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Free free Palestine!


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Free free Palestine!, testo e foto by Giovanniceccarelli. Pubblicato il 02 Maggio 2014; 96 risposte, 11367 visite.


Che cosa intendesse Iyad Burnat quando rispose, lapidario, che il loro unico scopo era quello di ottenere libertà e giustizia per il popolo Palestinese, non lo capii in quel momento. Iniziai subito a pensare a qualche soluzione di tipo politico, come la nascita di due stati, Israele e Palestina, pensai ai trattati di pace di Oslo, ad Arafat, ad Ariel Sharon e alla sua passeggiata alla spianata delle Moschee che scatenò la seconda intifada. Rimasi in silenzio a lungo nel sedile del passeggero sulla sua macchina sgangherata, comprata di contrabbando da qualche cittadino israeliano che voleva disfarsi del mezzo e guadagnare qualche centinaia di shekel. La risposta arrivò, ma solo alla fine del mio viaggio. Facciamo quindi un passo indietro, a settembre 2013.

Dopo una ricerca durata un paio di mesi dalla data di acquisto del biglietto aereo per Tel Aviv, decisi di non visitare lo stato di Israele ma di recarmi, dopo aver passato due giorni a Gerusalemme, nei territori palestinesi occupati, sicuro di trovare maggiori spunti fotografici. I territori palestinesi sono composti da due regioni senza continuità territoriale: la Cisgiordania o West Bank e la striscia di Gaza.
La prima meta del viaggio era Bil'in (pronuncia belaìn), un villaggio di circa 1800 persone, prevalentemente musulmani, a circa 10 km da Ramallah e 30 km da Gerusalemme. Bil'in è conosciuto nel mondo perché è il paese natale di Emad Burnat, regista di "Five Broken Cameras", documentario candidato all'Oscar e vincitore di un Emmy Award. Dopo la preghiera del venerdì, da 10 anni, a Bil'in si svolge una manifestazione non violenta contro la costruzione del muro che divide questo villaggio dal vicino settlement (insediamento) ultra ortodosso israeliano di Modi'in Illit.



Scorcio sulla moschea del villaggio. Sullo sfondo il settlement israeliano.



Una signora palestinese si riposa dopo una mattina nei campi. La sua terra è stata confiscata per lasciare spazio al settlement (visibile in foto).


Da Gerusalemme est con un pullman arabo, ho raggiunto Ramallah, la città più importante della Cisgiordania, sede dell'Autorità Nazionale Palestinese. Ero spaventato; nonostante fossi già stato in altri paesi arabi, tutte le persone incontrate nella capitale israeliana mi hanno messo in guardia sulla poca sicurezza dei territori palestinesi, sull'instabilità politica della zona e sulla possibilità di attentati terroristici. Nulla si rivelò essere più falso.
Ramallah è una città vivace, al passo con i tempi, sicuramente caotica, dove è normale vedere giovani ragazze vestite in maniera occidentale di fianco a signore di mezza età in abiti tradizionali. Ci sono agricoltori che raggiungono la 'metropoli' con le primizie coltivate nei loro campi, bar moderni dove è possibile bere degli ottimi centrifugati di frutta e bar più tradizionali dove viene servito caffè arabo e, immersi in una fitta coltre di fumo, gli uomini si dilettano in un gioco simile alla scala quaranta.

Aspetto qui una telefonata da Iyad, il mio contatto in loco, fratello di Emad. Telefonata che tarda ad arrivare. Decido di sedermi in un vecchio bar, assomiglia molto ai circoli frequentati dai nostri nonni: sedie di plastica e carte su ogni tavolo. Ordino un caffè arabo e osservo i passanti. Colgo anche l'occasione per scrivere sul mio diario di viaggio. Iyad chiama e mi conferma che non riesce a passare in città. Su sua indicazione prendo quindi un taxi collettivo che mi lascia di fronte alla moschea del villaggio. Sono emozionato. Tante case sono in costruzione ma i lavori sono fermi da tempo. Siamo in area C, sotto il controllo amministrativo e militare israeliano. Costruire non è così facile.



Bil'in e sullo sfondo l'insediamento.


Iyad mi raggiunge con la sua macchina di contrabbando a targa israeliana. Ha i capelli brizzolati, lo sguardo fiero. E' di poche parole. Mi porta a vedere il muro dell'apartheid, lui lo chiama così. Lungo la strada mi mostra fiero un piccolo parco giochi costruito per permettere ai bambini del villaggio di giocare sereni. E' recintato ed è immerso in mezzo agli olivi. 'We are strong as the roots of olive trees' mi dice mentre con la macchina costeggiamo il muro. E' alto circa 8 metri. E' circondato da filo spinato e cartelli che invitano a non oltrepassare quella linea di confine; si rischia la morte. Nel muro c'è un cancello da dove i militari israeliani entrano per tentare di disperdere le manifestazioni o per arrestare, generalmente durante la notte, gli attivisti palestinesi.




Due militari israeliani fanno capolino per controllare chi si è avvicinato al muro.


Andiamo in silenzio verso casa, sono stanco dal viaggio. Vengo ospitato da una famiglia del villaggio; moglie, marito e quattro figli. L'ospitalità araba è straordinaria e questa è un'ulteriore prova. Dopo cena raggiungiamo, in una capanna in mezzo ad un campo di olivi, vicino al muro, Emad, Iyad e gli amici, radunati intorno al fuoco. Emad mi racconta che è stato addirittura bloccato in aeroporto negli Stati Uniti, pur avendo un regolare invito di partecipazione alla Notte degli Oscar, tanto è alto il pregiudizio nei loro confronti. E' dovuto intervenire Michael Moore per permettergli di partecipare all'evento.

Venerdì la sveglia è di buon'ora. Adam, il figlio più piccolo, 3 anni, si alza alle 5 e inizia a correre per casa. Controllo che le batterie siano cariche, preparo le schede di memoria e passeggio per il villaggio in attesa di rientrare per colazione. Il primo pasto della giornata è a base hummus, avocado, pomodori e the aromatizzato con un rametto di salvia.
Dopo qualche ora andiamo verso la moschea. Una nutrita folla si è radunata per raggiungere il muro. E' pieno di internationals, persone non palestinesi che vengono a manifestare il loro dissenso. Ci sono anche delle ragazze israeliane. Per me una vera sorpresa. Bassem, il signore che mi ospita, mi spiega che sono tanti gli attivisti israeliani che supportano la causa. Arrivano anche i fotografi dei giornali e tv locali. Hanno il giubbotto antiproiettile, il casco e la maschera antigas. "Un abbligliamento particolare per una manifestazione non violenta", penso tra me e me.

Si alzano in cielo le bandiere palestinesi e all'urlo di "Free free palestine!" inizia la nostra marcia.



Bandiere palestinesi sventolano alla manifestazione.


Un convoglio di militari israeliani ci attende. Dietro di noi, a venti metri, dei ragazzi armati di fionde e dal volto coperto. Ci avviciniamo al muro e i soldati iniziano a lanciare gas lacrimogeni, per cercare di disperdere il corteo. Sparano anche proiettili rivestiti in gomma. Senza capire bene che cosa accade, mi avvicino alle jeep ed inizio a fotografare. Non so bene come comportarmi, vengo circondato di gas e vado K.O. per due minuti buoni. Il gas è tremendo, non riesco a tenere gli occhi aperti, tossisco in maniera incontrollata e mi viene da vomitare.



La zona dello scontro viene invasa dai gas lacrimogeni. I ragazzi, con la fionda, rispediscono al mittente.


Appena è stato aperto il fuoco da parte dei soldati, i ragazzi armati di fionda hanno fatto partire la sassaiola. Lanciano le pietre da molto lontano ma non sempre raggiungono il convoglio. Chiedo ad uno di questi il perché di questo gesto. Mi spiega che sanno bene di non essere un pericolo per i soldati israeliani, che non vogliono fargli del male e che le conseguenze, se questo dovesse accadere, sarebbero devastanti: incursioni notturne, arresti arbitrari e corte marziale. Lanciare le pietre è un gesto di disperazione, vogliono "scrollarsi di dosso" la rabbia, rivendicare la loro terra.



La zona della manifestazione.


Era appena passato il Natale. I manifestanti, irriverenti, si travestono.


Quando i militari hanno iniziato a lanciare lacrimogeni, questi ragazzi, armati di fionde, hanno iniziato a lanciare pietre.


Due mondi a confronto. Il ragazzo che manifesta la sua rabbia e, sullo sfondo, l'insediamento israeliano costruito sulle terre confiscate anche sulle terre della famiglia di questo ragazzo.

Dopo circa due ore di 'guerriglia' i soldati avanzano in forze per disperdere e placare definitivamente la dimostrazione. Tutti iniziano a scappare; se dovessero essere arrestati finirebbero di fronte ad un tribunale militare. Il lancio di pietre è punito fino a venti anni di carcere.

Rientriamo in casa. Sono esausto.

I giorni seguenti trascorrono sereni, sempre con la famiglia di Bassem. Lui muratore, lei sarta. I 4 figli vanno a scuola. Approfitto di questi giorni per capire il loro modo di vivere, non troppo diverso dal nostro. Nonostante il muro, le loro vite sono felici. Figli che non studiano, panni da lavare, sport, amici, qualche cartone animato prima di andare a dormire.

Giovedì è il giorno della partenza. Saluto tutti e prendo un taxi collettivo per Betlemme, dove ad attendermi ci sono Emanuele e Chiara, sconosciuti compagni di viaggio. Contrattiamo per un taxi e ci dirigiamo ad At Tuwani, un piccolo villaggio a sud di Hebron, vicino Yatta. E' un villaggio di pastori che vive una situazione estremamente particolare: a 500 metri dal villaggio si trova l'avamposto (civile) israeliano Havat Ma'on. A differenza degli insediamenti, gli avamposti sono illegali sia per la legge israeliana sia per il diritto internazionale. I coloni che vivono nell'avamposto sono ebrei ortodossi (non ultra ortodossi) e sono abbastanza violenti nei confronti degli abitanti di Tuwani. Tanto violenti che, nel villaggio, è sempre presente un piccolo gruppo di volontari di Operazione Colomba. Questi volontari si occupano di accompagnare i bambini a scuola, i pastori nei campi e di filmare qualunque azione violenta da parte degli ebrei e di denunciare tutto alle autorità competenti.
Anche questo villaggio si trova in area C, quindi nel villaggio non è possibile costruire nuovi edifici: molte famiglie vivono nelle grotte.
Nonostante tutto, in 10 anni di resistenza non violenta sono riusciti a costruire una piccola scuola.



Nascosto dagli alberi, l'avamposto.


Alcune grotte vicino At Tuwani.


Passo il Capodanno con i volontari e con alcuni ragazzi palestinesi abbastanza invadenti. La cosa positiva è che la mattina si alzano quando sorge il sole e quindi alle 21.30 sono già tutti nel letto. Aspettiamo la mezzanotte, brindiamo con un the caldo, e ci infiliamo nei sacchi a pelo.
La mattina dopo è tempo di saluti. Andrea, uno dei volontari, dopo 3 mesi di servizio rientra in Italia. Salutiamo quasi tutte le famiglie presenti nel villaggio; ho anche l'opportunità di entrare in una grotta. I muri sono neri di fumo, è arredata in maniera molto modesta ma comunque accogliente.


Ripartiamo con un taxi collettivo. Andrea chiacchiera in arabo con l'autista mentre io, Chiara ed Emanuele ascoltiamo in silenzio la soporifera scelta musicale della radio locale. Arriviamo a Betlemme e ci dirigiamo verso Israele. Al check-point tutti i palestinesi devono scendere dall'autobus per essere perquisiti. Noi rimaniamo a bordo, ma questo, più che un controllo di sicurezza ci sembra una discriminazione. E' sufficiente essere palestinesi per essere una minaccia?

L'aereo decolla e io mi addormento. Mi sveglio a Roma. Di fronte alla stazione Tiburtina c'è un'ottima rosticceria. Tutti i miei viaggi, negli ultimi anni, iniziano e finiscono così. Mangiando seduto sul ciglio della strada, con lo zaino di fianco e gli scarponi sporchi di terra.

La risposta alla mia domanda è arrivata un paio di settimane dopo, mentre riguardavo le foto e rileggevo il diario. La risposta di Iyad non aveva un significato politico ma semplicemente quello che ogni persona vorrebbe: libertà di portare i figli a scuola, libertà di poter raccogliere le olive dai suoi alberi sequestrati, libertà di poter viaggiare, libertà di vedere il mare.
Molti sbagliano in questo senso, la Palestina diventa il simbolo di questa o quella fazione politica. In troppi si dimenticano di chi ci vive, dei pastori che vogliono solo poter pascolare le loro pecore, senza pensare alla destra, alla sinistra, ad Abu Mazen o Ariel Sharon. Probabilmente se i protagonisti fossero loro, tra Israele e Palestina non ci sarebbe poi così tanto odio.




A Bil'in hanno aperto una mostra dove sono esposte opere d'arte realizzate con oggetti raccolti dopo gli scontri. Dai diamanti non nasce niente. . .



Giovanni Ceccarelli scrive di sè "Laureato in ingegneria ma barista di professione, attualmente insegno in una scuola privata per barman a Bologna. Collaboro anche con la più importante e specializzata rivista nel settore bar in Italia (BarTales) dove, mensilmente, scrivo di scienza e cocktail. Viaggiatore squattrinato, mi sono regalato la prima reflex durante il periodo universitario. Mi piacerebbe poter scrivere anche per qualche rivista di viaggi, per poter raccontare quello che vedo e provo sulle strade del Mondo."



Risposte e commenti


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avataradmin
inviato il 02 Maggio 2014 ore 13:31

Complimenti per questo eccezionale reportage, un racconto coinvolgente e toccante!

avatarmoderator
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:00

QUESTO é reportage!
complimenti davvero!

avatarjunior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:02

Super complimenti!

avatarsenior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:05

Ottime immagini ed ottimo testo... grazie!

avatarjunior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:11

Bellissimo complimenti

avatarsenior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:17

Bellissimo reportage complimenti!

avatarsenior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:18

Complimenti. Non da tutti, da tutti i punti di vista!

avatarjunior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:30

Tantissimi complimenti l'ho letto d'un fiato, una situazione che sentiamo spessissimo tra tv e giornali ecc.. ma questo punto di vista e la voce della vera gente che abita in quelle zone poche volte la fanno sentire, di nuovo complimenti

avatarsupporter
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:30

Complimenti per il racconto di reportage ben dettagliato che accompagna le foto che già avevo visto e ammirato.
Ti auguro di poter viaggiare tanto così ci potrai raccontate le tue sensazioni e mostrarci i tuoi scatti e che qualche rivista si accorga di te.
Un caro saluto, LullySorriso

avatarjunior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:34

Complimentissimi davvero Giovanni!!! Ho seguito il racconto dall'inizio alla fine e ha rivelato una realtà che come dicevi tu, molto spesso le persone dimenticano: quella degli abitanti di quei territori. Bravo inoltre per il coraggio dimostrato, non è da tutti!!!;-);-)

avatarsenior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:35

Complimenti davvero... Sono stato incollato allo schermo dalla prima all ultima riga. È davvero coinvolgente. Bravissimo

avatarjunior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:45

Bravo! Descrivere la realtà di tutti i giorni di chi la vive quella realtà non è da tutti, soprattutto dei TG nazionali e internazionali.
Complimenti Cool

avatarsenior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 14:56

Ottimo reportage, accompagnato da immagini vive e straordinarie.

i miei complimenti e un grosso in bocca al lupo per tutto

Marco

avatarsenior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 15:11

Ottimo racconto, complimenti!

avatarsenior
inviato il 02 Maggio 2014 ore 15:16

Un reportage che fa la differenza.
BRAVO! I miei migliori auguri.





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