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Camera Mentis


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Camera Mentis, testo e foto by Utente Non Registrato. Pubblicato il 09 Settembre 2011; 0 risposte, 3412 visite.





Il lavoro, immersi nella città di Roma, è spesso stressante. Roma non è una megalopoli da dieci milioni di abitanti, ma stanca comunque, e fuggire via, abbandonando traffico, semafori, smog, abitudini, rumori e caffè affollati, diventa un imperativo.
Così, me ne allontano, quando posso. Non sempre, ma spesso.
Centoventi chilometri mi portano a Terracina, adagiata sul mare. Niente esotismi o bellezze mozzafiato: solo una cittadina di provincia. Porto con me la reflex. Weekend dopo Weekend. Mi sento piuttosto limitato però: percepisco una cronica mancanza di soggetti e opportunità. Weekend dopo Weekend. Frustrazione. Lascio la macchina in un vicino parcheggio. D'inverno, qui, sono tutti liberi. Stringo tra le mani la reflex, ma non la uso. Mi guardo attorno, annuso, rallento i miei passi. Mi fermo. Il mare è agitato. Continuo a osservare. Onda dopo onda.







Passeggio sul lungo pontile, o sui contrafforti di pietra posti a sua difesa, mi soffermo ad osservare l'infinito rovesciarsi di onde su se stesse, o sul vicino bagnasciuga. Fisso il loro perenne rincorrersi, tra cadute di acque spumeggianti e risalite verso lunghe rincorse, in attesa di nuove ricadute; tra il brontolio del vento e il fragore di gonfi marosi; tra l'odore penetrante di acque salmastre e spruzzi di goccioline fredde sul viso, e sull'obiettivo... Tra linee fuggenti di orizzonti lontani e ritrovati, e coltri di nuvole in fuga.
Eppure, questa potenza, questa ossessiva presenza di acque vorticose, avvolte talora da plumbei cieli, non induce in me, agitazione o timore; non mi spinge alla fuga e non eccita il mio animo. Piuttosto lo quieta, lo placa, direi - lo distende, mentre affascinato e silenzioso, osservo...
L'interminato movimento di onde rovesciate su onde, tutte le annulla, le dissolve, le sfuma in uno specchio d'acqua appena mosso, appena sfiorato dai venti. Questo, è ciò che la mia mente vede, e ciò che la mia reflex, deve fissare. Osservo. Le onde si susseguono. Ipnotizzato le osservo. Non mi viene in mente di scattare. Eppure sono lì per questo. Dubito della capacità di riuscire a restituire, per mezzo di una fotografia, le percezioni che si muovono nella mia mente. La fotografia è insufficiente?

"Questo" è ciò che la mia reflex deve registrare, dunque. Non un paesaggio, ma l'effetto che il paesaggio ha nella mia interiorità. Non ciò che gli occhi vedono, ma ciò che vedo con gli occhi della mente. Ma come trasmettere in una fotografia questo "vedere" e queste sensazioni di abbandono e pace interiori?
Rifletto? Cerco soluzioni? Inseguo risposte? Poi, improvvisa, un'idea si fa strada. Incrina sottilmente lo scetticismo che mi impedisce di provare anche un solo scatto. Non ho la certezza che possa valere qualcosa. Ma si può tentare. Si può uscire dall'impasse. E potrebbe funzionare. ?sì, potrebbe funzionare: tempi lunghi, tempi lunghi e cavalletto. Ecco cosa serve.


20 gennaio 2007




Ho con me il cavalletto e la reflex. Pomeriggio inoltrato. Nuvole ampie, e basse, ma che non coprono interamente il cielo. E non fa freddo. Sembra un inverno figlio della primavera. Sistemo il cavalletto a cinque metri dal punto dove le onde si rovesciano su scogli artificiali. So cosa fare. Imposto il valore iso a 100 e chiudo al massimo l'otturatore: mi servono tempi lunghi. C'è troppa luce, non riesco a ottenere i tempi di esposizione che desidero. Servirebbe un filtro neutro, ma naturalmente non è nello zaino. Non resta che aspettare. Nel frattempo preparo qualche inquadratura e provo qualche scatto. La luce, piano, cala, e i tempi si abbassano. Scatto con calma. Le onde ripetono perennemente se stesse, instancabili. Le opportunità non mancano? Adesso, no. Arrivo a dieci secondi di posa, poi a venti e a trenta. Imposto questo valore in priorità di tempi. Provo anche la posa B. Ma rinuncio. La Canon 350D mostra i suoi limiti: impiega troppo tempo a registrare il file sulla compact flash. Forse devo intervenire sui parametri. Ma non c'è tempo. Cambio inquadratura più volte, per molti scatti. In genere non scatto a raffica, mi sembra inutile. Oggi lo faccio, benché ci voglia almeno un minuto tra uno scatto e l'altro. Controllo nel display: le foto sembrano strane, ma buone, almeno alcune. Torno a casa di buon passo, ma senza fretta. Del resto sono solo fotografie.




Al computer la sorpresa. Mi piacciono, e almeno un po', mi soddisfano. Almeno in prima impressione. Ho ottenuto l'effetto che desideravo: i tempi di esposizione lunghi fanno sì che le onde si sovrappongano alle onde e che tutte perdano la propria specifica identità, a vantaggio di un'immagine sfumata, dove, talvolta, l'acqua sembra trasformarsi in nebbia evanescente e leggera. O perda la sua trama ondosa in una uniformità che ne esalta il dinamismo e il colore contemporaneamente. Osservo questa immagine in particolare (Scogli nella sera3): lo faccio a lungo, chiedendomi se essa è in grado di esprimere quel senso di abbandono e di distensione che desideravo ottenere. Sì.


21 gennaio 2007

Il giorno dopo, con zaino e cavalletto, torno nelle vicinanze del sito che ho visitato prima.
Non ho molto tempo. Il mare è più mosso di ieri. Una lunga spiaggia si apre stavolta davanti a me in una ampia lontana ansa: è il lungomare. I flutti avanzano da sinistra verso destra, sul basso fondale, incessantemente, rovesciandosi sulla spiaggia. Sembrano spinti da un motore cosmico, tanto continuo e senza posa è il loro rumoroso avanzare.
Sullo sfondo, le luci dell'illuminazione stradale costeggiano la spiaggia, e il "grattacielo", che sembra rappresentare un naturale punto di fuga su cui costruire la foto. Compongo l'immagine, per trenta secondi di posa, per poi rimanere colpito dall'effetto. I flussi delle onde hanno perso le singole individualità, sono diventati colori sfumanti nelle tonalità vicine, conservando le linee del movimento. Per una foto che può non piacere, ma che raggiunge l'obiettivo che desideravo (Lungomare a sera1). Con la reflex a mano libera, e il grandangolo, eseguo quest'ultima posa (Tramonto sul Circeo).





3 febbraio 2007

Dopo qualche giorno di pausa, torno sul lungo pontile in grossi massi che difende il porto. Il finto inverno continua. Riesco a sistemare il cavalletto su un pietrone piatto e asciutto, a un metro dal punto di caduta di ondine quasi estive, là dove in altri anni sarebbe stato impossibile. L'aria è mite, ma poco limpida. Al solito, il silenzio è spezzato solo dal ritmico, debole, sciabordio del mare appena increspato. Aspetto che il sole declini gustandone il debole ma percettibile calore sul viso. Nel frattempo scatto: scogli affioranti, flussi d'acqua che cercano, sinuosi come anguille, la strada tra ammassi di rocce e sabbia. Mi scopro immobile, a fissare un punto indistinto sull'orizzonte. I tempi di esposizione lentamente si allungano sempre più, e la reflex continua a fare il suo lavoro. Ma la luminosità, nella mia percezione del tempo, persiste di là dalle mie attese. Mi guardo attorno, e comprendo. C'è poco dinamismo, oggi, troppa calma? Il mare, è troppo calmo.





10 febbraio 2007

Se c'è vento a Roma, c'è vento ovunque. E dunque, si parte. Percorro l'autostrada, ricolma fino all'orlo di traffico, con un leggero grado di ansietà. Il sole, declina presto verso il suo traguardo e non vorrei giungere troppo tardi, con una luce oramai troppo tenue per garantire le riprese. Arrivo, però, largamente in anticipo e la calma mal dissimulata del viaggio, dilegua, mentre monto il cavalletto, a vantaggio di una quiete che avvolge i miei pensieri e il mio trafficare attorno agli obiettivi. "Una spiaggia dice sempre molte bugie". Non so capire il motivo per cui mi vengono in mente le parole di Hemingway, tratte da un romanzo che leggevo nei giorni dorati di tanto tempo prima. Forse per contrasto? Forse perché oggi il mare, e la spiaggia, e il vento, e le onde, sembrano comunicare, con la loro superba potenza, tutto, tranne bugie.




Il vento è forte, le onde alte e lunghissime, gonfie, spumeggianti e fragorose. E' la giornata che aspetto. Sull'obiettivo monto il paraluce, che finisce col servire come paraspruzzi. Ammiro quella potenza a cui, credo, sia stato dato l'appellativo di sublime? E inizio a scattare le mie fotografie. Ho il tempo di provare, con valore Iso elevato, a congelare qualche flusso ondoso; ma il "rumore" è troppo elevato, come dimostrerà la visione su schermo. Così la scelta dei tempi lunghi di esposizione, continua a essere l'unica. Il vento forte, muove, con le sue folate, il cavalletto. Sicuramente molte immagini non saranno leggibili. Continuo a scattare incurante. Provo e riprovo. Cambio inquadratura. E ancora riprovo.
Nel mirino, osservo i riflessi sull'acqua ondeggiante di alcuni lampioni che, rispetto al mio punto di vista, si muovono vorticosamente alla mia destra e alla mia sinistra, seguendo il movimento dei flutti. Mi domando, cosa verrà fuori nei trenta secondi di posa. Controllo: sorpresa! Il movimento viene fissato solo sulla retta che unisce l'origine della luce, all'obiettivo della macchina. L'effetto, unito al sovrapporsi dei marosi, amplifica la sensazione di immobilità e di quiete già messo in evidenza dal movimento sfumato delle onde. In altri scatti osservo la trama disegnata, per stratificazione, dai frangenti che incessantemente si susseguono l'uno all'altro. In altri ancora, mi soffermo sulla punta estrema del molo, imbiancata da spruzzi, e protesa verso le lontane luci di Sperlonga, in un intenso blu notte.




Guardando l'insieme delle pose, mi accorgo che quella "profondissima quiete" che tentavo di evocare come specchio della mia mente, si è trasferita nelle immagini. La fotografia è diventata uno specchio, o forse uno specchio trasparente. Essa riflette una natura, e il sublime che in quel momento la agita, lasciando trasparire ciò che si pone dietro, oltre, la natura stessa. Le fotografie che seguono sono state realizzate in tempi successivi. Alcune presso un sito un po' particolare, forse. La Grotta delle capre, presso il promontorio del Circeo. Teatro dell'incontro tra Ulisse e la maga Circe.
L'ultima fotografia (Canne da pesca sul molo) la scatto nei giorni in cui compongo questo articolo. Quasi a voler ravvivare i giorni di quando sperimentavo per le prime volte. La presenza delle canne da pesca non mi disturba: la natura e l'uomo, rappresentano un binomio difficilmente scindibile. E' sicuramente possibile escludere la presenza dell'uomo nell'inquadratura, isolando la sua presenza, o cercando luoghi inaccessibili e da lui non toccati. Ma a comporre l'inquadratura, sarà comunque e sempre l'uomo. Con le sue scelte, le sue inclusioni e le esclusioni. Forse per questo, nel domandarmi se la mia interpretazione della natura, trasforma o svilisce la natura stessa, trovo una risposta netta: no. La Natura che ho provato a descrivere è Natura vera, accogliente, consolante e viva. Per questo, degna di essere amata, rispettata, e ripresa.



Salvatore Alessi vive e lavora a Roma. Scrive di sè: "La macchina fotografica non è la mia compagna inseparabile? Tuttavia essa è una buona compagna, sempre disponibile del resto, e dotata di grande pazienza. Ho cominciato a fotografare per gioco e per gioco continuo a farlo. E con le stesse intenzioni, costruisco il mio sito?" www.salvatorealessi.it



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