| inviato il 24 Novembre 2020 ore 6:37
Negli ultimi anni ho partecipato a diversi corsi e letto molti libri di fotografia; il principale risultato di questo tentativo di automiglioramento è stato quello di mettere tra parentesi la mia pluridecennale attitudine fotoamatoriale, incentrata sullo scatto singolo di impatto, per adottare un approccio più meditato e più narrativo, in cui la singola immagine non basta più a sé stessa e non riesce, nel rettangolo dell'immagine, ad esprimere né l'oggetto (cioè il soggetto fotografato), né il soggetto (cioè il fotografo). Ho iniziato anche io quindi, nel mio piccolissimo, a lavorare per brevi "progetti", sempre nell'ambito della fotografia cosiddetta "documentaria", nei quali ho cercato allo stesso tempo, attraverso una serie di foto, sia di descrivere il tema che di rappresentare il mio atteggiamento nei suoi confronti, fino a poco fa nell'ambito del paesaggio urbano. L'ultimo corso al quale ho partecipato ha provocato un'ulteriore crisi nel mio modo di fotografare: da un lato mi è stato posto il problema di un più palese coinvolgimento emotivo, dall'altro quello della necessità di una narrazione. Mi sono stati presentati una serie di autori accomunati dal fatto che tutti raccontano una certa realtà, di solito circoscritta e non esclusivamente interiore, con un approccio che non elude la necessità di un coinvolgimento emotivo del fotografo. Tra le decine di eccellenti lavori visti riporto questo, per me stupefacente, di Costanza Portnoy www.constanza-portnoy.com/life-force-what-love-can-save#e-0 che per me è esemplare: in un certo senso ripropone il problema dell'inquadratura, quindi del taglio, di cosa c'è dentro la foto e cosa c'è fuori della foto, a una scala maggiore, quella del "progetto" o del lavoro. Nel libro c'è una foto che sul sito non è stata inserita, un'unica foto che cambia totalmente il senso del racconto. Una foto "brutta", tecnicamente discutibile, che mostra il protagonista della storia di spalle e sfocato, mentre attraversa un incrocio, accompagnato da due figure irriconoscibili, per raggiungere la postazione nella quale passerà la giornata a chiedere l'elemosina. Questa immagine pone un interrogativo: è corretta la sinossi presentata sul sito, che non oserei definire edificante, o il lavoro completo che riporta, con quell'unica immagine, la situazione in maniera più completa, con i suoi aspetti più drammatici e problematici? Il bellissimo lavoro della Portnoy ha il coraggio di non seguire il cliché del degrado e della commiserazione e di mettere invece in luce la vitalità e la gioia di una famiglia, ma non si rischia con un taglio eccessivamente selettivo di rendere edificante la difficilissima situazione dell'uomo? |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 8:43
ciao, grazie per la segnalazione, ho visto il lavoro sul sito, è molto bello in effetti... per rispondere alla tua domanda.. non ho visto la foto di cui parli nel libro, ma posso immaginare che appartenga ad un livello di narrazione diverso, nel senso che la realtà è molto più complessa e sfaccettata di quello che possiamo raccontare in un unico reportage. Bisogna scegliere il taglio del racconto, il suo ambito. Credo che l'autrice abbia scelto quello intimo, familiare..ha reso la bellezza di una vita nelle estreme difficoltà della miseria e dell'handicap. forse un altro autore, autrice avrebbe scelto di mostrare il lato socio /economico di quello che era il lavoro dell'uomo e sarebbe stato un altro reportage.. Certe volte bisogna scegliere, credo, per dare un filo logico al racconto e mostrare, per quanto possiamo, una parte della realtà che esiste.. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 8:44
Nella serie di foto ce n'è una sola senza "personaggi", quella dell'ingresso della cucina con la sedia a rotelle vuota. Credo che quell'unica foto, proprio perché priva dei soggetti principali (una cosa che non ti aspetti all'interno di quella serie così "piena" della personalità dei suoi soggetti umani, e che proprio per questo attira l'attenzione sul contesto), mostri pienamente la drammaticità della situazione di vita di quella famiglia, ma, come hai sottolineato anche tu, senza adottare il cliché del degrado e della commiserazione (mancano infatti volutamente i personaggi da, eventualmente, commiserare). A quel punto si viene quasi obbligati a soffermarsi maggiormente sulla situazione "ambientale" che fa da contorno anche alle altre immagini. Penso che l'intento, riuscito, di quella serie sia quello di mostrare che ad avere un valore edificante sia la caparbia e coraggiosa ricerca di qualche scampolo di "felicità" anche all'interno di queste situazioni; direi che il "filo di Arianna" che lega questo valore all'intera serie sia la quasi costante presenza della figlia, normodotata, che vive con (apparente) serenità il rapporto familiare, quasi a sottolineare che i figli sono il nostro futuro e, in fin dei conti, ciò per cui vale la pena di vivere. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 8:51
Qui devo ritagliarmi un po' di tempo per riflettere: l'argomento merita grande attenzione. E il lavoro di Costanza Portnoy è incredibile. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 8:58
Dimenticavo: si tratta comunque di un lavoro che ritengo molto buono; riesce ad essere di forte impatto pur senza gli eccessi e le esasperazioni del "negativo" a cui siamo ormai abituati. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 9:08
Un lavoro eccellente. Togliere o aggiungere una foto a volte modifica l'intero impianto della narrazione depauperando il messaggio del fotografo. L'argomento è interessante e si presta a molteplici dibattiti. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 9:25
Ho cliccato sul link distrattamente! Ho visto solo la prima foto e sono rimasto impietrito per la sua bellezza e forza!!!!! Più tardi proverò ad andare oltre.......ora non ci riesco. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 9:43
@Marco, grazie della segnalazione, molto interessante. Riprendendo il tuo interrogativo: “ è corretta la sinossi presentata sul sito, che non oserei definire edificante, o il lavoro completo che riporta, con quell'unica immagine, la situazione in maniera più completa, con i suoi aspetti più drammatici e problematici? „ Secondo me lo sono entrambe, non ce n'è una più vera dell'altra, perché appunto è una narrazione e quindi c'è un autore che sceglie il taglio da dare a tutto il racconto. Possiamo preferire quello più integrale e impietoso (con lo scatto "disturbante" che altrove viene omesso) o apprezzare il racconto del sito che mette in risalto la dignità e vitalità dei protagonisti. È interessante come una singola foto in più o in meno possa modificare il senso dell'insieme. Come per certi film di cui vengono girati diversi finali: tutti abbiamo visto Blade Runner, ma Scott ne realizzò 7 versioni diverse, alla fine ne fu scelta una. Lo stesso avviene per alcuni romanzi. |
user207512 | inviato il 24 Novembre 2020 ore 11:51
Conoscevo il lavoro della Portnoy e hai fatto benissimo a segnalarlo. Per me è un lavoro che esalta l'amore e la forza di quella famiglia, il desiderio di andare avanti comunque e che fa riflettere su come spesso noi più fortunati ci areniamo su problemi incommensurabilmente minori. Riguardo la narrativa in fotografia, io da tempo sono approdato alla tua stessa visione: il progetto, il corpo di fotografie è l'unico modo per valorizzare questo mezzo di comunicazione. La singola foto di impatto va bene, ma senza un corpus narrativo resta fine a se stessa. Trenta fotografie non "belle" ma che seguono un filo logico e trasmettono delle emozioni restano a lungo. Il caso della Portnoy è ancora più interessante perché le singole fotografie sono molto intense, ma comunque da sole non avrebbero la stessa forza del progetto. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 11:58
grazie scatti potenti seguo interessato essendomi anche io approcciato al racconto |
user36759 | inviato il 24 Novembre 2020 ore 12:20
Davvero potente. È fotografia narrante, ti fa concentrare sui personaggi e la loro storia, è coinvolgente davvero, ti porta alla riflessione. Davvero una grande storia illustrata da una grande narratrice. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 14:38
diciamo che è comunque il "suo pane" dalla sua bio All'età di 23 anni mi sono laureata con lode in Psicologia presso l'Università di Buenos Aires. Ho iniziato a lavorare come psicologa nell'area della disabilità. Mi sono specializzato in questo campo con i miei studi post-laurea e ho lavorato in ospedali di riabilitazione neuropsichiatrica assistendo anziani e bambini piccoli con diagnosi come schizofrenia infantile, psicosi e autismo grave. Laureata in psicologia e poi ha lavorato in ospedali neuropsichiatria Di storie così ne ha a chili nella borsa..... Dopodiché é molto brava Ma fa parte del suo percorso di studi i e della sua carriera professionale Questo è Per rispondere all'intriseca domanda: come fa lei? |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 15:08
seguo |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 15:20
il racconto , qualsiasi racconto parte dalla mente e dall'idea del fotografo. per cui disquisire su un idea e la sua realizzazione lascia il tempo che trova. vi è una scelta : bn , focale usata , personaggi. e un racconto : la mattina , il pranzo . la sera , il cortile e la strada. ognuno di noi puo' non essere d'accordo su qualsiasi di queste variabili , è questo il "lavoro " dello spettatore. ps: bella segnalazione , grazie. |
| inviato il 24 Novembre 2020 ore 15:51
grazie a tutti dei commenti! Utili... |
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