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Rientro dalla Repubblica Democratica del Congo con un peso sul cuore che le parole non riescono a sostenere. Ogni fotografia che ho scattato non è solo un'immagine, ma una ferita aperta, un urlo muto di vite spazzate via. È un archivio di assenze, un atlante di sofferenze. Oggi mi sento, forse per la prima volta, il fotografo del necrologio. Non un narratore di vita, ma un testimone di morte. E questa consapevolezza mi lacera.
Ho fotografato bambini che oggi non ci sono più. Ho stretto mani che non stringeranno mai più niente. Nei campi profughi, ho ascoltato storie di sopravvivenza che si sono spente prima di poter essere raccontate. Queste vite, ormai spezzate, non sono che numeri per il mondo, un dettaglio trascurabile in un bilancio che nessuno vuole leggere. Ma per me, non sono numeri. Sono volti, nomi, sguardi che non riesco a dimenticare.
Parliamo di crisi umanitarie, ma cosa significa davvero? Nel Congo orientale, oltre 5 milioni di persone sono morte negli ultimi vent'anni per conflitti, carestie, malattie e abusi. Oggi, 6,7 milioni di persone vivono in condizioni di sfollamento interno. Nei campi che ho visitato, ho visto bambini morire prima di aver mai conosciuto la vita. Fame, malnutrizione cronica, epidemie che il mondo potrebbe prevenire. Quella non è vita. È un'agonia che si consuma in silenzio.
Tra loro c'era un bambino, il bambino. La sua gabbia toracica sembrava un carapace spezzato, un ragno mostruoso che lo divorava dall'interno. Oggi quel bambino non c'è più. È morto qualche giorno dopo che l'ho fotografato. La sua immagine non mi lascia in pace. Ogni volta che la guardo, mi chiedo: quanto vale la vita di un bambino quando il mondo sceglie di non guardare?
E non è solo la povertà o la guerra. È un sistema alimentato dalla nostra stessa avidità. Il Congo è ricco di coltan , oro , cobalto , minerali preziosi che fanno funzionare i nostri smartphone, computer e auto elettriche. Ma queste risorse non portano prosperità. Portano morte. Alimentano guerre, sfruttamento, distruzione. Mentre noi scivoliamo il dito su uno schermo lucido, il Congo paga il prezzo con il sangue.
A tutto questo si aggiunge un disastro ambientale senza pari. Ogni anno, milioni di ettari della foresta pluviale del Congo – il secondo polmone verde del pianeta – vengono rasi al suolo per il disboscamento illegale o l'estrazione mineraria. Ogni albero abbattuto è un respiro perso per il mondo intero. Quando scompare una foresta, non perdiamo solo biodiversità. Perdiamo il nostro futuro.
E allora mi chiedo: cosa deve succedere perché ci importi? Oggi una mia amica mi ha mandato un messaggio vocale da vicino Milano. Mi raccontava che il suo vicino di casa ha ucciso sua moglie e poi ha tentato di togliersi la vita. Una tragedia. Un dramma che ci scuote perché è accaduto vicino a noi. Ma perché, mi domando, un crimine a pochi passi ci colpisce così tanto, mentre l'olocausto silenzioso del Congo ci lascia indifferenti?
Il mio lavoro è documentare, raccontare la verità. Ma questa volta non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione di essere diventato un fotografo del necrologio . Non per scelta, ma per necessità. Ogni scatto che ho fatto in Congo è un grido disperato, una preghiera silenziosa affinché qualcuno ascolti.
Quel bambino, divorato dal "ragno" metaforico, è più di un simbolo. È un riflesso di ciò che siamo diventati. Siamo una società che consuma senza pensare, che distrugge ciò che dovrebbe proteggere, che ha dimenticato il senso della vita. E io, con queste immagini, non so se sono un cronista o un complice.
Se c'è una speranza, sta nel ricordare. Sta nel raccontare. Sta nel non distogliere mai lo sguardo. Questo progetto, che culminerà nel 2026, vuole essere più di una mostra. Vuole scuotere, sensibilizzare, obbligare il mondo a fermarsi e guardare. Perché quel bambino, quella foresta, quei campi profughi non sono "altrove". Sono parte di noi. E se continueremo a ignorarli, non sarà il Congo a scomparire. Saremo noi a perdere l'ultima briciola di umanità.
Ciao Gerardo. Ammetto di avere visto le tue fotografie e di non essere stato in grado di scrivere un commento e nemmeno aggiungere un "mi piace". È stato come ravvivare il ricordo di situazioni che conosco già. Sicuramente non con la dovuta accuratezza, tuttavia sì, nella sostanza le conosco già. Le tue immagini sono un ottimo pugno allo stomaco della coscienza, la mia, distratta. Si conferma il fatto che l'etica, i sentimenti, le emozioni, agiscono come un sasso nello stagno formando visibili piccole onde concentriche che si attenuano man mano che si allontanano, fino a sparire, nuovamente, nella quiete dello stagno. Fotografo del necrologio: questa frase racchiude pesantemente e perfettamente il tuo stato d'animo. Ho smesso di seguire il telegiornale durante la cena. Non volevo più vedere sangue delle bombe con l'antipasto, teli che coprono un corpo assassinato gustando il primo piatto, stupri e... con il secondo. Per me è stata una piccola ribellione all'assuefazione. Troppo piccola. Grazie per il tuo impegno. Un saluto da Ugo
le tue parole mi hanno toccato profondamente. Grazie per aver condiviso con tanta sincerità il tuo pensiero e le tue emozioni. Non importa se non hai aggiunto un "mi piace" o scritto un commento subito; il fatto che tu abbia sentito il bisogno di scrivermi ora è ciò che conta.
Capisco bene quella ribellione di cui parli, quella necessità di distanziarsi per non sentirsi sopraffatti. Ma è proprio in quel momento, quando le onde dello stagno sembrano placarsi, che sento il dovere di rilanciare quel sasso, di rompere di nuovo la quiete. Non per infliggere dolore, ma per ricordare che dietro ogni immagine, dietro ogni pugno allo stomaco, ci sono vite che non hanno avuto il privilegio di distogliere lo sguardo.
L'assuefazione è una trappola subdola, ma il tuo messaggio dimostra che, in fondo, la coscienza può essere risvegliata. Anche una piccola ribellione, come quella che hai scelto di fare, è un segno che qualcosa dentro di noi non vuole arrendersi.
Ti ringrazio davvero, Ugo, per aver trovato il tempo e il coraggio di esprimere ciò che hai provato. È per persone come te che continuo a fare questo lavoro.
Un caro saluto, Gerardo
user257478
inviato il 19 Novembre 2024 ore 11:58
user257478
inviato il 19 Novembre 2024 ore 12:03
Grazie per la condivisione Gerry . L'umanità purtroppo è morta tra non molto lo sarà anche fisicamente.
“ Questo progetto, che culminerà nel 2025, vuole essere più di una mostra. Vuole scuotere, sensibilizzare, obbligare il mondo a fermarsi e guardare. „
Intento apprezzabile di progetti come questo secondo me in quanto non c'è ancora consapevolezza sugli effetti del Progresso e del Profitto, i due capisaldi delle società sviluppate cui facciamo parte
Rocco, ti ringrazio per la tua riflessione. Ci penso spesso anch'io, ed è qualcosa che analizzo molto dentro di me. Negli anni, questa consapevolezza ha influenzato profondamente anche la mia fotografia, che è cambiata insieme a me. È diventata più amara, più cruda, riflettendo il peso delle storie che racconto. Ogni scatto porta con sé questa trasformazione, cercando di dare voce a ciò che, purtroppo, non può essere ignorato.
Simone, Hai colto un punto fondamentale. Progresso e Profitto sono spesso celebrati come pilastri del nostro mondo, ma raramente ci fermiamo a riflettere sul loro costo reale. Raccontare queste storie è un modo per mettere in discussione questi paradigmi, per spingerci a vedere oltre la superficie di ciò che consideriamo sviluppo. La consapevolezza è il primo passo verso un cambiamento che non sia solo materiale, ma anche umano.
Noi come Ravenna teatro è dagli anni 90 che collaboriamo con il Senegal nella nostra compagnia ci sono giovani attori senegalesi che lavorano sia in Italia sia in Africa .
Che storia incredibile quella di Moussa N'Diaye e del KËR Théâtre! Non è solo il racconto di un'eredità culturale, ma la prova vivente di come l'arte possa essere un ponte tra mondi apparentemente lontani. Un lavoro molto simile a quello di Eddy Ekete, l'artista congolese che usa le sue creazioni – come le maschere e le performance di strada – per dare voce alla tradizione e per portare un messaggio potente in ogni angolo del mondo. Come Eddy Ekete trasforma materiali di recupero in arte che parla di sostenibilità e identità africana, Moussa riporta il teatro a casa, nella terra dei suoi antenati. Entrambi stanno facendo qualcosa di rivoluzionario: partono da radici profonde e creano qualcosa di nuovo, che parla al presente.
user257478
inviato il 19 Novembre 2024 ore 16:23
Quello che più mi infastidisce è sentire frasi che fanno rabbrividire su queste popolazioni meno fortunate pare che sia tutta colpa loro della situazione in cui versano a cui fino a non tanti anni fa gli abbiamo fatto solo del bene , ora che si sono liberati dei benefattori sono al tracollo . Tanto per dirne una tra le tante, con queste iniziative si spera di restituire un po' di speranza e dignità.
Anche a me fanno rabbrividire quelle frasi cariche di pregiudizio che cercano di colpevolizzare chi, in realtà, è vittima di un sistema di sfruttamento ingiusto e radicato.
La verità è che, sotto il velo di un passato da "benefattori," si nasconde una lunga storia di depredazione e ingiustizie. Oggi, ad esempio, il land grabbing è solo uno dei tanti strumenti con cui il Nord globale continua a privare queste popolazioni delle loro risorse e del loro futuro. Intere comunità vengono espropriate delle terre su cui hanno vissuto e lavorato per generazioni, per far posto a coltivazioni intensive destinate all'export, a miniere di minerali preziosi o a infrastrutture che nulla hanno a che vedere con il benessere locale.
Ciò che queste iniziative cercano di fare è riportare al centro dell'attenzione la dignità di chi viene costantemente ignorato. Non si tratta solo di offrire speranza, ma di denunciare un sistema che ha rubato non solo risorse, ma anche il diritto di scegliere il proprio destino.
Grazie per il tuo sostegno e per le tue riflessioni. È da questi scambi che nasce la possibilità di un cambiamento.
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