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Pedalando Aotearoa


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Pedalando Aotearoa, testo e foto by Utente Non Registrato. Pubblicato il 09 Settembre 2011; 0 risposte, 3609 visite.





Sono trascorse sette ore da quando ho lasciato Omarama questa mattina di buon'ora. La sera precedente il cielo sovrastante il paese mi aveva regalato il più commovente tramonto degli ultimi due mesi: le nuvole che lo coprivano a macchia di leopardo si erano infuocate con il calar del sole all'orizzonte. Nell'arco di un'ora accesi colori estivi si erano susseguiti sulla mia testa passando dall'arancio intenso della polpa di una succosa nettarina appena colta al rosso carminio del sangue di una ferita profonda, terminando il loro spettacolo cromatico con un tenue violetto dei freschi campi di lavanda della Provenza. Il vento che soffiava imperterrito aveva modellato i nembi plasmandoli in fantasiose forme neorealiste raffiguranti festosi volti umani, spaventati animali in fuga e contorti alberi frondosi. Ero andato a dormire ottimista come sempre ma consapevole che i forti venti da nord-ovest che da circa una settimana spazzavano la regione del Central Otago ed il MacKenzie Country avrebbero soffiato costantemente anche il giorno seguente, rallentando la mia avanzata e facendola divenire piu' dura e sofferta. La simpatica e chiacchierona receptionist del campeggio in cui pernottavo mi aveva inoltre anticipato la possibilità di temporali e pioggia sull'Aoraki/Mt. Cook National Park, meta del giorno successivo.




Ora, dopo meno di settanta lunghissimi e lentissimi chilometri, ad oltre trenta dal villaggio che mi dovrebbe ospitare per la notte, il mio ottimismo è crollato sotto i tacchi e la stanchezza sta per sopraffarmi. Eppure quando il compassionevole autista di un bus si ferma per offrirmi un passaggio, io rifiuto orgogliosamente cercando di celare meglio possibile la spossatezza con un sorriso che deve essere apparso come il ghigno di un leone affamato da giorni di digiuno nella savana africana.
In fondo come potevo accettare? A bordo del veicolo ci sono numerose coppie che ho incrociato al mattino, sfreccianti nel vento favorevole su tecnologici tandem colorati: "Hey ragazzi, la vostra avventura all inclusive con una trentina di chilometri al giorno in bicicletta, rigorosamente nella direzione in cui soffia il vento e possibilmente con una bella discesa nel mezzo, senza nemmeno un metro di salita, con un buon pranzo servito che vi aspetta ed il bus che vi trasferisce alla meta successiva...non fa per me: io sono un duro e non mi voglio mischiare con voi ciclisti della domenica."...che stupido! L'autista mi ha appena superato e già mi pento di non aver accettato l'offerta! Il vento piega gli alberi ad angoli acuti, facendoli apparire instabili come se da un momento all'altro si dovessero staccare dal suolo che li ospita. Da circa un'ora inoltre la pioggia ha iniziato a sferzare la valle formatasi dopo l'ultima era glaciale con il ritiro del Tasman glacier, tutt'oggi il più grande ghiacciaio del paese. Nel suo recedere esso ha lasciato ai suoi piedi un
enorme bacino lacustre, il lake Pukaki.







La strada che conduce ai piedi delle alte vette alpine costeggia la sponda occidentale del lago le cui acque assumono una colorazione turchese irreale, effetto della riflessione della luce sulle minuscole particelle solide sospese al suo interno. Questa caratteristica mi fa tornare alla mente la meta di un altro vagabondaggio a due ruote: il lago Argentino nel Parque National Los Glaciares della patagonia meridionale, nelle cui acque brillanti si gettano i ghiacciai Perito Moreno e Viedma, ai piedi di montagne mitiche per noi italiani quali il Cerro Torre ed il Fitz Roy. Questo pensiero mi consola perchè si accompagna al ricordo della sconfitta (metaforicamente parlando) subita in Sud America in una giornata simile a quella odierna. Altro aspetto che accomuna i due luoghi è infatti il forte vento ed anni prima avevo issato bandiera bianca contro di esso dopo pochi chilometri: i quaranta ruggenti mi avevano respinto, ricacciandomi in paese dove appena arrivato alla stazione ero salito su un autobus, risparmiandomi molta fatica, ma negandomi anche la gioia e la soddisfazione che ti colgono una volta al riparo nella tua tenda alla sera.
Per il momento però la tenda è soltanto un miraggio lontano, indefinito tra le nebbie che mi circondano, dominato da pensieri e domande. In momenti come questi spesso mi chiedo "perché?", chi me lo ha fatto fare di saltare in sella ad una bicicletta, buttarci sopra venti o trenta chili ed iniziare a pedalare lungo le strade sconosciute di un paese straniero? La risposta arriva solitamente inaspettata poco più tardi, a volte l'attesa si protrae fino al giorno seguente. Un arcobaleno che si fa strada fra le nubi, un opossum che attraversa qualche metro davanti alle mie ruote, uno stormo di anatre in formazione che mi sorvola, una cascata formata dal diluvio di cui sono vittima (o a cui ho la fortuna di assistere), un cielo azzurro come sfondo di vette innevate e ghiacciai dalle mille
sfumature del blu. La natura è sovrana e un viaggio pedalando mi rende pieno testimone della sua potenza, facendomi in un certo senso regredire a tempi pre-industriali, lenti e meditati. Se avessi potuto scegliere, avrei preferito nascere in tempi passati in cui le nostre gambe erano l'unico motore disponibile e l'unico aiuto veniva da cavalli, asini, cammelli, buoi... Il tempo non aveva il ritmo dato dalle lancette di un orologio ma era governato dalla luce del sole e dalle tenebre notturne.




Viaggiare in bicicletta crea in me l'illusione di poter rallentare il tempo, farlo scorrere secondo ritmi antichi vivi ancora in molte civiltà contemporanee ma oppressi e schiacciati nello sviluppato etecnologico "mondo occidentale".
Immerso in mille pensieri giungo al villaggio: un enorme albergo dalla cima di una collina domina la piana circostante dove sorge qualche altro sparuto edificio. Il campeggio, poco più di un'enorme distesa prativa riparata dalla "collina del cavallo bianco", si trova ulteriori due chilometri a nord. La strada sterrata è divenuta una poltiglia fangosa che aggiunge difficoltà al mio già complicato
incedere. Impiego venti minuti abbondanti a percorrere la distanza che mi separa dalla capanna che ospita i bagni pubblici. Qui mi riparo un momento sotto la tettoia sovraffollata di escursionisti scesi velocemente dalle vette circostanti che io posso solo immaginare nei racconti dei presenti. Una rapida ispezione mi porta a scegliere un angolo riparato da fitta vegetazione per montare la tenda ma una volta terminato il montaggio scopro di dover asciugare due dita di acqua al suo interno. Il problema non viene dal cielo, dato che il telo protettivo esterno sembra reggere l'intensa precipitazione, ma quando faccio un po' di pressione sul nylon che costituisce il pavimento, il terreno saturo d'acqua la rilascia in quantità tali da formare piccole pozze nella mia alcova. Mi sistemo come posso sfruttando un paio di sacchi neri della spazzatura che mi aiutano a rinforzare l'impermeabilità del fondo e, cercando di distribuire il peso sulla più estesa superficie possibile, mi sdraio per riposare.

Non posso dire sia stata la nottata più riposante della mia vita ma verso mezzanotte la pioggia ha smesso di ticchettare sulla volta della tenda e quando sono uscito verso le due del mattino per andare al bagno, il cielo era magicamente stellato e la via lattea lo attraversava impreziosendolo. Il mattino seguente il sole splende e le nuvole sono scomparse rivelandomi il magnifico paesaggio
che mi circonda. Infilo le scarpe da ginnastica e preparo un veloce panino che butto nello zaino e lascio la tenda in direzione est. Dietro la collina del "cavallo bianco" la Hooker valley si insinua tra le Alpi neozelandesi puntando dritta verso le sue vette più alte. Sono sufficienti venti minuti di camminata per raggiungere un ponte tibetano che permette di attraversare il torrente che scorre sul
fondovalle. Poco prima una stele piramidale ricorda le decine di vittime che qui come su tutte le vette del mondo hanno pagato il prezzo più alto per il loro profondo amore per la montagna e la natura. Ancora qualche centinaia di metri e il panorama diviene grandioso: l'Aoraki (3753m) domina incontrastato al centro della cornice naturale creata dalla catena alpina. Tutt'intorno scendono dai pendii numerosi ghiacciai lasciando scoperti ai loro fianchi ampi costoni di roccia levigata, dimostrazione della loro repentina ritirate degli ultimi anni. Anche qui come su gran parte del globo, i cambiamenti climatici si fanno sentire pesantemente riducendo a brandelli quello che un tempo era un plateu ghiacciato immenso. Proseguo fino a giungere sulle sponde del lago Hooker, ai piedi occidentali del mt. Cook (nome dato all'Aoraki ai tempi della colonizzazione britannica in onore di colui che esplorò e cartografò questa nazione nel XVIII secolo), dove sosto per una pausa ammirando il paesaggio incantevole in cui sono immerso.







Il giorno successivo affronto un'escursione sul versante opposto della catena montuosa, dove il Tasman glacier ha creato una enorme vallata. Anche qui è impressionante vedere come il ghiacciaio più grande di Nuova Zelanda, celato sotto qualche metro di detriti rocciosi che esso si porta dietro nel suo incedere verso valle, abbia subito un repentino ritiro. Ai piedi del suo fronte si è creato un
enorme bacino lacustre punteggiato di iceberg. Questo lago (lake Tasman) non esisteva fino al 1973 ed oggi ha un'estensione di 7x2 km ed una profondità di circa 250m. Lascio la MTB ai margini meridionali del lago e mi inoltro sul sentiero che ne risale la sponda occidentale. Il mt. Cook sulla sinistra fa da sentinella mentre altre numerose vette oltre i 3000m si intravvedono all'orizzonte.
Mentre cammino sui detriti, penso alla coincidenza che mi ha fatto giungere qui soltanto un paio di giorni dopo la scomparsa di sir Edmund Hillary, l'alpinista che nel '53 conquistò l'Everest insieme a Norgay Tenzing e che su queste vette si allenava quotidianamente. Questo nerboruto alpinista era diventato un simbolo per il popolo neozelandese, non tanto per la conquista del tetto del mondo,
quanto grazie al suo successivo impegno per le popolazioni tibetane. Egli rappresentava pienamente lo spirito kiwi, altruista e riservato, costruito nella consapevolezza di poter contare su se stessi ma anche sui propri connazionali.
Rientro alla tenda in bicicletta dopo aver esplorato l'area del lake Tasman ed il tramonto sopraggiunge mentre mi sto avvicinando al campeggio. Alzo lo sguardo e l'ultima luce del giorno mi stupisce illuminando la vetta dell'Aoraki/mt. Cook, conferendole forza ed isolandola dal resto del paesaggio. Nessun altro addio sarebbe stato migliore!






Leonardo Corradini scrive di sè: "Viaggiare e fotografare è ciò che amo e ciò che cerco di fare ogni volta che posso. Saltare in sella ad una bicicletta e pedalare nel silenzio della natura incontaminata mi regala le medesime emozioni che un bambino prova nello scartare un regalo a Natale: attesa, speranza, curiosità, desiderio, stupore, gioia...
Ecco perché raggiungo il più completo appagamento quando posso coniugare queste tre grandi passioni come ho fatto in Nuova Zelanda. La scoperta della fotografia naturalistica ha fatto sorgere in me la coscienza nella bellezza del mondo che ci circonda e la consapevolezza nel suo fragile equilibrio sempre più instabile ed effimero. Viaggio dunque per conoscere e fotografo per condividere ciò che apprendo... perché come disse S. Agostino: Il mondo è un libro e chi non viaggia legge solo una pagina. E sempre per condividere le mie esperienze ho creato alcune pagine web: Life in Travel (http://www.lifeintravel.it), da cui è
anche possibile scaricare il libro Pedalando Aotearoa da cui è tratto il presente articolo.




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