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America Del Nord


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America Del Nord, testo e foto by Andrea Pozzi. Pubblicato il 06 Settembre 2011; 0 risposte, 7861 visite.





Monument Valley, Arizona - Canon 50D, 17/40L (f/13, 1.0, iso100, treppiede, polarizzatore)

Dopo il lungo viaggio in Sud America dell'anno passato, ho voluto replicare cambiando emisfero e provando la salita dagli States continentali, più precisamente dal confine col Messico (San Diego) fino a Fairbanks in Alaska, seguendo la leggendaria Alaska Highway una volta giunto in Canada. Ho visitato gli stati di Washington, Oregon, California, Nevada, Arizona, Utah, Idaho, Wyoming, Montana, British Columbia, Alberta, Yukon, Alaska; tra i parchi Nazionali e siti principali: Olympic National Park (WA), Crate Lake National Park (OR), Yosemite National Park (CA), Joshua Tree National Park (CA), Death Valley National Park (CA), Grand Canyon (AZ), Antelope Canyon & Horseshoe Bend (AZ), Monument Valley (AZ), Bryce Canyon National Park (UT), Zion Canyon (UT), Canyonlands National Park (UT), Arches National Park (UT), Grand Teton National Park (WY), Yellowstone National Park (WY), Glacier National Park (MT), Banff National Park (AB), Jasper National Park (AB), Kluane National Park (YT), Denali National Park (AK), Katmai National Park (AK).

Il tutto in auto, alloggiando in motel durante la prima tratta più turistica nel sud e dormendo in auto (Chevrolet Suburban) durante l'avventura verso il Grande Nord. Un totale di 409 ore di guida e poco più di 30.000km percorsi. Il viaggio, come elencato, ha compreso parecchie tappe. Per questo motivo proverò ad esporre i momenti più salienti e veri presi dal diario di viaggio, in cui mi sono reso conto ancora una volta che viaggiare è quanto di meglio esista a questo Mondo. Buona lettura!





Cannon Beach (Oregon) - Canon 50D, 17/40L (f/16, 0.3, iso100, treppiede, polarizzatore)

Fine di maggio a Cannon Beach, il tramonto è alle porte e io ho fame come non mai di emozioni, l'Oceano sarà mio per ore. La fredda e frastagliata costa dell'Oregon ha deciso che sarà amore a prima vista. Mi appare l'isola dei sogni, la identifico con l' "Isola che non c'è", forse perché non mi sembra possibile che il delicato specchio che si crea sulla battigia possa raddoppiare la già straordinaria unicità del luogo. Sono stato colpito a freddo, non mi ero ancora ambientato e il regalo è stato pressoché inaspettato. La costa è aspra, la primordiale e verdissima foresta sembra voler entrare a far parte del più vivace mondo marino, gli schiaffi dell'Oceano agli scogli non sono mai dolci, ma le rocce difendono la loro posizione privilegiata di protagoniste quando, al calar del sole, fanno amicizia con Nettuno e preparano uno spettacolo di colori, suoni e profumi che la mente incastona in modo inevitabile. L'Oceano è nervoso, i boati sono tangibili, quando il Sole decide che è giunta l'ora di risplendere non più su questi luoghi incantati. Io faccio fatica ad uscire dalla cornice, si, perché la Natura ti contagia, ti rende partecipe ed io inesorabilmente finisco nell'essere inghiottito in questo magico calderone. Se la costa dell'Oregon è stato l'antipasto della mia avventura, credo che i brividi non mi lasceranno per settimane...




Yosemite National Park (California) - Canon 50D, 17/40L (f/14, 1/30, iso100, treppiede)

Si chiama El Capitan, è il sovrano della valle più incredibile che si possa immaginare. A dispetto dell'orda di turisti, mi proietto nel triassico e mi godo l'incredibile scenario, è impressionante come il granito emerga all'improvviso dai verdi prati che tappezzano il fondovalle. Non riesco e non ho tempo a sufficienza per perdermi nei miei pensieri, per godermi la Natura e la solitudine come vorrei ma mi accontento, il cammino è ancora lungo e questa è solo una delle molteplici meraviglie che mi aspetta. Quando mi trovo a fine giornata ad ammirare la vista più completa dello Yosemite, El Capitan, mesto, fa calare il sipario sul suo muso roccioso cedendo la scena alla Bridal Veil Fall, elegantissima nel suo precipitare.
L'Half Dome, vigile sullo sfondo, si prepara ad accogliere una notte stellata pregustando un attimo di quiete, lontano dai "click" di migliaia di turisti che ogni giorno lo infastidiscono. D'un tratto, quando il sole si trascina dietro un ammasso roccioso, è il momento del silenzio, è il momento in cui il tormentato territorio ha il privilegio di tornare primordiale per qualche ora.
La mano di Dio sembra aver dimenticato di chiudere i rubinetti, sono infatti le potenti cascate le uniche a rimanere sveglie, le uniche a tenermi sveglio per garantirmi che quello che sto ammirando non sia favola.
Una vista d'insieme incantevole, la possenza dei giganti di granito contro il gentile frastuono di milioni di litri d'acqua ghiacciata che si schiantano sul fondovalle dopo adrenaliniche centinaia di metri, una valle che riassume il concetto stesso di pace, almeno per pochi minuti al giorno...




Grand Canyon (Arizona) - Canon 50D, 17/40L (f/14, 1/30, iso100, treppiede, polarizzatore)

Non sembra di essere in Arizona, il paesaggio cambia rapidamente, dopo il nulla desertico del Nevada delle macchie di verde cominciano a vestire il rosso delle rocce del Far West. C'è più vita, qualche rilievo qua e là domina le infinite pianure, le nuvole di bambagia completano il quadro di una giornata di fine primavera in Arizona che non mi aspettavo, ricomincio a provare quelle sensazioni per le quali sono nato, per le quali viaggio, per le quali fondamentalmente vivo.
Man mano che ci si avvicina al Canyon che lascerà per sempre un segno nel mio cuore, il paesaggio in concomitanza con il calare del sole, fa salire il battito cardiaco.
L'orizzonte è indefinito, le nuvole disegnate sono sempre più spettacolari, finché non mi trovo a puntarne una, guido per chilometri nella sua direzione, mi arrampico con facilità tra i suoi batuffoli, sono leggero, libero, un preludio all'incredibile conquista che diventerà realtà da lì a pochi minuti. Stento a credere che il verde dei prati che mi circonda sia del colore dello smeraldo, è proprio vero che scoprire i luoghi metro per metro è la cosa che arricchisce di più in assoluto.
Un tuffo nel verde della Kaibab National Forest, rimarrò immerso fino alla fine, finché Qualcuno mi indicherà il luogo del mio prossimo incontro: il South Rim del Grand Canyon.

Innumerevoli raggi di sole perforano un buio e compatto affollamento di nuvole, lì sotto credo si celi lo spettacolo. Per un istante temo che non riuscirò a cogliere l'attimo, fatico a capire in che direzione si trovi il mio appuntamento finché, con l'ebbrezza e l'eccitazione di un ragazzino alla sua prima uscita, corro. Sembro impazzito ma sento che quello che si cela a pochi metri dietro alla chioma degli alberi sarà il premio, ho un certo sesto senso per queste cose.
Ora arriva la parte difficile: descrivere che cosa è comparso davanti a me come una doccia fredda. Azzero, annullo dalla mente tutto quello che avevo costruito grazie a foto e documentari vari, figure distorte. Ora so cos'è il Grand Canyon. Infinito, acceso, tormentato, inesplorabile, severo. Potrei trovare centinaia di aggettivi per descrivere la vista globale o ogni singolo anfratto di questa meraviglia della Natura.
Sono una virgola nella sacra Bibbia, sono un granello di sabbia nel deserto, una goccia nell'infinito Oceano, un cristallo di neve nel bianco mondo artico, un poco significante frammento del tutto, nel quale sono inglobato, nel quale cerco di farmi spazio provando a conoscerne ogni singolo aspetto e segreto. Io e il tutto, il tutto e me, mi trovo catapultato nel quieto lago delle emozioni, come una piccola pietra scagliata movimento lo specchio dal quale raccolgo ondate di spiritualità rare, pezzi di vita che completano man mano la mia Esistenza. Immagazzino il più possibile, le emozioni d'istante in istante aumentano in maniera esponenziale, finché una lacrima scende a rigare la mia giovane guancia, così come i corsi d'acqua si fanno strada tra i milioni di dirupi sotto i miei piedi, le gocce si insinuano tra le sbiadite pieghe del mio viso, mai così felice di poterle accogliere. A decine di chilometri di distanza il Canyon affronta una tempesta, sarà una notte movimentata anche se esso sembra esserci abituato, lunghe saette scuotono qua e là il cielo plumbeo, la dinamicità del luogo in questo momento unico è semplicemente disarmante.

Il giorno seguente è in atto un'echeggiante tempesta nel Canyon in parte celato da una grigia e misteriosa nebbia. Mi trovo ancora una volta sull'orlo del baratro e rispettosamente osservo la scena che mi si presenta a più di 180° davanti a me. E' un'estasi per i sensi, si respira un'aria malinconica, il frastuono del temporale in atto accompagna il volo di un corvo solitario. Mi sento sotto tiro, le saette che scorgo a chilometri di distanza sembrano fare sul serio, sembrano volere regolare i conti con qualcuno o qualcosa, si scagliano a terra con violenza inaudita ed io, bersaglio, non sono altro che uno spoglio albero nato in bilico, aspettando che qualcuno decida per lui.
Un'atmosfera gotica che non dimenticherò mai, un luogo rabbioso, tormentato, modellato nel corso di lunghi anni, teatro di mille avvenimenti e misteri. Oggi io sono testimone di uno di essi. La pioggia va ad alimentare quel serpente d'acqua del quale perdo le tracce, tuttavia mi faccio trasportare lungo il suo corso, bramoso di nuove emozioni benché già colmo. Grazie di nuovo e arrivederci, Canyon.
Proseguendo nell'esplorazione di questo meraviglioso stato mi imbatto in nuove meraviglie. Nella prima (Horseshoe Bend) il fiume Colorado crea un'ansa in cui mi smarrirò nei miei pensieri per lunghe ore, nella seconda mi sentirò come un bambino alla scoperta di un labirinto in un parco di divertimenti (Antelope Canyon).




Horseshoe Bend (Arizona) - Canon 50D, 17/40L (panoramica-4 scatti in verticale)

Finché non ci si sporge prepotentemente dalle rosse rocce che proteggono il fiume Colorado tutto sembra normale, mentre la veduta che si ha una volta fatto capolino è impareggiabile.
La cornice del dipinto ha un colore delicato tra il rosa e il marrone chiaro e non dà idea di solidità, una pennellata multicolore blu, verde, gialla, percorre una circonferenza quasi perfetta attorno ad un colossale "monolite" che domina la scena.
La rappresentazione della quiete e dell'armonia. Il vivace corso d'acqua è stanco, percorre una U con una velocità pressoché nulla ed è qui che mi perdo. Fisso lo sguardo nel blu, l'acqua avanza timidamente danzando e creando forme sempre diverse e sinfoniche, per un attimo sono vestito in frac ad ammirare una ballata in una famosa filarmonica. La pace del fiume e delle immaginarie ballerine viene strozzata dalla comparsa di lente imbarcazioni che cautamente risalgono il corso d'acqua. Un'immagine non spiacevole nonostante la mia ossessione verso la Natura incontaminata. Un luogo poetico, ci tornerò domani all'alba.

La sveglia suona alle 4.20, pochi minuti dopo sono di nuovo a respirare emozioni. L'atmosfera già magica assaporata ore prima si trasforma in un qualcosa di irreale. Il Colorado è color pece, pressoché immobile. I canti di un paio di corvi annunciano il mio arrivo, probabilmente con stupore. Quando i primi raggi di sole cominciano ad intiepidirmi la schiena inizia uno dei giorni più belli e intensi. Studio attentamente il luogo che oggi risulta naturalmente più famigliare, potrei farne un dipinto. Il sole si alza, i colori mutano così come i rumori, permane tuttavia il senso di solitudine che vado costantemente cercando, la preziosa sorgente di indimenticabili emozioni. La letargica corrente ha oggi delle tonalità verdi, come se una pioggia di vernice l'avesse trasformata, i piccoli volatili dal dorso altrettanto verde entrano a far parte del quadro, fortunati protagonisti di uno scenario irripetibile e arduo da immaginare, sono radioso. Cinque ore in contemplazione per poi finire nell'Antelope Canyon ad ammirare incredibili cascate di sabbia, quante sorprese l'Arizona...

Le possenti gambe sassose dell'immaginario gigante di fronte ai miei occhi sono ben piantate a terra, dominano la scena nell'anfiteatro di roccia, testimone di milioni di vicende in migliaia di travagliati anni.
Le carezze del vento, il ticchettio insistente della pioggia, il soffice tocco della neve, l'insistente tepore del sole estivo, sono fenomeni che hanno potuto modellare ma non sconfiggere la scultura naturale più incredibile. Una coppia di volatili in amore gioca con essa, scambiando l'arco per un varco verso la libertà, lo trapassano con fare deciso per poi posarsi di tanto in tanto nel nido preparato con cura in un anfratto panoramico. Ora tutto cambia, ciò che l'essere umano comune generalmente evita (la solitudine dopo il tramonto) è davanti a me, il sole che saluta la magia del luogo regalando colori pastello potrebbe suggellare un finale di giornata degno di nota ma non è finita.

Poche ore dopo mi trovo con il naso all'insù.




Balanced Rock, Arches National Park (Utah) - Canon 50D, 17/40L (f/4.5, 8min, iso400, treppiede)

Il cielo stellato ispirerebbe Vincent oltre che me stesso, la luce della Luna mi indica che le prossime ore saranno indimenticabili. Come un metallo attratto da un'enorme calamita mi trovo al cospetto del gigante (Balanced Rock) in compagnia di altrettanto imponenti monoliti. Una miscela di sensazioni straordinaria, mi sento minuscolo quando ammiro con rispetto la sfida alle leggi della fisica che mi si presenta sopra la testa, il mio eco rimbalza per secondi tra gli imponenti protagonisti della notte stellata perfetta. Alzo il capo ancora un pò e mi perdo in pensieri ancor più grandi di quello che sto guardando. I muti sovrani passano in secondo piano, cedono il passo al fascino dell'universo, alle strabilianti dinamiche che ventiquattro ore al giorno vengono a crearsi, mi trovo in totale ammirazione e rimango immerso nel nulla per lunghi minuti. La volta celeste, a dispetto delle apparenze è continuamente mutevole da quaggiù, ammiro le stelle, la Luna, la delicata Via Lattea, forse delle precise costellazioni, forse delle nebulose, forse chissà quale altro mistero.

Saluto lo Utah continuando verso Nord. Il Grand Teton National Park è uno di quei luoghi che sento mio, che ho vissuto al 100% sulla mia pelle, che ho conquistato, che ho voluto conoscere sotto tutti i suoi aspetti più straordinari. Non ho perso un minuto, sono stato un cacciatore di albe, un ritrattista di tramonti, sono stato premiato per la mia tenacia, ho colto tutte le opportunità che mi sono state concesse innalzando questo posto magico nell'Olimpo dei miei luoghi preferiti.
Quando tutti dormivano e quando i momenti più rari e irripetibili andavano colti io ero sempre in prima fila. E' costato un periodo di lungo e duro lavoro ai castori, artefici di uno spettacolo naturale che rasenta la perfezione. Hanno scelto di creare le loro immobili dighe al cospetto delle cime innevate del Grand Teton.




Grand Teton National Park (Wyoming) - Canon 50D, 17/40 (f/13, 0.8, iso100, treppiede, polarizzatore)

Le severe vette mi appaiono come enormi onde provocate da un maremoto pronte a schiantarsi nell'interminabile valle sottostante. Le forme mi ricordano l'Opera House di Sidney, la baia australiana è, in questo caso, un piccolo e impeccabile specchio increspato a volte dal planare di colorati volatili. Credo però che nemmeno all'Opera House si possa assistere ad un concerto così: molteplici creature che accolgono l'arrivo del nuovo giorno e rassicurano in parte il mio animo vigile, in timorosa attesa dell'incontro degli incontri, l'orso Grizzly qui è di casa. Una pace adrenalinica che solo qui e in questo preciso momento ho potuto provare...
L'alba allo Snake River è un incanto, un pellicano scivola silenzioso e sembra lievitare sul pelo dell'acqua. Vanitoso, fa perdere le sue tracce dopo pochi istanti. Il cielo pressoché sgombro dalle nuvole cambia in continuazione tonalità, raddoppiando lo spettacolo sul letto del fiume.

Quando 48 ore dopo torno nel luogo incantato, faccio ingresso in un vero e proprio angolo di Paradiso. Non so chi mi abbia consegnato le chiavi di questo luogo segreto, entro tuttavia a far parte di questo mondo per un pò, con delicatezza.
Dei pellicani sono intenti a pescare, altri tre invece si specchiamo egocentrici tra le ferme acque del fiume, delle strane papere proseguono schierate in fila indiana seguendo chissà quale legge, una lontra si aggira lenta ma furtiva fissandomi con curiosità, il cielo sereno è dominato da un falco pescatore che a intervalli piuttosto regolari crea scompiglio tra le "chiare, fresche et dolci acque".
Non saprei aggiungere un elemento, di qualsiasi tipo, per rendere questo luogo incontaminato ancor più perfetto. Istanti indimenticabili, quanto adoro gli animali, quanto adoro il Grand Teton National Park. Mi mancheranno le albe, i tramonti, i tuoni, la fauna all'alba, gli occhi dei cervi nel buio, le levatacce, i bisonti, tutti gli animali che ho scoperto qui per la prima volta, come i cani della prateria, il tasso, i vari uccelli e mammiferi che abitano questo piccolo Paradiso. Una tre giorni pressoché perfetta...

Continua il peregrinare verso il Grande Nord, è la volta del Montana, della British Columbia, dell'Alberta. .Con qualche dubbio sull'orario (non ho ancora ben chiaro quale sia il fuso e non ho mezzi per scoprirlo!) dormo poco, forse anche per l'eccitazione e la curiosità verso il nuovo giorno. Il tempo è variabile ma non sembra promettere male, sono pronto per il volo, che euforia. Si tratta del mio primo volo su un aeroplano così piccolo. Entrerò a far parte del selvaggio Kluane National Park. Lo Yukon, che già attraversato e conquistato in auto spiccava per il suo volto estremamente selvaggio, dal finestrino del piccolo velivolo lo è molto di più.
Una distesa verde a perdita d'occhio, vividi laghi sparsi qua e là e poi via, decisi in mezzo alle vette in parte innevate del Kluane, che custodisce i ghiacciai continentali più grandi della Terra. Bastano pochi minuti, pochi attimi per realizzare di essere stati catapultati in una dimensione tutta nuova. Le cime visibili dall'Alaska Highway, delicatamente accarezzate dalle nuvole, cedono il passo al bianco, alla neve, al ghiaccio che poi va a creare delle sfumature azzurro-blu. Sorvoliamo delle piste di ghiaccio monumentali, i raggi che riescono a trapassare i cumuli creano giochi di luce, la prospettiva aerea è sempre mutevole e offre scorci che in altri modi sarebbe impossibile documentare.




Kluane National Park (Yukon Territory) - Canon 50D, 17/40L (f/11, 1/320, iso100, mano libera)

Avvisto un manciata di iceberg, sto ancora ringraziando la Patagonia (visitata l'anno passato) quando mi rendo conto di essere in volo sopra una terra incredibile e selvaggia al 100%, provo ad immaginare le innumerevoli zone sotto i miei piedi tra cui l'uomo con tutta probabilità non si è mai avventurato, montagne e ghiacci vergini. Qui la Natura regna sovrana, si tratta di un luogo per pochi eletti. Una manciata di capre delle Montagne Rocciose è abbarbicata lungo un pendio sassoso da brivido e baciate dalla fioca luce del sole, testimoniano che persino qui c'è vita ed io provo una sorta di "invidia" primordiale, ho come la sensazione di essere entrato per un istante nella loro vita, di avere in qualche modo invaso i loro spazi.
Un pezzo di cuore lo lascerò qui. I voli a fil di montagna tra crepacci, piscine cristalline dove l'acqua sembra blu, sinuosi ghiacciai che scorrono per lunghi chilometri prima di esaurirsi, i colori, le luci e i pochi testimoni di questo ecosistema unico all'interno del quale l'uomo è escluso per forza di cose.
Immagino quante creature si aggirino sotto i miei occhi mentre si torna alla base e sono felice per loro ammirando lo spettacolo da questa prospettiva, più completa, che rende giustizia più che mai, fissando lo Yukon Territory come il luogo selvaggio e incontaminato per eccellenza. Viaggiare è la cosa più bella che esista semplicemente perché si tratta di un'attività infinita e oggi me ne sono accorto per l'ennesima volta. In ogni montagna che ho ammirato oggi si celava un Canada sempre differente e in ogni anfratto di esse mi si rivelava un nuovo Canada. Dei piccoli Canada che mutano senza sosta a seconda della stagione, delle condizioni meteo, della presenza di certi tipi di abitanti. Io oggi ho vissuto il mio Kluane National Park, senza fiato.

2451km nel nulla, natura selvaggia, animali, qui ognuno fa per sè, si è in balia degli eventi, i collegamenti con la civiltà sono a dir poco sporadici, dormo dove mi pare, guido per 4 giorni molte ore al giorno respirando sensazioni incredibili e godendomi appieno gli aspetti di questo lungo serpente di asfalto, sto percorrendo l'Alaska Highway.




Alaska Highway (Yukon Territory) - Canon 50D, 17/40L (f/14, 1.0, iso100, treppiede, polarizzatore)

Sono un incosciente. Ero appena fuori dall'auto accostata in modo panoramico nelle vicinanze di un pescoso fiume con vista da foto, quando ci entro deciso ad andare a riposare. Darò la colpa al fascio di nuvole viola che incrementano la mia curiosità verso questo nuovo tramonto. Mi dirigo in strada e letteralmente impazzisco. E' quasi mezzanotte, mi precipito di nuovo in auto, prendo la mia attrezzatura e corro, devo immortalare lo spettacolare tramonto dello Yukon.
E' sconvolgente pensare come le passioni e la voglia di emozioni forti ti portino a scelte tempestive, irrazionali e a volte sbagliate. Corro per più di un chilometro lungo l'Alaska Highway, la breve notte sta arrivando, il silenzio invece lo è già da tempo. Non penso a nulla, solo al tramonto che si cela in parte dietro la salita che sto affrontando.

Mi blocco, piazzo il cavalletto sulla striscia divisoria delle due carreggiate, scatto, ammiro i colori che solo le estreme latitudini possono regalare quando è ora di tornare. E' solo qui che mi rendo conto di quanto fatto. Idiota. Un potenziale boccone che si muove velocemente e indifeso lungo una strada deserta in Yukon. Mi rendo conto di avere percorso più metri di quanti pensassi, la via per la tranquillità è lunga. Da sazio (fotograficamente parlando) riesco a ragionare, a pensare razionalmente, non posso correre. Devo farmi identificare, comincio a parlare nervosamente. Inevitabilmente immagino le decine di occhi che mi stanno scrutando nella penombra, cerco di stare il più lontano possibile dal bush, cammino praticamente in mezzo alla strada quando, come manna dal cielo, sopraggiunge un gigantesco e chiassoso tir, che riappacifica per un istante il mio animo turbato. Sono a metà strada, i brividi corrono lungo la schiena, forse in modo inspiegabile ma forse no. Sono in macchina, nel sacco a pelo. Ho sudato freddo, ho fatto un errore e lo ammetto. Non posso nemmeno dire che ne sia valsa la pena, perché quando si parla di sopravvivenza nulla viene prima, non c'è tramonto strappalacrime che tenga. Domani volerò al Katmai National Park, uno dei quei sogni che sembra difficile da realizzare.




Bald Eagle, Homer (Alaska) - Canon 50D, 100/400L (f/5.6, 1/800, iso320, mano libera)

Vado a letto con la pioggia, sono nervoso, dormo male. Mi sveglio diverse volte nel cuore della notte, la pioggia non cessa ma nemmeno le mie speranze di raggiungere l'Alaska Peninsula. Sono il primo dell'equipaggio ad arrivare all'idrovolante, nel giro di mezz'ora ci siamo tutti e nove. Il tempo è brutto, il pilota dice che dobbiamo rinviare la partenza aspettando fino alle 10.00, più di un'ora quindi. Le mie speranze si stanno infrangendo contro un muro, attendo nervosamente in auto, sotto la pioggia. Alle 10.00 nuovo meeting, si volerà al Katmai anche se piove! Che felicità!
La prima parte del volo è grigia, sopra l'oceano; nebbia e acque grigiastre. Mi assopisco, ho la mente stanca più che il corpo. Tutta la tensione accumulata, l'attesa, la preoccupazione e l'adrenalina per la partenza verso il remoto e tanto sognato Katmai National Park.
Ci siamo, apro chi occhi e mi appare la costa dell'Alaska Peninsula. Le scogliere sono associabili ai tavolieri irlandesi, un verde intensissimo che si interrompe in corrispondenza del baratro, una costa frastagliata a breve destinata a trasformarsi. Passano infatti pochi minuti e compaiono i rilievi avvolti dalle nubi. Voliamo davvero bassi, a tratti sembra quasi di poter accarezzare il terreno color pece traccia delle più recenti e devastanti eruzioni vulcaniche.
Lungo i pendii corrono piccoli ruscelli alimentati da chiazze di neve, sopravvissuta ai deboli raggi solari dell'estate nordica. Essi, quasi a richiamare delle colate di lava, seguono dei percorsi ben precisi scavati nel terreno e vanno ad alimentare i numerosi laghi argentati che offrono uno specchio opaco alla rada vegetazione circostante. Osservo poi dei corsi d'acqua più importanti, fiumi estremamente pescosi nei quali scorgo chiaramente le figure dei primi esemplari di orso bruno intenti a cercare la posizione più strategica per potersi cibare. Il mondo visto dall'alto: mi sento un fantasma, ammirare quello che succede a pochi metri da te, senza dare nell'occhio, senza lasciare tracce tangibili è assolutamente magnifico.
Il terreno si macchia ora di giallo, le piste degli orsi e di altre creature che vivono l'asprezza di questo paesaggio sono ben visibili, i laghi si moltiplicano, i fiumi somigliano a degli intestini umani da tanto sono contorti, finché non vedo comparire la confortevole pista di atterraggio, il Naknek Lake. Metto piede nel Katmai National Park, solo. Qui si respira aria di Alaska autentica, vita selvaggia al 100%, non esistono strade, benzinai, comodità, ospedali, chiese, case e soprattutto il turismo di massa. Da lì a breve vivrò una delle esperienze più belle della mia vita.

E' costato un sacrificio economico, ho guidato per infinite miglia per raggiungere l'Alaska, ho volato nonostante le intemperie dalla Kenai Peninsula al Katmai National Park, solo per loro: gli orsi del Katmai e i salmoni, protagonisti di una storia che si perde nella notte dei tempi. Un luogo magico, unico al mondo, isolato, per lo più inaccessibile. Sono a pochi metri da un colossale orso bruno che con pazienza inesauribile attende che il suo pasto fresco balzi fuori dall'acqua, come una saponetta che schizza dalla sbadata mano di un uomo. Prendo esempio, il mio "click" corrisponderà ad una morte cruenta o ad un pericolo scampato?
Sono giunto in questo angolo remoto del pianeta per ammirarli, si, ma anche per testimoniare l'incredibile dinamica che solo in questo periodo dell'anno prevedere che milioni di agili salmoni, giungendo dall'Oceano Pacifico, risalgano l'impetuoso Brooks River per raggiungere il luogo prestabilito per la riproduzione. L'ostacolo numero uno è costituito dalle cascate, dove gli orsi con le loro fauci aperte, non aspettano altro che un passo falso. Dai cinque agli undici orsi si alternano in zona, una scena che va a vanti giorno e notte per circa un mese all'anno, in cui i plantigradi si rimpinzano e raggiungono pesi e dimensioni mostruosi.
La bestia famelica ha prima lo sguardo fisso nell'acqua, poi lo alza muovendo la testa qua e là, sembra annusare l'aria, sembra persino pregustare il succulento pasto.
Molti pesci compiono la missione, con balzi straordinari superano le cascate proprio sotto gli occhi degli affamati mammiferi. La crudele legge della Natura però prevede che qualcuno non dovrà farcela.
Non avevo mai fotografato la morte e nemmeno ci tenevo a farlo, ma questo prevede la vita, la catena alimentare. Un salmone, stremato dopo gli eterni chilometri di risalita controcorrente, balza fuori dall'acqua proprio in direzione del suo superiore, è la fine.




Brooks River, Katmai National Park (Alaska) - Canon 50D, 100/400L (f/5, 1/640, iso100, treppiede)

Dura tutto pochi secondi: lo afferra, si accerta della presa, corre via per mettere al sicuro il suo pranzo, in men che non si dica non rimarrà nulla del malcapitato. Nel frattempo una Bald Eagle fa da supervisore sotto un cielo plumbeo mentre dei buffi gabbiani non aspettano altro che avere l'opportunità di banchettare, seppur remota.
Trascorro due ore buone estasiato davanti allo spettacolo sotto i miei occhi e inaspettatamente indisturbato! Non dimenticherò in nessun modo le scene regalatemi oggi, la fame, la sopravvivenza, la sottile linea tra vita e morte, il crudele destino da una parte, la potenziale fortuna dall'altra. Tante creature, tantissime storie sempre uguali ma sempre diverse, quelle storie per le quali viaggio ai confini del mondo, per le quali vale semplicemente la pena vivere.
E' quasi ora di tornare all'idrovolante, sono in una sorta di estasi, sono l'ultimo del gruppo siccome mi sono trattenuto più a lungo per poter godere dello spettacolo il più possibile e per fotografare, fare foto, la mia grande passione!
Un miglio più essere corto ma estremamente lungo allo stesso tempo. Sono solo, mi hanno spiegato come comportarmi in caso d'incontro ma si sa, sono cose che si dicono per precauzione, non è il caso di fare terrorismo.
Non so per quale motivo comincio a fischiare Civil War (nota canzone del gruppo rock Guns n' Roses), sono piuttosto tranquillo e non faccio in tempo a immaginare come potrebbe essere un eventuale incontro con un orso quando, a pochi metri appena dietro una semicurva della pista, compare.
Mi si gela il sangue, una sensazione pressoché impossibile da descrivere. In quei momenti si azzera tutto, non sai nemmeno se sei in piedi o seduto, se sei sveglio o dormiente, se si tratta di visioni, se ti stai immaginando una sagoma di orso bruno, oppure l'orso pesante centinaia di kg è davvero davanti a te. Non bisogna in nessun modo correre, credevo che l'istinto portasse a questo, invece no. Lo shock ti induce a stare immobile (per fortuna), un pò come nei sogni, quando vorresti correre ma è come se avessi le gambe paralizzate. Dura tutto pochi istanti, pochissimi. Sopraggiunge poi la parte razionale che c'è in te. Comincio ad indietreggiare lentamente, chiamo l'orso. Pochi secondi, si sposta dalla pista e se ne va rapidamente nel folto della foresta. Un sorriso nervoso è dipinto sul mio viso per il resto del tragitto. Non sono stato imprudente, è semplicemente successo. E' andato tutto bene, ho rispettato la creatura e lui è stato rispettoso con me, così come deve essere. Sono orgoglioso di avere avuto un incontro ravvicinato con un orso del Katmai, ti ricorderò per sempre e ti penserò per sempre, caro Rose (ti chiamerò così perché fischiettavo una canzone dei Guns n' Roses quando ti ho incontrato, perchè mi hai punto come una rosa e perché, in qualche maniera che non so spiegare, sei stato un grande regalo, il momento più primordiale ed elettrizzante che abbia mai vissuto).

Mi ritrovo nello splendido Vancouver Airport quando è ora di tirare le somme. E' stata un'avventura intensa, lunga, ricca di sorprese. Dal rovente vento della Valle della Morte ai ghiacci dell'ultima frontiera, dalle foreste misteriose e impenetrabili dell'Olympic Peninsula alle distese desertiche dello Utah, da città piene di vita a desolati paesaggi in cui perdersi in pensieri profondi, dalle depressioni californiane ai 6000 metri e oltre del Monte Denali, per l'occasione libero dalle nubi perenni.
Ricorderò per sempre le eterne guidate e le dormite in auto, le levatacce alla conquista di emozioni, il selvaggio West, l'estremo Nord e il sole che non vuole mai tramontare, i miei animali, i grandi incontri, il mio Nord America.




Denali National Park (Alaska) - Canon 50D, 100/400L (f/13, 1/25, iso100, treppiede)


Andrea Pozzi è nato a Bormio, nel cuore delle Alpi, 26 anni fa dove vive e lavora. E' laureato in Architettura presso il Politecnico di Milano ed è Maestro di Sci. La sua grandissima passione per i viaggi inizia sin da bambino, quando comincia ad esplorare l'Europa con la sua famiglia compiendo viaggi itineranti. L'amore verso la fotografia esplode dopo un lungo viaggio in Nord Europa, al ritorno dal quale si rende conto che la sua umile compatta non è all'altezza della bellezza dei luoghi ritratti. 3 anni or sono acquista di seconda mano la sua prima reflex, una Canon 30D, grazie alla quale la passione aumenterà sempre più. JuzaForum sarà un prezioso strumento per la sua crescita tecnica da autodidatta. Per lui viaggiare è una vocazione, è amante delle latitudini estreme, ama esplorare i luoghi metro per metro, scoprendone via via i segreti e le infinite sfaccettature. Trova molto gratificante restare in ammirazione nel nulla, solo con la sua reflex, il suo prezioso diario di viaggio e i suoi pensieri. Sta scrivendo un libro riguardante i suoi ultimi due viaggi ed è in programma l'apertura di un sito web personale.



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