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Il segno nella fotografia digitale


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user250123
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inviato il 05 Giugno 2024 ore 10:00

INCONSCIO

Già a pagina 1 [vedi voce SEITÀ] vi sottoponevo alla provocazione iconica degli insetti stecco (Fasmidi) chiedendovi se - a vivere - in realtà fossero solamente i segni. Ora che ho smatassato molti altri strumenti utili a questa analitica versus il digitale posso ripescare quella "provocazione" ma in termini di forma. Anzitutto ricordiamo che l'iconicità di questi insetti non va "esplorata" per quanto essi "ricordino" i rametti [somiglianza] bensi per quanto essi siano "indistinguibili" dai rametti stessi [indistinzione] . È solo grazie alla loro capacità di camuffamento che sono arrivati a noi come specie. Non fosse così si sarebbero estinti in quanto non-adeguati sufficientemente a camuffarsi. Invece è stata la perfetta "corrispondenza" tra rametti ed insetti stecco che ha reso possibile il propagarsi fluido della "forma" fino ai nostri giorni, chiaramente in seno ai lignaggi selettivi.

In questa chiave interpretativa, allora, che cos'è la forma? Non qualcosa d'imposto dall'alto ma - piuttosto - è ciò che rimane, una rimanenza in sé. Ciò dovrebbe suonarvi come familiare perché rientra nella logica del predatore (e noi siamo predatori quando non siamo prede) che "lavora" incessantemente per scovare differenze che gli consentano di distinguere i rametti dagli insetti. Ma..., cari amici miei, quello che voi distinguete... è ciò che non sopravvive! È ciò che non supera la prova dell'indistinzione e pertanto muore li - bocciato dalla selezione "naturale" stessa! Viceversa: è solo la propagazione della "ramettità" che sopravvive e che non viene "mangiata viva" nell'atto predatorio.

Questa è una palese controprova sul tema della lateralità rizomatica: l'iconicità possiede un certo grado di libertà nei rispetti della nostra intenzionalità e quindi - certo che si - può "saltare fuori" dal simbolico umano ma non fuori dalla semiosi e dalla significanza. Date le "giuste condizioni" [rivedi la metafora del CAUCCIÚ] la "forma" può esplorare il mondo creando "associazioni" inaspettate proprio perché lateralmente rizomatiche. Questo tema è stato variamente analizzato ma io vi invito a considerare soprattutto quanto scrisse Levi-Strauss in merito al "pensiero selvaggio" definito come "il pensiero allo stato selvaggio e distinto dal pensiero educato o coltivato proprio in vista di un rendimento". In termini freudiani: benvenuti nell'incoscio e nella sua logica auto-organizzata. Benvenuti a pagina 15 MrGreen

user250123
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inviato il 05 Giugno 2024 ore 12:03

DOMINARE

La mia prospettiva, nel nostro stato di cose e per vostra grandissima fortuna, è opposta a quella di Sigmund Freud e quindi ne userò solo "quanto basta" come ho fatto con altri autori. Ma è imprescindibile spiegare anche che le finalità psicoanalitiche di Freud erano eticamente "a fin di bene" e cioè egli voleva dominare l'inconscio umano per cercare di curare dei pazienti affetti da patologie invalidanti. Io non ho questa nobile finalità ed, anzi, allineandomi filosoficamente alla prospettiva industriale di chi "semina zizzania" cognitiva producendo dispositivi mutanti [digitali] potrei quasi giungere all'affermazione provocatoria che il mio intento sia quello di incoraggiare il proliferare della "malattia" in sé e per sé. Lascio alla vostra intelligenza di lettori la comprensione che questo è un espediente narrativo che, però, manifesta a sua volta un'intrinseca nobiltà nel dominio teoretico della speculazione pura.

user250123
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inviato il 05 Giugno 2024 ore 16:16

ASSOCIAZIONI

In un mondo ottusamente “nominalista” - figlio dell'Ottocento - Freud ebbe il coraggio di studiare la dimenticanza dei nomi propri e del malapropismo. Questo genere di fenomeni, posti sotto indagine, risultarono non solo incredibilmente diffusi ma anche contagiosi. Nelle traduzioni italiane di Freud leggiamo che questi “errori” sono “atti mancati” ovvero: esecuzioni difettose di determinati atti intenzionali.

Per dirla con Levi-Strauss: quando il nostro cervello opera in assenza di rendimento rimane ciò che è secondario e va al di là del “pratico”. Si ottiene così l'iconica propagazione, fragile ma fluida, del pensiero auto-organizzato che risuona con il suo ambiente, esplorandolo. Tornando a Freud egli parla di “catene allitterative” che si produrrebbero spontaneamente ad esempio quando una parola dimenticata si “associa” ad un pensiero represso.

Indovinate cosa interessa a noi? Quella parolina magica: “associa” - perché l'associazione instaura sempre una relazione. Ci piace anche la rappresentazione freudiana di “catene” iconiche ed associative che andrebbero a costituire le Amazzonie interne che tali pensieri esplorano “risuonando” attraverso la psiche.

Come anticipavo nella voce DOMINARE per Freud era importante dominare la psiche umana e considerò questi fenomeni come “mezzi in vista di un fine”. Il suo fine era captare le latenze e ciò che era represso per avviare “una possibile cura” nei suoi pazienti. Invece non diede molta importanza a ciò che interessa a noi ovvero alle “associazioni” in sé per sé.

user250123
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inviato il 05 Giugno 2024 ore 18:53

CREATIVITÀ

In tempi molto più recenti di Freud, e cioè nel nostro secolo, dobbiamo alla teorista e critica d'Arte americana Kaja Silverman una rivisitazione ed un riposizionamento completo di queste “associazioni” mentali. Spiace qui non poter entrare in profondità nel progetto accademico sul “pensiero analogico” ma limitiamoci ad osservare come la Silverman proponga sostanzialmente di vedere queste associazioni come “pensieri nel mondo” piuttosto che come qualcosa di arbitrario che “indica” solo verso l'interno della psiche umana. Dunque queste associazioni sarebbero concettualmente simili a quel pensiero non-addomesticato a cui alludeva Levi-Strauss e cioè interne certamente alla mente umana ma non ancora “piegate” ai suoi fini strumentali. Noi possiamo intendere tutto questo anche come una forma di “creatività” [non l'unica] e non è affatto un caso che questa idea sia venuta a chi l'Arte la frequenta per mestiere dalla prospettiva della semiotica come fa la Silverman. È comunque affascinante pensare che, per dare sfogo ad un certo tipo di “creatività” relazionale [ed ecologica anziché narcisa] , il nostro cervello debba essere messo come in folle, e cioè in “assenza di rendimento” volontario. Chissà cosa ne penserebbero, a questo proposito, i foto-amatori “ammalati” del controllo ed appassionati della destrutturazione cognitiva a posteriori.

user250123
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inviato il 05 Giugno 2024 ore 22:47

ENERGIA

L'arborescenza della semiosi ci indica che, chi sta "sopra" in gerarchia non deve effettuare alcun sforzo interpretativo per comprendere ciò che sta sotto perché, come il caucciù che galleggia "da solo", è già all'interno della forma emergente. Questo principio, se vogliamo figurarcelo nella fisica, è un principio "energetico" che trova moltissime corrispondenze al di fuori del nostro discorso filosofico. Inoltre: più si sale "in alto" maggiore sarà la forma emersa e quindi ulteriormente minore sarà lo sforzo interpretativo da compiersi. La domanda che dovrebbe sorgere spontanea a questo punto è la seguente: ma, sali oggi sali domani, fino a dove si può salire? C'è un confine-limite, un soffitto, in questa "verticalità" della semiosi? Oppure: che cosa succede a tutta questa "energia" che salta di livello in livello sempre superiore? Oppure, ancora: qual'è la fine della storia? Ah, ecco una domanda che qualsiasi filosofo si è sempre fatto, a prescindere dalle analitiche impiegate per rappresentarsi il mondo. Peirce parla chiaro: alla fine della storia torna l'iconico, ovvero torna l'indistinzione. Ma sulla storia, e la storia è tempo ma non solo tempo, c'è qualcosa che noi dobbiamo ancora vedere in prospettiva semiotica.

user250123
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inviato il 05 Giugno 2024 ore 23:46

IL REGNO DEL SEMPRE GIÀ

Peirce definisce la "storia" come la nostra esperienza della secondità, il che include la nostra esperienza del cambiamento, della differenza, della resistenza, dell'alterità e del tempo. Ah però, quante cose contiene questa "secondità"! Ed in più osserviamo che non è la storia ad essere una "secondità" direttamente bensi la storia è "la nostra esperienza" della secondità - che è un concetto ben diverso e più articolato. Ma io, comunque, propongo una semplificazione che potrebbe essere espressa in questi termini, un poco più discorsivi: la storia è la nostra esperienza dell'effetto degli eventi passati sul presente. Ora: è del tutto ovvio che - fuori da questa speculazione - esistano "rappresentazioni del passato" socio-"qualcosa" altamente variabili ma è altrettanto ovvio che tutte quelle rappresentazioni muovano dal dualismo e dall'arbitrarietà di chi le ha prima pensate e poi scritte, il che non le invalida assolutamente, tuttavia, noi - nella semiosi - abbiamo necessità ontologica di posizionarci "senza-posizione" nei rispetti della secondità stessa e quindi l'approccio socio-"qualcosa" lo dobbiamo scartare come tante altre ipotesi che abbiamo lasciato volentieri fuori dalla porta (ed es. un deus ex machina, etc.).

E allora, che cosa succede se posizioniamo la "storia" all'interno della "forma"? Beh, succede che la "storia" smette subito di essere la modalità causale più rilevante degli effetti del passato sul presente. Si perché la "storia" non è speciale in sé per sé, ad essere speciale è solo la "forma", e quindi la "storia" subisce la stessa "irrilevanza" relativa che subiscono i fiumi amazzonici nei rispetti dell'emergente economia del caucciù. Quante storie particolari, quante circostanze, sono finite dentro la "forma" dell'epopea del caucciù in Amazzonia? Sicuramente moltissime e tutte importanti, eppure - anche - irrilevanti nei rispetti della "forma" che le include tutte. Questo diverso posizionamento della "storia" all'interno della "forma" ci porta a riflettere sul tempo che risulta figurativamente "congelato" e tecnicamente "astorico". È così che si "crea" un regno che in italiano letterario possiamo chiamare del "Sempre Già" ma che nella semiotica ufficiale, in lingua inglese quindi, viene definito come "Always Already". Il "Sempre Già" - ovviamente - è un prodotto "emergente" della forma, con all'interno la "storia" stessa. Semplicemente fantastico, soprattutto per gli impieghi industriali del digitale implementato dal pensiero computazionale. In inglese, poi, l'espressione Always Already rende veramente benissimo l'idea della sua spendibilità commerciale.

user250123
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inviato il 06 Giugno 2024 ore 6:47

FREDDO E CALDO

Un regno di causalità circolare in cui le cose che sono già accadute non sono mai accadute, naturalmente, è un “qualcosa” di totalmente diverso dal pannello Storia di Photoshop e software similari che si limitano a registrare cronologicamente gli avvenimenti e consentono banalmente il “riavvolgimento del nastro”. Il regno del “Sempre Già” sembra funzionare, piuttosto, come una lingua internazionale di “scambio” [guarda caso] che “ingloba” milioni e milioni di parole con la loro specifica storia ma che diventano “irrilevanti” prese una ad una se non per il loro aspetto nominale. Questo regno emergente scisso dall'asse del tempo è ciò che consente a noi di “vedere” cosa significhi “essere all'interno della forma”. E non vi viene alla mente chi “vive” naturalmente - e da sempre - questa condizione? I morti, amici miei: i morti sono gli unici liberi di non invecchiare, perché oramai rientrati nell'indistinzione formale, in cui il principio di causa ed effetto non viene piú applicato in modo diretto.

Ciò apre ad una nuova differenza che possiamo figurarci come quella che passa tra il freddo ed il caldo. Si, perché ciò che ha la facoltà di resistere ai “cambiamenti storici” può legittimamente essere definito come “freddo” in opposizione a ciò che invece non può fare altrettanto. Dunque, l'ubiquità della forma, con il suo effetto congelante sul tempo, determina differenze fondamentali tra il pensiero analogicamente umano - schiavo del suo dualismo “caldo” - e quello digital-macchinico - libero di essere “freddo” nell'oltre-umano. Tutto così “semplice”? No, perché anche se posizioniamo la “storia” nella “forma” essa comunque - figurativamente parlando - da qualche parte s'impiglia e li dove s'impiglia produce detriti. E che cosa saranno mai “i detriti della storia” in un mondo freddo in cui il tempo è fondamentalmente astorico? Beh, sempre figurativamente, potremmo dire che a rimanere impigliate sono le “strategie” e per esemplificare queste strategie potremmo citare le “formule retoriche” che sono un ottimo escamotage del linguaggio umano per fregare il tempo. Nei contesti tipicamente colonialistici si parla anche di “dialoghi ineguali” tra colonos visti come mezzi-divini ed autoctoni trattati come mezze-bestie.

user250123
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inviato il 06 Giugno 2024 ore 11:21

FARE

Sebbene stabile, la forma è fragile, sia come “oggetto” del reale che come “concetto” del teorico. Personalmente non sono interessato soltanto alla forma in sé, ma a capire “come fare cose con” essa. Fare delle cose con la forma esige di lasciarsi contagiare dalla sua logica causale, una logica che - in questo stato di cose - come abbiamo detto risulta profondamente diversa da quella associata alla meccanica della causalità efficiente.

Nell'analitica “definita e contestualizzata” che propongo di strutturare in un'altra discussione a parte - ma usando tutti gli strumenti che ho proposto in queste pagine - l'ipotesi che voglio suggerire è che la semiotica del “sogno”, compresa nei termini delle peculiari proprietà della forma che abbiamo sviscerato, implica la spontanea e auto-organizzata appercezione e propagazione di associazioni iconiche che dissolvono le frontiere che solitamente poniamo tra ciò che è interno e ciò che è esterno a noi - e quindi ai simboli.

Cioè: quando al pensiero non chiediamo rendimento (come nel sogno) ci ritroviamo “più facilmente” ad avere a che fare con iterazioni auto-similari (iconiche) e siamo meno “distratti” da quelle indicali che invece solleticano incessantemente la nostra vigile predatoria attenzione. Tenendo conto di tutto questo e delle altre varie propagazioni della forma enunciate finora, trovo interessante chiedermi se questa rappresentazione possa descrivere in modo sufficientemente realistico (verosimile) il modo di funzionare dell'auto-generazione “intelligente” [o scientifica] nel mondo-universo dell'immagine digitale.

Ma c'è un secondo quesito conseguente, che se vogliamo è ancora più interessante. Levi-Strauss in merito ai sogni ed al pensiero-selvaggio (senza rendimento) affermava che: “questi sogni SI PENSANO negli uomini ed a loro insaputa”. Esplico più chiaramente: i sogni si pensano DA SÉ STESSI, nelle nostre teste, a nostra insaputa. Ergo: non sono “i nostri” sogni come - se lo ricordate - i sogni dei cani non appartengono solo ai cani ma anche a noi, in quanto posizionati più in alto.

Se tutto questo impianto teoretico viene traslato nell'auto-generazione scientifico-digitale, che già il filosofo-filologo Han descrive come intimamente “iper-reale” e cioè “più reale della realtà stessa”, come facciamo a far finta di nulla? È del tutto evidente che dietro ad ogni “pensiero computazionale” (che andrebbe coniugato sempre al plurale come un “contrassegno” e non singolare come un “tipo”) vi sia un marchio di fabbrica - una proprietà INTELLETTUALE (non socialmente “governabile” eticamente) prima che industriale che genera “ramettitudine” cognitiva di largo consumo e strutturandola profittando del fatto che essa sia “indistinguibile” se ben codificata e ben codicizzata, in senso strettamente informatico.

Se volete cogliere a pieno quanto questo “fare” sia già all'opera vi invito caldamente a cercare le interviste rilasciate dai gruppi-test che hanno provato gli ultimi “visori” della Apple all'interno delle università americane. Non stiamo - qui - parlando di “giochicchiare” con sedici sensori intorno alla nostra testa. Stiamo parlando di test “specifici” atti a mettere in crisi il nostro già fragile senso della realtà al punto che - quella digitale - finisce con l'apparire “indistinguibile” come esattamente supposto da Peirce alla fine del percorso semiotico.

In questa ottica il tanto vituperato smartphone che ha “rovinato” il médium fotografico s-materializzandolo e cambiandone l'agensività globale altro non sarebbe che un dispositivo intermedio vuoi proto-visore vuoi proto-spatial-computing che - ovviamente - per “sussistere” come possibilità rappresentativa verosimile ha bisogno di “aumentare” la realtà verticalizzandola attraverso processi che dalla semiosi possono essere descritti e capiti opportunamente.

Ergo: se già lo smartphone con le sue più recenti implementazioni AI è “in dissolvenza” [obsolescenza programmata] nei rispetti dei visori in programma [nel futuro-possibile] figuriamoci quanto “anacronistica” sia la macchina fotografica come trasportata sub-ordinatamente dal mondo dell'analogico che, infatti, “perde pezzi” senza soluzione di continuità. Come perde pezzi - giustamente - anche la comunità dei “foto-amatori” in quanto realtà separata dal resto del mondo: in quanto ingogitati dalla e nella “forma” emergente in sé per sé.

Fare! - senza chiedersi più “Che fare?” dinnanzi ad un problema che riguarda e coinvolge tutti - come accadeva al tempo dei grandi pensatori otto/novecenteschi, è anch'esso - per quanto secondità nella semiosi - un residuo della Storia: la strategia che contraddistingue la nostra epoca. Intanto cachiamo, senza curarci minimamente di alcun tempo di latenza e di alcuna dinamica relazionale e dopo vedremo - i più fortunati - su cosa avremo cacato.

Ciao!

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