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Se la vita è una scena, sei fotografo o regista? (Un articolo di Smargiassi)


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avatarsenior
inviato il 16 Ottobre 2020 ore 13:18

Un interessante articolo di Smargiassi sviluppa un tema che interessa (indirettamente) anche il genere che più gradisco, la foto di strada.
Lo interessa perchè essendo senz'altro figlia (da parte di padreMrGreen) di molti reportagisti la domanda (ed i metodi) possono essere i medesimi.
A maggior ragione avendo percepito negli ultimi due anni un certo tentativo di "sdoganare" modi e visioni di autori che sino a poco tempo fa apparivano blasfemi non solo ai puristi.
A mio avviso il titolo è fuorviante dal momento che la vita non è proprio una scena, tutt'altro. Il reportage per natura e scopo non avrebbe proprio il fine di "filmarla" ma semmai di fermarla.
Qualche domanda ben più seria (secondo me ovvio) chi fa il fotoreporter dovrebbe porsela con più scrupolo.
Immaginiamo quanto sarebbe criticato un giornalista che pubblica l'editoriale non secondo la lettura dei fatti (ovviamente secondo la propria visione e pensiero) ma secondo una storia costruita e romanzata.
La vita non credo sia una scena, anzi tutt'altro.

Ed allora appurato che non sia una scena la medesima domanda (sei fotografo o regista) assume un'latro significato.

In parte la stessa argomentazione può essere ripresa per la foto di strada e per alcuni, sempre a mio avviso, anche secondo un certo tipo di street in senso stretto.

Talvolta l'argomento è stato sfiorato in altre discussioni, posed-unposed, ma la lettura di questo articolo può offrire spunti di ulteriore riflessione.
A chi interessa ecco il link:

smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2020/10/16/alex-majoli-cor

avatarsenior
inviato il 16 Ottobre 2020 ore 14:48

Nessuno dei due.
Io preferisco il messicano che fa la siesta..
da parte, neutrale a tutto e tranquillo. Cool

Ma chi è questo Smargiassi ?!

avatarsenior
inviato il 16 Ottobre 2020 ore 20:37

Alla fine sono d'accordo con l'ultima frase di Smargiassi e credo che Majoli in fondo renda esplicito qualcosa che già avviene.

Mi ricordo una mostra a Milano con Majoli e alcuni altri giovani di Magnum a rivendicare la correttezza etica della visione soggettiva del fotogiornalista. Parliamo di una ventina di anni fa o quasi.

Il giornalista e il fotogiornalista non possono evitare di introdurre la propria soggettività nel loro reportage. L'importante è che non venga alterata la verità dei fatti, se si fa giornalismo.
Il tema dell'oggettività del resoconto, scritto e visuale, è stato molto approfondito nelle varie teorizzazioni del metodo di ricerca etnografica, arrivando anche in questo caso ad ammettere che l'oggettività assoluta non è raggiungibile.

Ha ragione Majoli quando dice che i "teatri" di guerra/catastrofi/emergenze sono pieni di fotografi e chi è direttamente coinvolto agisce nella consapevolezza di entrare a far parte di una testimonianza, di una breaking news, e magari sfrutta questa opportunità (alle volte l'unica) per comunicare al mondo la sua versione dei fatti.
Abbiamo tutti presente l'ottimo film "The Bang Bang Club".

Certamente la fotografia del "fotografo invisibile" può esistere ancora e la "fotografia del quotidiano" estranea ai riflettori dei media è ancora più che praticabile.
C'è moltissima fotografia documentaria che agisce con questo approccio producendo immagini piene di contenuto da realtà di cui non immaginiamo l'esistenza.

avatarsenior
inviato il 16 Ottobre 2020 ore 22:01

Io ho trovato tutto interessante e concordo con quello scritto da Ale Z, c'é un po' il mito del fotografo invisibile, ma credo che reportage non sia legato al fatto che la persona ripresa non sappia di esserlo.
Aggiungo anche che per me il valore di un reportage sta nell'etica dell'autore non nell'usare o no luci o flash.
Di Corcia fu pesantemente criticato quando,usando fondi pubblici, fece un reportage posato sui gigolò
Ma sono d'accoedo con quanto viene detto, fingere che la persona ritratta non sappia dicessero ripresa non rende migliore il risultato

avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 0:13

Il giornalista e il fotogiornalista non possono evitare di introdurre la propria soggettività nel loro reportage.

vero

Il tema dell'oggettività del resoconto, scritto e visuale, è stato molto approfondito nelle varie teorizzazioni del metodo di ricerca etnografica, arrivando anche in questo caso ad ammettere che l'oggettività assoluta non è raggiungibile.

vero, un po scontato.

Io ho trovato tutto interessante e concordo con quello scritto da Ale Z, c'é un po' il mito del fotografo invisibile, ma credo che reportage non sia legato al fatto che la persona ripresa non sappia di esserlo.


Non ritengo sia questo il problema.

Condividendo gli assunti rimango perplesso sulle conclusioni.
Il fatto che un reporter (o un giornalista nel settore parallelo) abbiano il loro punto di vista è nella natura delle cose.
Questo però non vuol dire che si debba operare al rovescio, ossia costruire l'immagine per mostrare il punto di vista.
Ragionando per paradosso a questo punto non vedo alcuna differenza se in effetti il prete sia realmente colui che benedice i morti o se sia una comparsa. Se i camion militari siano veri o falsi, se la foto sia stata scattata a Bergamo o in qualsiasi altro luogo ove il covid non era nemmeno comparso, se la famiglia di profughi sia effettiva o in visita turistica, se il bambino morto in spiaggia sia vero o fatto posare e via dicendo.
Una cosa è mostrare una scena spontanea, anche essere presente e influenzare talvolta, perchè no, l'invisibilità è il mito di Atlandite, ma preparare un set è ben oltre tutto ciò.

Non essendo una persona che si "emoziona" non ho particolare interesse a foto che vogliono raccontare secondo canoni estetici, formalmente impostati, con belle luci e via dicendo. Preferisco una foto sporca, brutta e cattiva ma viva, preferisco la colonna dei camion fermata dall'uomo qualunque con il telefonino dal terrazzo.
Ho paura che in realtà sia l'incapacità di poter essere padrone del proprio mestiere, di organizzare, di informarsi, di essere presente sul luogo giusto al momento giusto, ossia di tutta quella fase preparatoria e delle enormi difficoltà che il mestiere di reporter richiede.
E' più facile costruire il racconto che cogliere il racconto. E' più difficile competere davvero con l'uomo qualunque che è sparso in ogni luogo e che riprende ora questo ora quello.

Se la vita è scena è la premessa.
Ma la vita non è scena.
Sbagliata la premessa, la ricostruzione e le conclusioni difficilmente saranno giuste.
E' il reporter che deve estrarre la scena dalla vita, secondo il suo film certo, ma dalla vita reale. Altrimenti possiamo costruire qualunque situazione e raccontare qualunque storia. In fin dei conti sappiamo che è probabile che quella storia sia realmente accaduta. Ma se non lo è non posso giurare di esserne stato testimone. Peggio ancora se ho collaborato con il protagonista.

Libero di scegliere il proprio metodo di racconto, ma per favore non parliamo di reporter. Lo dobbiamo per il rispetto di coloro che ancora oggi si prendono i rischi del mestiere.
Non voglio dire che questi lavori (che non apprezzo) non possano e non debbano avere dignità. Chiedo solo di chiamarli con un altro nome. Anche perchè spesso si inganna chi guarda le immagini accompagnando l'autore con l'aggettivo di reporter e facendo credere a chi osserva le immagini, alla gente comune, che quello sia vero, non una recita.

La recita non rientra, a mio avviso, in quelle proporzioni, sfumature, accenti, misture diverse di quell'incredibile, unico cocktail di prelievo e costruzione, di volontà e di realtà che da centottant'anni chiamiamo fotografia come scrive Smargiassi.

O almeno si precisi che sia fotografia ma non di reportage.

avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 1:27

Ci sarebbe da capire se montare due luci su una scena significa per forza fare una foto 'posata' (staged).
Oppure se al contrario si può riprendere un flusso spontaneo di fatti pur avendoli illuminati.
Nel primo caso siamo per forza fuori dal fotogiornalismo.

Ho paura che in realtà sia l'incapacità di poter essere padrone del proprio mestiere, di organizzare, di informarsi, di essere presente sul luogo giusto al momento giusto, ossia di tutta quella fase preparatoria e delle enormi difficoltà che il mestiere di reporter richiede.

Sinceramente tutto il curriculum di Majoli non lascia dubbi sul fatto che non abbia alcun timore ad affrontare situazioni anche rischiose e a fare molto bene il mestiere del reporter. Non è in Magnum per nulla...
Secondo me, come dice Smargiassi, questa sua posizione mi sembra più legata ad una sua scelta espressiva piuttosto che ad una difficoltà a fare il suo mestiere.

avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 8:18

Partiamo dal fatto che il reporter é un inviato o un cronista
Colui che racconta la storia.
Quindi pensare al reporter come quello di guerra é già un errore.
Ho citato Di Corcia e il suo reportage sui gigolò ma ultimamente c'é anche Joey L che fa reportage con foto posate.
Non é nessun insulto anzi sono lavori interessanti.
Sai cosa é invece un insulto? Vedere i backstage di molti dei reporter stile classico messi in 10 come sciacalli di fronte a certe scene che sanno che faranno colpo.
Io trovo molto più onesta la foto fatta col cellulare dal ragazzino del posto in quei casi.
Non ce l'ho con chi racconta la guerra ma la realtà é che in molti casi si cerca la spettacolarizzazione ad ogni costo e certe foto sono altrettanto preparate solo che non lo dicono e non usano il flash
Quello non é un insulto? Eppure si sa da anni che avviene e che sono lì tutti in fila a riprendere la stessa scena.
Reportage é raccontare una storia e fare conoscere qualcosa al mondo, portare un racconto e alla luce qualcosa che sarebbe perso o taciuto.
Il come é deve essere funzionale a questo e l'etica e la realtà del tutto é legata a chi racconta cosa che é sempre stata così tra l'altro

avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 9:48

Mi è venuta in mente una precedente serie di Majoli di cinque anni fa dove in alcune immagini c'è un'evidentissima alterazione della luce ambiente della scena.
edition.cnn.com/2015/11/15/world/cnnphotos-paris-attacks-alex-majoli/i

avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 10:12

Per caso vedo anche questo lavoro di Andres Cardona che su base autobiografica ripercorre il rapporto fra la sua famiglia e la violenza in Colombia, con foto di oggi, repertorio e "ricostruzioni".
www.smithfund.org/recipients/2020-andres-cardona


avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 10:15

Io trovo che questo lavoro della margolles sia un ottimo reportage
ri-flex.com/pista-de-baile/

avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 10:34

Interessante.
In questo caso non c'è equivoco sullo "staged".

avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 10:42

Non credo che sia solo una questione di montare le luci come scrivi (
Ci sarebbe da capire se montare due luci su una scena significa per forza fare una foto 'posata' (staged)
.

Dall'articolo estraggo:
Ma è sempre una recita la vita, almeno in pubblico, Tutti noi giochiamo un ruolo, quando siamo sotto lo sguardo degli altri. Siamo le marionette di noi stessi, diceva Pirandello. Quando c'è un fotografo, ancora di più. Io ho semplicemente deciso di rendere evidente questa cosa. Di rompere la finzione che non esista una parte di finzione nella realtà. Io non dico niente alle persone, quando fotografo in questo modo. Non metto in posa nessuno, non dico spostati mettiti lì. Monto semplicemente le luci, ci metto il tempo che serve, non mi nascondo, e lascio a loro il tempo per decidere”.


Non è difficile immagine che il protagonista abbia comunque una pressione su quello che deve fare e non deve fare.
In altre parole si perde una delle caratteristiche della testimonianza, la spontaneità.
Se il reporter deve limitarsi a testimoniare è il primo ad essere consapevole che la sua foto non è spontanea, ne genuina (allestimento di un set), e questo inficia la base di quello che è il valore del documento.
L'attendibilità.
Facciamo un gioco; se vi sono due testimoni per la ricostruzione di un fatto, ed uno vi dice ho visto quello che è successo perchè mi sono affacciato al balcone, e l'altro vi dice ho visto quello che è successo perchè avevo un appuntamento per fotografarlo ed ho allestito una preparazione dei luoghi, secondo voi quale è più attendibile, genuino e spontaneo?

In altri settori, Vi sono delle regole abbastanza dettagliate per svolgere l'esame testimoniale e che rispondono al buon senso di quello che è la funzione della testimonianza. La ricostruzione di un fatto che per quanto imperfetta è il fine ultimo. Tra queste non si trova l'incontro con il testimone prima della dichiarazione, solo per dirne una. Si cerca di evitare l'influenza sulle dichiarazioni che dovrà rendere, sia in buona fede ed ovviamente in mala fede.

Partiamo dal fatto che il reporter é un inviato o un cronista
Colui che racconta la storia.
Quindi pensare al reporter come quello di guerra é già un errore.

Non mi pare di aver fatto riferimenti esclusivi ai reporter di guerra.
I rischi ed i pericoli si hanno anche documentando altri settori.

Sai cosa é invece un insulto? Vedere i backstage di molti dei reporter stile classico messi in 10 come sciacalli di fronte a certe scene che sanno che faranno colpo.

Non mi permetto di valutare i comportamenti delle professioni altrui che rispondono a profili deontologici professionali.
Vale per il reporter, per il medico, per l'avvocato... è facile sparare su certi luoghi comuni. Se fossi un medico non opererei il criminale che ha ucciso ed è rimasto ferito, se fossi l'avvocato non difenderei lo stupratore, se fossi il reporter non scatterei la foto del dolore... un professionista deve svolgere il proprio lavoro, nei limiti di quella che la finalità del ruole che assume nella società, con scienza e coscienza e nei limiti previsti dalla deontologia (e talvolta dall'etica). Ma sono argomenti abbastanza complessi per quello che riguarda il mio lavoro, figuriamo se mi permetto si sindacare quello altrui.

Cool
Tornando in tema decidiamo se il reporter è testimone (il giornalista cronista) o attore (romanzo) dei fatti che avvengono. Basta che ce lo dicano prima e abbiano coscienza che il loro lavoro ha un valore diverso come fonte storica.


avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 11:09

Abbiamo una visione diversa, per me il lavoro della margolles é reportage e non ha una valenza storica minore perché posato
Reportage é raccontare una storia e li c'é colpisce porta in luce un fatto che ignoreremmo e lo fa informando perfettamente.
Non é romanzo é cronaca e non c'é una discussione in merito a questo

avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 11:19

Non è difficile immagine che il protagonista abbia comunque una pressione su quello che deve fare e non deve fare.
In altre parole si perde una delle caratteristiche della testimonianza, la spontaneità.
Se il reporter deve limitarsi a testimoniare è il primo ad essere consapevole che la sua foto non è spontanea, ne genuina (allestimento di un set), e questo inficia la base di quello che è il valore del documento.


Chiedo: questa scena sarebbe stata la stessa se non ci fosse stato presente il fotografo a rendere consapevoli i partecipanti che il loro grido di dolore sarebbe arrivato in ogni angolo del mondo? Quindi la possiamo considerare un documento spontaneo e genuino?





avatarsenior
inviato il 17 Ottobre 2020 ore 11:29

Reportage é raccontare una storia

direi la storia, non una storia...
comunque...

Non é romanzo é cronaca e non c'é una discussione in merito a questo

Se lo dici tu, va bene.

Per me l'odissea è reportage, non c'è discussione in merito a questo.
;-)

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