user250123 | inviato il 31 Maggio 2024 ore 9:47
REFRAIN Ho sempre affermato, sin dall'inizio, che questa analitica rabdomantica de "I segni nella fotografia digitale" respinge l'approccio rimozatico in favore di quello arborescente. Noi possiamo anche etichettare sotto la voce generale "artigiani" gli elettricisti ed i falegnami, mettendoli uno a fianco all'altro per nostra praticità tuttavia, operare in questo modo, qui sarebbe antiproducente e foriero di dualismi dovuti all'iper-simbolismo sottinteso dall'etichetta "artigiani". Io preferisco "vedere" - gerarchicamente - il boscaiolo vicino al falegname [sotto l'etichetta "legno"] come l'elettricista vicino al tecnico della domotica [sotto l'etichetta "corrente elettrica"] . Ciò distanzia, coerentemente, il legno dalla corrente elettrica come entità naturali ed allo stesso tempo consente di indagare come, questo genere di gerarchia tra le "prospettive", si rifletta nelle modalità di comunicazione che poi sono il locus - altrettanto naturale - della semiosi stessa. Giunti come siamo a pagina 13 do per assodato il fatto che vi sia chiaro che la metodologia d'indagine è essa stessa una "rappresentazione" e che tutta questa attenzione a scandagliare la comunicazione e gli aspetti semiotici che la governano è finalizzata a costruire la base teoretica che poi "riverseremo" nel meta-medium post-fotografico s-materializzato [digitale] . |
user250123 | inviato il 01 Giugno 2024 ore 8:56
ROMPICAPO Lo status, abbiamo asserito, viene trasmesso attraverso le frontiere tra le specie grazie all'uso di modalità di comunicazione linguistiche e non, dirette ed oblique. La comunicazione "letterale" ha luogo quando un essere [un sé] può ospitare il punto di vista soggettivo dell'altro. Questo concetto noi umani c'è lo siamo "rappresentato" sempre in modo gerarchico e vi faccio due esempi: da un lato abbiamo un Grande Orologiaio [un "dio"] che può ascoltare ed intendere le nostre preghiere e dall'altro - in quanto esseri "superiori" - anche noi possiamo capire la "parlata" dei cani. Ma come funziona all'incontrario? Cioè come fa un essere [un sé] posizionato gerarchicamente ad un livello "inferiore" a comunicare con chi gli è posizionato poco sopra? Non può adottarne "letteralmente" la prospettiva e quindi deve fare ricorso a degli espedienti. Questi espedienti possono essere figurati come speciali canali di comunicazione e, come abbiamo visto, la "metafora" - come concetto - è quello strumento che consente di stabilire "connessioni" e allo stesso tempo "differenzia" salvagardando dall'indistinzione. Possiamo ora affrontare un rompicapo: se la metafora è cosí importante persino nei nostri sogni umani, che vengono "intepretati" e lo ammettiamo tranquillamente contemplando uno "scarto" dovuto alla giustapposizione tra la modalità percettiva in stato di veglia e quella onirica perché - viceversa - noi interpretiamo "letteralmente" la comunicazione canina sia con il cane sveglio che con il cane dormiente (ad esempio quando "borbotta" nel sonno). Perché questa "letterale" fiducia, questo "credito" verso loro e non verso noi? Ciò accade non perché i cani siano esseri "speciali" ma perché "speciale" - privilegiato - è il nostro punto d'osservazione ovvero la nostra prospettiva. Lo "scarto" tra metaforico e letterale viene a mancare, almeno per un momento, perché i cani e gli umani si uniscono in un unico campo affettivo che trascende i loro confini di specie e diventano di fatto un singolo sé emergente [ON] estremamente effimero distribuito lungo due corpi. |
user250123 | inviato il 01 Giugno 2024 ore 9:36
FIDUCIA Lo dico in parole più semplici: mentre i nostri sogni appartengono solo a noi umani i sogni dei cani non appartengono solo ai cani. I sogni canini sono anche "parte" degli obiettivi, delle paure e delle aspirazioni umane. E se così anche non fosse questo è - comunque - l'unico modo in cui noi umani possiamo "realisticamente" figurarceli a causa o per merito della nostra prospettiva generale. Guardate su questo punto come si evidenzi - drammaticamente - il fatto che ciò che è "reale" non conti nulla nei rispetti di ciò che è "realisticamente" rappresentabile. Tutti questi intrecci auto-generativi e conseguenti "emersioni" sono fatti dinamici piú che culturali, anche se non del tutto non-culturali. Allo stesso modo: sono biologici da cima a fondo, ma non riguardano solo i corpi e quindi non riguardano solo il cognitivismo. Questi processi di “divenire con” gli altri cambiano il cosa significhi essere "vivi": cambiano ciò che significa essere umani cosí come cambiano cosa vuol dire essere un cane o persino - nel nostro stato di cose - cosa significhi essere "pensiero computazionale" [preda/predatore] inserito in un corpo s-materializzato digitale come è divenuta l'immagine in senso lato. Ciò che - da diverse prospettive - gli accademici sollevano come "questione" è che dobbiamo fare molta attenzione ai pericolosi, provvisori e molto fragili tentativi di "comunicazione" – in breve, alla politica – implicati nelle interazioni tra diversi generi di sé che abitano posizioni molto differenti e spesso diseguali. Perché? Semplice: perché tali tentativi sono inestricabilmente legati a questioni di "potere". La negoziazione della tensione tra i sé è qualcosa che passa inosservata all'utenza non adeguatamente formata tuttavia è un problema che si presenta costantemente nel posizionarsi “in relazione” ai diversi generi di altri esseri che "abitano" il mondo. I pidgin trans-specie [come rappresentazione presa in prestito dalla semiotica] non si limitano ad incorporare iconicamente ed a inventare nuove grammatiche comunicative ma si conformano anche a qualcosa di piú astratto che riguarda le possibilità "referenziali" disponibili per qualsiasi genere di sé, indipendentemente da quale sia il suo status - umano, organico o persino digitale-numerico - il che implica i "vincoli" di determinate forme semiotiche. La semiosi, lo ripetiamo, non fotografa l'istante ma osserva tutto in prospettiva e da tutte le angolazioni possibili. A loro volta questi "vincoli" sono generatori di "forme" che si instanziano, evolvendosi, appunto sull'asse delle generazioni. Ciò che si ottiene è un propagarsi fluido - senza step cognitivi a se stanti - attraverso domini radicalmente diversi, ed è in questo modo che giungono ad acquisire una peculiare efficacia sociale. Ergo: la fotografia digitale si è precisamente "propagata" socialmente nel corpus degli smatphones perché questo corpus-mutante era quello intrensicamente più adatto ad ospitare le successive instanziazioni dell'emergente "pensiero computazionale". In qualche misura tutto ciò era "implicito" già quando il primo telefonino con fotocamera annessa ha fatto la sua comparsa, emergendo, "nel mondo". |
user250123 | inviato il 01 Giugno 2024 ore 12:38
METAMORFOSI È del tutto evidente che la fotografia, dall'ultimo scorcio del Novecento, digitalizzandosi ed implementandosi al "telefono portatile" abbia modificato la propria agensività nel mondo: il travaso ha comportato non solo la mutazione "genetica" del medium fotografico in meta-medium [un "interprete" ponte tra altri medium emergenti] ma ha generato processi semiotici con "noi" utenza mortale e con chi questi dispositivi mutanti produce. Il punto di vista di ciascuno è solo relativamente importante mentre - molto piú descrittivo - è cogliere in chiave dinamica il senso stesso della metamorfosi in corso per tentare di indovinare il futuro-presente. Se esiste ancora, nel 2024, una figura ampiamente anacronistica come "il fotografo" ed uno strumento a sé stante, già mezzo-fantasmatico, come la "macchina fotografica" non è affatto scontato che questi continueranno ad esistere in un domani oramai prossimo e non sono assolutamente apocalittiche quelle visioni filosofico-scientifiche che contemplano un mondo "senza fotografia" per come l'abbiamo intesa noi uomini fino a qui. Il punto, anziché escludere ciò che si ritiene "impossibile" o anche solo “sgradevole” accada, è ritornare a quella definizione iniziale di Peirce sulla "sensazione" perché è tutto attorno a quella definizione che ruota. Persino in chiave di "potere". Dice Shunryu Suzuki in "Mente zen, mente di principiante": "È proprio chi vive fuori del monastero a sentirne veramente l'atmosfera. Chi effettivamente pratica all'interno, non sente niente". Ecco, anche se non amo particolarmente fare ricorso al pensiero orientale, questa citazione apparentemente dualistica [dentro-fuori] - incorniciata nella metodologia zen - assume il dono della "chiaroveggenza" della semiosi di Peirce, che invece è estremamente occidentale come approccio allo scibile umano ed oltre-umano. E non per nulla la semiosi, come ho più volte detto, è industrializzabile. Ma lo vedremo meglio trattando il tema delle "forme" e del loro "divenire". |
user250123 | inviato il 01 Giugno 2024 ore 15:40
IPER-REALE Se la filosofia può essere localizzata possiamo dire che, ai giorni nostri, sia visibile una certa tendenza alla chiusura a riccio del pensiero tedesco-moderno. Ciò non è un “male” ma segna una differenza (l'ennesima) nei rispetti del pragmatismo americano e specificatamente californiano ivi compresa la “colonia culturale” sud-coreana. Questo stato di cose è ben descritto dal filosofo nativamente sud-coreano Byung-Chul Han che poi, nella vita accademica, ha adottato una analitica tedescofila al punto che da molti è stato visto come l'erede naturale del cinismo cosmico nietzschiano. Di sicuro c'è che Han è prima filologo e solo dopo filosofo esattamente come Nietzsche ma, prima ancora, Han in Corea del Sud è stato anche ingegnere e la sua “furiosa” critica verso Samsung, in patria, ha lasciato strascichi nelle università che da Samsung stessa sono finanziate. Naturalmente Han non è così sciocco da teorizzare un attitudine complottistica della tecnologia moderna ma - speculativamente - indaga con passione tutti i termini e le usanze che vediamo emergere nella modernità. Come in Nietzsche anche in Han è ravvisabile un (pre)giudizio [ci sono quasi sempre dei “troppo” di troppo] ma ciò non toglie che il suo apporto filologico da “svizzero-tedesco” sia estremamente utile per “vedere” la semiosi in corso. Sua, ad esempio, è l'intuizione di definire come “iper-reale” il prodotto fotografico [immagine] ottenibile tramite il supporto digitale per distinguerlo “sensorialmente” da quello ottenibile per via analogica. Nel nostro discorso ci interessa cogliere le distinzioni che opera Han senza “accompagnarlo” fino in fondo - e fermandoci un attimo prima che intervenga il suo moralismo. |
| inviato il 01 Giugno 2024 ore 16:01
Il segno nella fotografia digitale è il segno in un UDO. Matteo Lupetti, UDO. Guida ai videogiochi nell'antropocene, Edizioni Sido. |
user250123 | inviato il 01 Giugno 2024 ore 16:33
@Canti Del Caos Beh, si, a naso è molto attinente al contesto. Non l'ho letto ma ora lo leggerò (grazie). Già il riferimento all'antropocene dice molto e leggendo che anche Lupetti si rifà a Donna Haraway, che ho citato spesso, mi dice che l'allineamento c'è. D'altra parte non sto “inventando” nulla, unisco puntini per vedere che disegno salta fuori alla fine. Iconicamente potente questo accostamento dei videogiochi alla fotografia digitale “implementata” dall'AI. Indistinzione? |
user250123 | inviato il 02 Giugno 2024 ore 8:41
SELVATICO No, non ha a che fare con la "cancel culture" ma anche quella è emersa nel mondo "al momento giusto", un poco come la tecnologia digitale e soprattutto le sue implementazioni "intelligenti". La ri-definizione, il re-inquadramento di ciò che è oppure non è da considerarsi come "selvatico" [non-familiare] lo si deve a Viveiros de Castro. Nella nostra tradizione cartesiana euro-americana si è sempre presupposto che esista "una Natura" uniforme nella quale si implementano "rappresentazioni" molteplici, variabili e culturalmente specifiche. Ho anticipato questo concetto nella voce ERRANTE a pag. 11. L'etichetta sociologica di questa prospettiva è il multiculturalismo. Viveiros de Castro invece parla di multinaturalismo: il presupposto, in questa prospettiva, è che esistano molte Nature differenti frutto delle "disposizioni corporee" dei diversi generi di esseri che popolano l'universo. Ma, per Castro, c'è una sola cultura – una prospettiva dell'io che tutti i sé, umani e non umani, abitano. La cultura intesa in questo senso è una prospettiva dell'io. Il che significa che, dalle loro prospettive dell'io, tutti gli esseri vedono come culturali le differenti nature che abitano. Quello che noi umani vediamo come "selvatico" è, quindi, visto da un'altra prospettiva, domestico e viceversa. La domanda che sorge è se vi sia una "eco" tra culturale e naturale, tra domestico e selvatico. E come avere cognizione di tale risonanza? Non è qualcosa a cui può rispondere il multinaturalismo in sé per sé anche se, come punto di partenza, è sicuramente più appropriato - non essendo dualistico - dell'approccio multiculturale. |
| inviato il 02 Giugno 2024 ore 10:00
“ Iconicamente potente questo accostamento dei videogiochi alla fotografia digitale “implementata” dall'AI. Indistinzione? „ Una relazione tra umani (organico) e macchine (inorganico) che nel videogioco è particolarmente evidente perché la macchina ha bisogno che noi 'aggiustiamo' il gioco agendo sui comandi; d'altra parte la macchina disegna un mondo - comprensivo di bug e glitch. Cioè a me pare che Lupetti voglia dissolvere il diaframma intellettuale che separa organico e inorganico, per pensare una relazione. Con il libro di Lupetti, ho comprato anche "My Favorite Game. Fotografia e videogioco" di Simone Santilli, però devo ancora iniziarlo... |
user250123 | inviato il 02 Giugno 2024 ore 11:26
@Canti Del Caos Ecco, se Lupetti lo voglia "dissolvere" - questo diaframma - oppure solo "manifestarlo" lo capirò solo leggendo il suo libro. Personalmente concordo sulla premessa che poi è il fine stesso: pensare il tutto in termini di relazione [trans-specie] . Io l'ho presa nel modo più largo possibile, ragionando anzitutto sulla dicotomia tra esseri-simoblici versus esseri-non-simbolici e innestando, qui e là, piccoli accenni [delle premesse] che rimandano potenzialmente all'inorganico però "osservato" nella sua declinazione di intelligenza scientifica, come definita da Peirce stesso nella semiosi. Quindi contemplo anch'io l'inorganico come un sé-vivente ma non in senso assoluto, bensì contestualizzato alla sua possibilità di "crescere" creando semiosi. Ho ritenuto opportuno inquadrare l'intera "rappresentazione" di questa analitica in chiave antropologica più che sociologica per creare, come dire, un'atmosfera, un clima generale, di verosomiglianza che consenta - a chi legge - di seguire passo a passo l'evoluzione di questo ragionarci sopra. Insomma, i cani come i formichieri mi servono per mantenere un profilo discorsivo mi auguro adeguato, e non troppo filosoficamente astratto. Abbiate la bontà di considerare che tutto ciò viene fatto nei ritagli di tempo ed i "dove ero arrivato?" non mancano... p.s. - preso nota anche del libro di Santilli. |
user250123 | inviato il 02 Giugno 2024 ore 12:53
ISOMORFISMO Se, da un lato, la Cultura [in maiuscolo sociologico] potrebbe non essere il miglior indicatore di "differenze" [vedi Castro] - dall'altro - la "differenza" potrebbe non essere il miglior punto di partenza per comprendere il piú ampio problema delle "relazioni". È in questo senso che il multinaturalismo, per quanto valido come approccio, non può spiegarci tutto. Allora, per fare un passetto in avanti, prendiamo in prestito dal matematico di algebra astratta Douglas Hofstadter la sua definizione di isomorfismo la quale dice che: "Si parla di isomorfismo quando due strutture complesse si possono applicare l'una sull'altra, cioè far corrispondere l'una all'altra, in modo tale che per ogni parte di una delle strutture ci sia una parte corrispondente nell'altra struttura; in questo contesto diciamo che due parti sono corrispondenti se hanno un ruolo simile nelle rispettive strutture". Cosa ne pensate di questa definizione? Occhio alla parola "ruolo" soprattutto. Possiamo figurarci l'emergere di "qualcosa" attraverso una serie di relazioni isomorfiche piuttosto che "partire" da una differenza? Ciò sicuramente può essere visto in continuità all'approccio semiotico e, in questo senso, il concetto di isomorfismo ci serve per comprendere meglio qualcosa che, a livello superficiale, può sembrare di poco conto: le peculiari caratteristiche delle "regolarità", degli "abiti" e dei "modelli". |
user250123 | inviato il 02 Giugno 2024 ore 15:34
FORME Per arrivare al cuore [alla pompa] della dinamica semiotica dobbiamo comprendere come emergano determinate configurazioni dei “vincoli” [del possibile] e la particolare modalità in cui tali configurazioni si propagano nel mondo, risultando in una sorta di modello. In altre parole, affrontare questo passaggio del ponte concettuale richiede una certa comprensione di quello che definiamo come “forma” nel nostro stato di cose. Cominciamo dicendo subito che le “forme” sono il risultato di qualcos'altro rispetto all'imposizione arbitraria di uno “schema” cognitivo umano o di categorie culturali. Chiaro? Dimenticatevi del dualismo cartesiano. Qui tratto le “forme” come qualcosa di “oltre l'umano” e - nel medesimo tempo - mi devo tutelare dall'accusa di sostenere tesi filosoficamente platoniche che prevedono l'esistenza separata di un regno trascendente di triangoli o quadrati ideali, per cosí dire. Dimenticatevi anche dell'idealismo platonico. Più pragmaticamente: la mente umana, siamo tutti d'accordo penso, ha a che fare con generalizzazioni, astrazioni e categorie. Detto altrimenti, la “forma” è centrale ed inscindibile dal pensiero umano. Questa affermazione, però, alla luce di quanto ci insegna l'approccio semiotico, noi la ri-formuliamo così: i vincoli [del possibile] emergono con [insieme a] il modo di pensare specificatamente umano e - solo dopo - si “traducono” in modelli che possiamo chiamare “forme”. |
user250123 | inviato il 02 Giugno 2024 ore 18:03
TIPO, CONTRASSEGNI E NOMINALISMO Vediamo di sbrogliare la matassa con un esempio visivo-simbolico: - centrale, per il pensiero umano, è il linguaggio e questo emerge dalla logica associativa delle referenze simboliche. Questa cosa, a sua volta, si traduce - ad esempio - in un “concetto generale”; - un concetto generale è, per esemplificare ulteriormente, la parola “uccello”. In quanto concetto generale è maggiormente vincolato rispetto alle possibili enunciazioni in cui è instanziato; - quindi le enunciazioni hanno meno vincoli, sono piú variabili e piú “complicate” rispetto al concetto che esprimono; - ciò significa che ci sarà un'ampia variazione nei modi in cui ogni particolare enunciazione della parola uccello “suona” effettivamente; - malgrado ciò il concetto generale a cui si riferiscono tutte le enunciazioni particolari permette a queste di venire interpretate come istanziazioni significanti del concetto di “uccello”; Fino a qui penso sia chiaro che sto cercando di far emergere le “differenze” tra concetto generale ed enunciazioni dello stesso. Il concetto generale possiamo chiamarlo anche “tipo” mentre le enunciazioni le possiamo chiamare anche “contrassegni”. Un “tipo” è piú regolare, piú ridondante, piú semplice, piú astratto e - in definitiva - piú schematico dei “contrassegni” che lo istanziano. Ultimo passaggio: pensare tali concetti in termini di “forma” permette di cogliere la caratteristica generalità mostrata da un tipo. Allora: visto che il linguaggio, con le sue proprietà simboliche, è squisitamente umano, è fin troppo facile per noi relegare tali fenomeni formali alle sole menti umane. E questo ci spinge ad assumere una posizione cosiddetta “nominalista”. Ci spinge cioè a pensare alle “forme” unicamente come qualcosa che gli esseri umani impongono su un mondo altrimenti privo di modelli, categorie o generalità. Tuttavia, assumere questa posizione acriticamente equivale a permettere al linguaggio umano di “colonizzare” tutto il nostro pensiero e questo genera a sua volta quel dualismo che noi - invece - dobbiamo superare grazie all'approccio semiotico. |
user250123 | inviato il 02 Giugno 2024 ore 21:58
EXTRA-LINGUISTICO Per quanto detto nelle 12 pagine precedenti qui si sostiene che il linguaggio umano sia innestato in un piú ampio campo "rappresentazionale" costituito da processi semiotici che emergono e circolano anche nel mondo vivente non-umano, ergo, proiettare il linguaggio su questo mondo non-umano ci impedirebbe di vedere le altre modalità rappresentazionali e le loro caratteristiche. Lo so che è un cane che si morde la coda ma, al tempo stesso, costituisce anche la bellezza intrinseca di questa sfida filosofica. Nel nostro stato di cose si sostiene che l'umano è solo una delle origini della "forma" e quindi si sostiene che anche l'oltre-umano abbia la capacità di originare "forme". Ciò significa che, come nel caso delle rappresentazioni simboliche, anche queste modalità semiotiche [quelle costituite da icone e indicali] mostrano parimenti dei vincoli [del possibile] , che si traducono - successivamente - in un determinato modello. Esattamente come nel linguaggio umano (vedi l'esempio poco sopra) ma con altri mezzi. Per focalizzare questa possibilità extra-linguistica, come link, si riveda la voce GIOCARE a pagina 12. |
user250123 | inviato il 02 Giugno 2024 ore 22:43
MORFODINAMICO Il fatto che la semiosi esista oltre la mente umana ed i contesti [natura-cultura] che questa crea indica che gli abiti, le regolarità o - in termini peirciani - i “terzi”, siano effettivamente “reali”. Stop! Cosa intendo con effettivamente "reali"? Intendo che tali "generali" possono manifestarsi in modi indipendenti dagli esseri umani e che possono avere effetti nel mondo. Tuttavia – e questa è la chiave – mentre la semiosi è intrinseca al mondo vivente [anche] oltre-umano, la "forma" emerge da quello non vivente e ne è parte integrante. Notare molto bene: la semiosi sta al mondo "vivente" come la forma sta a quello "non-vivente". Questo assunto-equazione si traduce nel fatto che la "forma" sarebbe una sorta di "generale reale" nonostante il fatto che non sia viva e non sia un tipo di pensiero. Ciò è un pochino difficile da "vedere" perché dati i modi in cui la vita e il pensiero si servono della "forma" essa risulta "impensabile" al di fuori del pensiero stesso. Per superare questo ostacolo è necessaria un poca d'astrazione ma l'ipotesi filosofica è che - oltre la vita - esista una particolare manifestazione di un "generale". I generali "normali" li abbiamo già trattati in precedenza: i fenomeni emergenti sono dei generali tanto quanto gli abiti e le regolarità e - tutti questi - in un modo o nell'altro sono il risultato dei vincoli [del possibile] . Ora però, trattando la "forma" come un generale "speciale", enfatizzeremo alcune delle disposizioni geometriche dei modelli implicate nei modi in cui i generali "normali" stessi si esprimono. Per focalizzare questo concetto si riveda la voce PATTERN a pagina 8 dove faccio anche un esempio concreto che aiuta sempre. Molte di queste "disposizioni geometriche" [patterning] possono essere classificate come fenomeni emergenti auto-organizzati, o, seguendo la terminologia ufficiale della semiotica, li definiremo come “morfodinamici” – ovvero caratterizzati da dinamiche che generano forma. Voilà! Eccovi servita una bella "provocazione" sulla forma al di fuori del cognitivismo spiccio - e totalmente dualistico - alla Michael Freeman [il fotografo] . |
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