Il mio Perù
Il mio Perù, testo e foto by
Loris Torre. Pubblicato il 21 Dicembre 2025; 0 risposte, 3282 visite.

La città di Cuzco arroccata sulle ande
Un vento sottile accarezza il volto. È il respiro di Cusco, la città che dorme tra le braccia delle Ande, cullata dal mormorio di un tempo sospeso. L'aria, così rarefatta e pura, entra nei polmoni come una verità improvvisa, un abbraccio freddo che stringe il cuore e lo prepara. L'altitudine non è solo un dato geografico, ma un battesimo, un'iniziazione che costringe il corpo a rallentare, a sintonizzarsi con il ritmo secolare di un luogo che non conosce la fretta. Si cammina e si sente il cuore battere all'unisono con la terra, un battito antico e potente, che risuona nelle vene. Le prime ore sono un'immersione in un'altra dimensione, dove il mondo si fa più silenzioso, i colori più vividi, e ogni respiro è un atto di consapevolezza.
La città si svela a ogni passo, un mosaico vivente di muri incaici e di balconi coloniali. Qui, la storia non è relegata a un museo, ma è la trama stessa del paesaggio urbano. I muri di pietra incaica, massicci e impeccabili, sono le fondamenta su cui poggiano gli eleganti palazzi spagnoli. Ogni blocco, scolpito e incastrato senza malta, racconta una storia di una precisione che sfida il tempo e la logica umana. Si può seguire con la mano il profilo di una pietra e sentire il freddo della roccia che ha assorbito secoli di sole e di pioggia, di preghiere e di conquiste. Questi muri sono la spina dorsale di Cusco, l'anima segreta che sorregge l'ornato abito coloniale. Sono la testimonianza silenziosa di un impero solare, la memoria di un popolo che ha saputo ascoltare le montagne e scolpire la roccia come se fosse argilla. Su queste fondamenta, le facciate bianche e i balconi in legno intagliato si affacciano sulle strade strette, come labbra pronte a raccontare storie di conquistatori e divinità cadute, di fede imposta e di spiritualità mai del tutto spenta.

Per le strade di Ollantaytambo
Il cuore pulsante della città è la Plaza de Armas, l'antica Huacaypata incaica, dove il passato e il presente si fondono in un'armonia viva. Qui il sole inonda le torri gemelle della cattedrale e la luce accende il color ocra delle facciate. I portici che circondano la piazza sono l'ombra rassicurante dove i venditori di tessuti colorati espongono i loro manufatti, dove i lustrascarpe aspettano pazienti e i turisti si mescolano ai locali, in un crogiolo di lingue e di sorrisi. È in questa piazza che l'anima di Cusco si manifesta in tutta la sua dualità: la grandezza della cattedrale, costruita sul sito di un palazzo inca, e le chiese minori che nascondono altari intagliati con motivi floreali andini. L'aria si riempie del profumo di foglie di coca e di queso fresco, di incenso che si disperde dai portali e del mormorio incessante delle chiacchiere. La sera, la piazza si trasforma, le luci si accendono e l'atmosfera si fa più intima, quasi magica.
Ma il vero cuore spirituale è il Qorikancha, il Tempio del Sole. Qui, le perfette murature incaiche, che un tempo racchiudevano un giardino di oro e argento, sono diventate le fondamenta su cui sorge il convento di Santo Domingo. La storia di questa sovrapposizione è visibile a occhio nudo: le curve levigate delle pareti inca, fatte per onorare il sole, sono state inglobate dalle spesse mura di una chiesa cristiana. È un dialogo senza fine tra due poteri, due fedi, due mondi. Il sole continua a baciare le pietre sacre, come se volesse rivendicare il suo antico regno, mentre il suono delle campane si mescola al ricordo di antichi rituali. Questo luogo non è solo un'attrazione storica, ma un luogo di profonda riflessione sulla ciclicità della vita, sulla caduta e sulla rinascita, sulla capacità di una cultura di sopravvivere e di integrarsi.
Salendo sopra la città, si raggiunge la fortezza di Sacsayhuamán. Non è un castello, ma un'imponente struttura cerimoniale fatta di massi ciclopici che sembrano messi lì da giganti. Ogni pietra ha il peso di un'automobile, eppure sono incastrate con una precisione assurda. Le mura a zig-zag si arrampicano sulla collina, come denti di un drago addormentato. Da qui, la vista su Cusco è mozzafiato, un tappeto di tetti rossi che si estende nella valle, circondato da montagne maestose. Il vento, lassù, è un soffio possente che porta con sé le storie di antiche battaglie e di cerimonie sacrificali. Sacsayhuamán è un promemoria della forza e dell'ingegno di un popolo che ha saputo dialogare con la natura e con gli elementi.
Tornando nel labirinto di vicoli, si scopre il cuore pulsante e quotidiano di Cusco. Le strade come Loreto e Hatun Rumiyoc sono corridoi stretti dove i muri incaici si innalzano ai lati, e dove si trova la celebre pietra dai dodici angoli, un capolavoro di ingegneria. I mercati, come quello di San Pedro, sono un'esplosione di colori, sapori e profumi. Le bancarelle sono cariche di choclo con queso, di frutta esotica, di erbe medicinali e di tessuti di lana di alpaca in ogni sfumatura di colore. I volti dei contadini andini sono scolpiti dal sole e dal vento, e i loro sorrisi timidi ma sinceri raccontano una vita legata alla terra e ai suoi ritmi. Il suono gutturale del quechua si mescola allo spagnolo, creando una sinfonia linguistica che è la colonna sonora di questa città.
Quando la luce del giorno svanisce e la città si accende di un bagliore dorato, Cusco rivela un'altra delle sue mille facce. I farolitos delle vie illuminano le pietre con un'aura di mistero, e i canti che provengono dai bar si mescolano a musiche tradizionali che arrivano dalle finestre aperte. Ci si può perdere in questo silenzio notturno, rotto solo dal suono dei propri passi. L'esperienza di Cusco non è un'esperienza che si consuma in un giorno, ma un'infusione lenta. La città si fa strada nell'anima, strato dopo strato, e quando si parte, si porta con sé non solo un ricordo, ma un pezzo del suo spirito: il suo silenzio, la sua forza, la sua profonda spiritualità e la sua resilienza, incise per sempre nel cuore come le pietre nelle sue mura. Si è diventati parte della sua storia, anche solo per un breve, indimenticabile istante.

Le saline di Madras
Lasciando Cusco, ci si addentra nella Valle Sacra, un corridoio verde che si snoda tra montagne che sono veri e propri guardiani di un passato inviolato. Il fiume Urubamba, il fiume sacro degli Incas, scorre impetuoso al nostro fianco, una vena d'acqua che nutre i campi terrazzati come scale di smeraldo che salgono verso l'infinito. In ogni ansa del suo percorso, si svela un nuovo segreto: le saline di Maras, come un'immensa scacchiera di specchi bianchi sotto il sole, o le cerimoniali di Moray, anfiteatri concentrici che sembrano vortici scavati da giganti per studiare la vita e il clima. A Ollantaytambo, il tempo si cristallizza. Le rovine della fortezza inca si innalzano contro il cielo come un tempio, le cui pietre sembrano ancora respirare l'ultima preghiera di un impero. Il vento tra le fessure delle mura canta una litania malinconica, e si può quasi sentire il rumore di sandali che scivolano sui gradini secolari. I villaggi lungo la valle sono gioielli di terracotta e sorrisi, dove l'artigianato non è solo un mestiere, ma una continuazione di un'arte ancestrale, dove i telai tessono storie di lama, di montagne e di stelle.
E poi, la luce. Una luce cruda e intensa, che accende i colori della terra: il verde saturo dei terrazzamenti, il giallo bruciato dei campi, il rosso profondo dei cieli al tramonto. La luce scivola sulle rocce, disegna ombre profonde, e ogni ombra è un segreto che attende di essere svelato.

Machu Picchu all'alba
Il culmine di questo peregrinare non è una meta, ma la strada stessa. Il treno che si insinua nella gola della montagna è un serpente che segue il corso tortuoso del fiume. Dalle finestre, il mondo si trasforma. Le cime innevate cedono il passo a una giungla lussureggiante, un tappeto di vita e di umidità che avvolge ogni cosa. La vegetazione si fa più fitta, l'aria più densa, il canto degli uccelli più insistente. È un passaggio da un mondo all'altro, da un'epoca a un'altra. E in questa transizione, l'anima si prepara.
E infine, si arriva a Machu Picchu. Non è un luogo, ma un'emozione, una rivelazione. All'alba a Machu Picchu, l'aria gelida morde la pelle, ma il cielo è un velluto indaco, senza una nuvola a nascondere le stelle. Le sagome delle montagne si stagliano come titani addormentati, e i contorni delle rovine sono appena sussurrati dal buio, in attesa che la luce sveli il loro antico segreto.
Quando il sole squarcia il velo, le pietre si illuminano, e si capisce che la magia non è un'illusione, ma la vera sostanza di questo luogo. Lì, tra i muri che sfidano il tempo, il viaggio si compie. Il Tempio del Sole, l'Intihuatana, la Pietra Sacra: ogni elemento è una domanda, una risposta, una preghiera. Le terrazze, ora verdi e pacifiche, sembrano giardini sospesi. I lama, indifferenti, pascolano tra le antiche abitazioni, custodi silenziosi di una quiete che è più forte di ogni rumore. La montagna di Huayna Picchu si innalza come una piramide naturale, una sentinella che sorveglia l'intera cittadella. Stando in piedi su quelle rovine, con il vento che accarezza il volto e il mondo intero che si distende sotto di sé, si sente un senso di profonda connessione. Si è parte di qualcosa di immensamente più grande.
E quando si lascia quel santuario di pietra, il ritorno non è una fine. Il paesaggio scivola via dai finestrini del treno, ma la sua eco rimane. L'anima si sente a casa, perduta in un orizzonte senza fine, ma allo stesso tempo ritrovata. L'esperienza non svanisce, ma si radica, trasformandosi in una bussola interiore che orienta lo spirito verso una conoscenza più profonda, un rispetto più grande per la terra e per il mistero che ci circonda.
Ma le Ande hanno anche altri segreti da rivelare, altre storie dipinte sulla pelle della terra. Lasciata la quiete glaciale, il viaggio prosegue verso un altro orizzonte, uno che non promette silenzio ma un'esplosione di colore. L'ascesa alle Montagne dei Sette Colori, o Vinicunca, è un cammino in un paesaggio che sembra alieno. La terra si spoglia della sua vegetazione, e l'aria si fa tagliente e sottile. Il corpo spinge, metro dopo metro, verso un punto che sembra irraggiungibile. L'orizzonte è una distesa di cime spoglie e polverose, un universo di marroni e di grigi. E poi, all'improvviso, si arriva alla vetta.

Ragazza andina
Cavalieri a riposo
Sotto gli occhi increduli, la montagna si svela in tutto il suo splendore. Non è un unico colore, ma una sinfonia di tonalità, come un arcobaleno pietrificato. Strati di rosso intenso, di ocra bruciata, di giallo senape, di verde smeraldo, di lavanda e di azzurro si succedono in un meraviglioso disegno geologico. È come se la terra avesse aperto le sue vene e avesse lasciato scorrere i suoi colori, rivelando un segreto custodito per milioni di anni. Il vento che sferza la cresta porta con sé un'energia unica, una testimonianza di come i minerali, il tempo e la pressione abbiano potuto dipingere un quadro così sublime. Qui, si capisce che la bellezza non ha bisogno di vita per esistere, che la roccia stessa può essere poesia. Si è un piccolo punto in mezzo a un'immensità di colori, e per un attimo, ci si sente come una pennellata su quella tela, parte di un'opera eterna e sconfinata.
Le montagne dei sette colori

Cavaliera e il suo cavallo
Ma c'è un'altra bellezza che attende, una che non si trova nelle vette innevate o nelle tele dipinte dalla geologia, ma nel cuore della gente. Lasciando le altezze vertiginose, il cammino si fa meno arduo, scivolando verso valli più nascoste, dove il tempo sembra essersi fermato. Il viaggio verso Vilcabamba e Ccuyura non è una ricerca di panorami mozzafiato, ma un pellegrinaggio verso l'essenza stessa del Perù. Ci si allontana dalle rotte battute, si perde il rumore dei motori per ritrovare il silenzio della natura e, soprattutto, l'eco di una vita semplice e radicata. Le strade si fanno più strette e polverose, i volti dei passanti diventano più rari e i loro sguardi più diretti.
Arrivati a Ccuyura, si scopre che non è un luogo da ammirare, ma un luogo da vivere. Le case di fango e paglia, i campi di patate e mais, i sentieri segnati da generazioni di piedi e di fatiche sono la vera geografia del posto. Qui, le mani non sono fatte per scattare fotografie, ma per lavorare la terra, per costruire un muro, per aiutare a sollevare un peso. Il volontariato non è un'attività, ma una lingua universale che non ha bisogno di parole. Si impara a comunicare attraverso sorrisi timidi, attraverso il sudore della fronte, attraverso la condivisione di un pasto caldo preparato sul fuoco.
Si diventa parte di una sinfonia di gesti. Si porta da mangiare a chi ne ha più bisogno, si taglia il legno per costruire portoni, si aiuta ad assemblare le stufe che riscalderanno le notti fredde. Ogni azione è una tessera che va a comporre un mosaico di solidarietà e umanità. I bambini di Ccuyura, con i loro occhi scuri e profondi, insegnano che la felicità non ha bisogno di ricchezza, ma si trova nella semplicità di un gioco, nel calore di una carezza. Gli anziani, con le loro rughe che sono mappe di una vita intera, raccontano storie non con la voce, ma con il loro semplice esistere. Ogni sguardo, ogni risata, ogni silenzio condiviso diventa un tesoro più prezioso dell'oro.
In questo abbraccio umile e sincero, il viaggio in Perù trova il suo significato più profondo. Le magnificenze di Cusco, la quiete di Humantay, la bellezza delle Montagne dei Sette Colori sono state tappe di una scoperta del mondo esterno. Ma a Vilcabamba e Ccuyura, la scoperta si fa interiore. Si capisce che la vera ricchezza di un luogo non è nel suo paesaggio, ma nella dignità e nella forza della sua gente. Le mani che hanno lavorato la terra ti insegnano che il legame con la Pachamama non è una leggenda, ma una realtà quotidiana. Questo è il momento in cui il turista muore e il viaggiatore rinasce, con il cuore pieno di gratitudine e l'anima arricchita da una comprensione più profonda. E dopo anni passati a inseguire la carriera, a rincorrere obiettivi e scadenze, mi sono ritrovato in Perù, come volontario. E lì, lontano dal mio mondo, ho riscoperto il vero valore del lavoro. Non era più una corsa, ma un contributo. E ogni lamiera piegata per costruire una stufa, ogni sorriso di un bambino nutrito, ogni parola scambiata con un anziano, aveva un peso e un significato che i miei inutili report non avrebbero mai potuto eguagliare.

Durante un giorno di festa

Signora stanca durante un giorno di festa (15 Agosto) Il lavoro, in Perù, non era qualcosa da "fare", ma da "essere". Ho capito che il valore non si calcola in euro o dollari, ma in vite che tocchi, in comunità che aiuti, in semi di speranza che pianti. La stanchezza della sera non era più quella vuota del lavoro, ma la sana fatica di chi ha dato il meglio di sé per una causa che lo supera. E in questo, ho ritrovato un po' me stesso. Non più un ingranaggio di un sistema, ma una persona che, con le sue mani e il suo cuore, può fare la differenza.
Il Perù non è un luogo da visitare, ma un'esperienza da vivere e si torna, con il cuore leggero, sapendo di aver camminato non solo su una terra straniera, ma su se stessi. La più grande scoperta è stata che le Ande, con i loro misteri, i loro colori e le loro genti, non sono state solo una destinazione, ma il palcoscenico di un ritorno a casa, un ritorno alla propria anima.
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