignità. Ho creduto fosse giusto così.

E credo anche serva ad accorciare la distanza tra chi legge e la storia perché l'immagine del suo volto lo rende più simile a noi.

Ciao!

avatarsupporter
inviato il 15 Aprile 2015 ore 19:44

Ovviamente sai che ti apprezzo per cui non c'era nessun intento polemico ne tantomeno denigratorio, pur rimanendo in parte sulle mie convinzioni apprezzo molto la tua spiegazione che trovo convincente





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