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Fuga all'equatore


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Fuga all'equatore, testo e foto by Marro. Pubblicato il 17 Marzo 2020; 3 risposte, 1280 visite.


Le lucciole danzano sulle mangrovie, mentre Adi ci riporta dalla donna dei sogni che non avevamo avuto paura di abbandonare. Nise decide di saltare la cena che noi consumiamo lungo strada. Ordiniamo un po' d'acqua, che la bambina dagli occhi grandi ci consegnerà solo dopo un mirato viaggio con la bicicletta e il solito nasi goreng.
È la sera del 31 luglio e ormai il nostro viaggio sta per finire. Abbiamo visto Draghi, principesse, vulcani, scimmie più umane degli umani. Aspettiamo solo di raggiungere delle sperdute isole che neanche gli indonesiani conoscono, che sono da qualche parte lì, vicino l'equatore. Il 1 agosto quindi sarà tutto di viaggio. Lasceremo il Kalimantan di mattina per riassaporare la vita metropolitana e non di Surabaya tra mercati di tutto e bisogni di niente, per ritornarci la sera. A Berau insistono che dobbiamo prendere necessariamente due macchine private per continuare ad avvicinarci all'arcipelago delle Derawan e noi cediamo controvoglia. Sulla strada incontriamo un istrice e un serpente. Arriviamo a destinazione la sera tardi, dopo un giorno di spostamenti, curve e pasti saltati. Troviamo un posto per passare la notte. La doccia è il solito secchio, i muri e pavimenti sono storti ma i colori mettono allegria. L'indomani il proprietario mi dice di fare qualche foto che vuole farsi pubblicità (sic!). Veniamo dal nulla e un intero giorno di spostamenti non ci ha fatto arrivare a destinazione. Siamo solo in un altro nulla. E l'indomani dobbiamo cercare un modo per arrivare su un'isola. L'ennesimo nulla che nulla non è…

Quando faccio le scale per scendere in magazzino ho mille deja vu. Succede perché è un'azione ricorrente. Penso a cosa devo dire agli operai, cosa devo cercare, cosa in generale dovrò fare nel resto della giornata. Anche in viaggio i deja vu si sprecano. È il 2 agosto e siamo all'ennesima contrattazione per prendere un mezzo che ci porti dove vogliamo.. A Tanjung Batu la conoscenza dell'inglese è confinata alle espressioni “Hello mister” e “speedy Boat”. È quindi una piccola impresa per noi partire e arrivare prima a Derawan e, dopo un po' di foto, a Maratua.
Sul pontile in legno dove ci lasciano capiamo che siamo arrivati in un piccolo paradiso terrestre. Dopo un attimo di smarrimento e contemplazione, il nostro Caronte ci indica una casa dietro le palme per poter dormire. In realtà dormiremo nella casa di fronte, in due stanze separate, una che prima del nostro arrivo era di un gatto e l'altra di qualche membro della famiglia. Sì perché a Maratua, o almeno nella parte di Maratua in cui siamo sbarcati, non ci sono ostelli, pensioni o hotel. A dirla tutta mancano proprio tante cose, ma palme, mare da sogno e sorrisi ci ripagano di tutto. Un altro deja vu.

Quel “se buttamo su un'isola” ripetuto nei vari viaggi si è finalmente avverato. Siamo un po' schiavi felici lontano da tutto e tutti. Ed è proprio in quel mare da sogno che subito ci immergiamo e nuotiamo tra coralli e tartarughe giganti. La sera ceniamo nel posto che più somiglia ad un ristorante e quando il nasi goreng è quasi finito parliamo con l'unico altro cliente ufficiale del posto. Il cliente è un uno studente dell'università di Jakarta che è nell'arcipelago per studiare un modo per sviluppare il turismo su questo paradiso, senza farlo diventare un inferno. Ci sono altri sei studenti sparsi sull'isola che hanno il suo stesso compito. Allora ridiamo e scherziamo sul fatto che il nostro gioco sarà trovare gli altri sei studenti. Il soprannome del ragazzo viene quasi naturale: sette sfere. Approfittiamo di Sette sfere per chiedere tutto quello che non abbiamo capito di Maratua. Finalmente sappiamo da che parte stiamo. Sette sfere prova anche a farci portare dall'altra parte dell'isola (secondo la lonely planet più organizzata) e per fare questo rinuncia alla sua cena lasciandola ad un gatto che già da diversi minuti ci aveva puntato, ma la presenza degli spiriti sulle collinette (ah, chiamale collinette) fa desistere tutti. Allora decidiamo di concludere il nostro primo giorno di paradiso andando sul pontile su cui eravamo sbarcati.

C'è mezzo villaggio: Il pontile è il loro struscio, i loro portici. La sostanziale differenza è che qui non c'è bisogno di apparire per quello che non si è. E non servono aperitivi e finti sorrisi. Ci sono bambini che provano a pescare, giovani con i motorini, meno giovani che parlano e persone che guardano. Il sole, la luna e le stelle. Eccolo… l'ultimo deja vu. Mi ricordo di quando anni fa a Tangeri una coppia di vecchietti dal Marocco osservava in silenzio la Spagna e il loro sguardo sognante sembrava unire due mondi così diversi. Cosa sogna la gente qui non lo immagino e in fondo non conta… quello che sogno io,invece, lo so fin troppo bene…



Il secondo giorno a Maratua comincia con un piatto di riso. Sette sfere ci ha prenotato una barca che ci porterà da Senterbung, villaggio spartano in cui abbiamo dormito, a Bohesilian che, per la Lonely planet, è il non plus ultra dell'organizzazione in questa parte di globo. In realtà Bohesilian si mostra forse più carino, ma decisamente più selvaggio e senza un pontile che sia testimone delle vite e dei sogni di queste splendide persone. La home stay in cui dormiamo non ci prova neanche ad “elevarsi” alla categoria di ostello. Nella nostra camera ci sono i vestiti, i poster e gli oggetti dei precedenti e futuri abitanti. Mangiamo biscotti fatti in casa e la doccia ritorna ad essere un secchio. Troviamo anche un'altra delle sette sfere. Decidiamo di passare una notte sola (ma due giorni quasi pieni) per poi ritornare a Senterbung con il suo pontile. Impieghiamo questo tempo facendo snorkelling, nuotando tra mante meduse e coralli. Le ali delle mante dalla barca sembrano pinne di squalo ma l'invito a buttarci ci rassicura un poco. E facciamo pace con il mondo e con noi stessi quando vediamo che si può volare sott'acqua. In una pausa tra un'immersione e l'altra facciamo gli scemi facendo un po' di tuffi. Io sono per le capriole, Maccarone per il cufaniello. Poi mi allontano un attimo dal gruppo ed entro in un villaggio di cui ignoro il nome. Ho solo il costume, lo zaino e la macchina fotografica. Delle bambine si sistemano i capelli a vicenda. I bambini fanno smorfiacce per poi rivedersi nel display. Qualcuno dorme. Qualcun altro sogna.







La gente continua a regalarmi sorrisi, “Hello Mister” e “terima Khasi”. Mi ringraziano perché li fotografo e perché sono venuto a trovarli da molto lontano. Non ho mai capito tanta riverenza. Al loro cospetto mi sento piccolo e in cuor mio so che sono io che devo ringraziare loro. Comunque non ho mai capito cosa alcune persone vedessero in me e nei miei occhi e neanche cosa non ci vedessero altre (per cui avrei dato tutto me stesso). La barca in serata ci riporta a Senterburg e così evitiamo un'altra volta spiriti e collinette. Decidiamo di cambiare però Home stay, giusto per battere il record mondiale di posti in cui dormire in una vacanza di tre settimane (17 o 19 se vogliamo contare le notti in aereo). Quella che non cambieremo, però, sarà il modo in cui trascorrere la serata. Ancora il pontile con la sua vita. Gente che ride. Gente che non vuole la luna, perché nel niente che ha c'è già tutto. I bambini giocano a rincorrersi sulla spiaggia. Giorno notte e pensieri pure…




È il 5 Agosto, ed è “forse” l'ultimo giorno della nostra vacanza da ottantenni (cit. Pasanisi). È strano ricordare come non volevo partire ed è strano constatare come non vorrei tornare. Mi sento protetto, al sicuro, su questa isola sperduta vicino l'equatore.
Nella mia fine, diceva Aghata Christie, c'è il mio principio. Ed è qui che tutto finisce, che tutto ri-inizia.
Io e Macca ci dividiamo dal resto del gruppo. Affittiamo due biciclette e decidiamo di raggiungere Bohesilian e conoscere finalmente le famose collinette con tanto di spiriti Al primo strappo stile Mortirolo (chiamale collinette) malediciamo sette sfere Arriviamo a destinazione letteralmente mani e piedi dopo diverse centinaia di foto e pedalate. Siamo stanchi, sudati, dispiaciuti per non aver visto gli spiriti e senza possibilità alcuna di pranzare. Decidiamo quindi di trovare qualcuno che con un mezzo ci riporti indietro. Lo troviamo piuttosto facilmente e in men che non si dica siamo nella nostra camera del nostro Home stay. Mi spoglio, esausto, con la sola voglia di dormire un po'. Macca invece esce un attimo e subito rientra. Ha dalla sua una proposta che secondo lui non posso rifiutare: una partita a undici all'equatore alle tre del pomeriggio. Dopo una mattinata in bici e venti giorni di stenti e privazioni. Uno sguardo, qualche parola, e alla fine ci ritroviamo nel campo da calcio. Volevamo scarpini e pantaloncini e ci hanno dato solo una maglietta tarocca della nazionale indonesiana. C'è il pubblico, la telecronaca e una musica beffarda che dice “we are young”. E poi c'è un arbitro di nostra conoscenza: Settesfere. Capiamo che è un torneo a 4 squadre (forse i villaggi dell'isola?) e indoviniamo che la nostra è la più scarsa. Forse perché invece di riscaldarsi qualcuno fuma o forse perché siamo l'unica squadra con le magliette tutte diverse. Se non abbiamo visto gli spiriti prima, beh, forse ora è arrivato il momento giusto per conoscerli…
Resistiamo quel che possiamo poi i nostri avversarsi cominciano a prenderci a pallate. È dura giocare con questo sole. Eppure dovrei ricordarmi che una volta mi chiamavano Marronaldo, ma questo è successo una caviglia e mezzo fa. Quello che invece mi passa nella testa durante la partita è tutto e il contrario di tutto. Penso che il calcio, o meglio lo sport in generale, unisca.
Penso che non sempre vince il migliore, ma spesso sì. Penso che si possa uscire a testa alta da una sconfitta e a tasta bassa da una vittoria. Penso che fa dannatamente troppo caldo e forse sto rischiando un infarto. Penso che andrò in palestra con più regolarità. E penso anche che sia naturale avere buoni propositi dopo tre settimane del genere: l'importante sarà impegnarsi affinchè i condizionali diventano imperativi. Penso che non capisco perché qualcuno critica questa modalità di viaggio.Penso che non conta dove si parte, ma dove si arriva, e il guardare avanti di questi paesi senza smettere di guardarsi dentro e dietro mi piace da matti. Penso anche che sia difficile conservare questo sguardo molteplice, ma sia giusto provarci.
Penso che esagerino le ragazzine ad urlare così tanto quando abbiamo la palla io e Paolo. Penso anche che sia esagerata la telecronaca, ma è troppo divertente. Forse ci vedono per quello che pensano che siamo e non per come siamo veramente. E in questo magari fanno il nostro stesso errore. Che viviamo di possibilità, e non di realtà: la ferrari in garage e le chiavi chissà dove. Penso anche che forse dall'altra parte di questo pontile mi converebbe essere più cattivo, irruento, cupo e viziato. So bene che forse otterrei di più, ma, dopo tutto, penso che non ce la farei. Non sono quello che sono per quello che ottengo, e non so quanto giusto sia cambiare per ottenere qualcosa di diverso. Penso piuttosto che prima o poi la propria natura presenti il conto. Penso che non si dovrebbe pensare durante una partita e mi viene in mente che forse un'identità italiana, che unisca Milano,Roma e Palermo stia nel non saper accettare una sconfitta a calcio. Per questo penso, nel momento in cui Macca mi lancia, che Marronaldo per un attimo possa ritornare. Dribbling secco e colpo di un difensore a quel che resta della caviglia. In quell'attimo ho la percezione che il rigore è netto, ma so che ce la farei a restare in piedi. Cado e mi sento in colpa. Settesfere assegna il rigore. Nessuno protesta. Il difensore si scusa. Guardo la caviglia (o quel che ne resta) che, come il cuore (o quel che ne resta), sanguina. Faccio pace con me stesso e penso all' ultimo torneo fatto, che risale al mio tirocinio post lauream. Giocavamo a calcetto e ogni centro di salute mentale poteva schierare soltanto un operatore per squadra. Arrivammo in finale, che nella migliore tradizione italiana, si decise ai rigori. Torno a Maratua. Macca segna il rigore, ma comunque perdiamo e di tanto. Il fischio di Settesfere, come si dice in questi casi, è davvero una liberazione. Recupero la via della home stay. Mi guardano come fossi un dio greco o un alieno. Questa volta, mi dico, si dorme veramente. Invece bussano ancora alla porta. Sono i compagni di squadra per un giorno che mi vogliono regalare la maglia dell'Indonesia con cui ho giocato la partita. Io, che porterò in Italia ben più di una maglia, provo a rendere il favore. Di sicuro c'è tempo per un ultimo deja vu.
Sempre il torneo del tirocinio di qualche anno fa. Di quei mesi fatti di duplici impegni, giardini senza tempo, incontri in macchina, abbagli, sfizi e momenti difficili che si incontravano con un'anima e un po' di sogni. Sarò pazzo io, ma c'è del grottesco in questo. Tutto torna. Anche il rigore segnato in finale, che però non evitò la sconfitta. E anche la maglia regalata. Un difensore che mi era stato incollato tutta la partita mi si avvicina e mi fa i complimenti. Mi chiede se voglio scambiarmi la maglia con lui e io accetto volentieri. Poi timidamente mi chiede qualcosa… sapendo già la risposta.
“Tu sei l'operatore vero?”
“Così mi hanno detto… ma non ne sono sempre sicuro…”










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avatarjunior
inviato il 20 Ottobre 2020 ore 9:45

bello!!!!!!!!!!!!!!!!
MS

avatarsupporter
inviato il 18 Marzo 2021 ore 15:55

Complimenti Marro...
Foto davvero belle, emozioni e scenari che dicono tutto, racconto da grande maestro...

avatarjunior
inviato il 04 Aprile 2021 ore 11:35

Grazie Mille Giacomo!





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