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Il segno nella fotografia digitale


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user250123
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inviato il 27 Maggio 2024 ore 17:58

PRODOTTO

Come sempre la semiotica può [e vuole] essere “vista”. Ed allora: l'equazione appena esposta sul valore è particolarmente evidente quando torniamo a considerare che il “noi” che ci racchiude non è un “noi” che si è fissato una volta per tutte ma è un sé-emergente che nelle sue configurazioni future può includere molti “generi” di sé emergenti . “Noi umani”, se ci pensate, siamo già “i prodotti” dei molteplici esseri non umani che ci hanno reso, e continuano a renderci, quello che siamo. In un certo senso, le nostre stesse cellule sono dei sé ed i nostri corpi possono essere rappresentati come immense ecologie di sé. Nessuno di questi sé - però - è un locus di “morale” in sé e per sé, sebbene quelli dotati di piú ampie proprietà emergenti (proprietà come la facoltà di pensare moralmente, nel nostro caso) possano sussumerli. Ergo: come, in un lontano passato, gli organuli erano dei sé batterici con una vita autonoma dai quali poi è emerso l'uomo allo stesso modo l'incontro multi-specie con nuove forme di intelligenza scientifica ci impone di “indovinare e riflettere” [vedi voce SPECULAZIONE] i futuri presenti con i quali, giocoforza, siamo entrati ed entreremo sempre più in strettissima relazione [dinamicamente] . Lo so, non ci piace essere visti come un “prodotto”, non è rassicurante. Come link rivedere voce CONSAPEVOLIZZARE.

user250123
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inviato il 27 Maggio 2024 ore 19:18


@Giuseppevella

Un qualunque sistema (strumento) di misurazione, per quanto sofisticato possa essere, inficia la misura stessa.


Questo pare sia un dato di fatto incontestabile ed incontrovertibile.


Il risultato della misura, se confrontato con ciò che riteniamo attendibile, può destare la crisi.


Questo tu lo puoi affermare ma io non lo posso confermare. Se la crisi nasce da risultati che non combaciano con le aspettative il modo per superare la crisi è fare come Procuste [vedi voce PROCUSTE a pagina 1] adattando o i risultati o le aspettative. La crisi di cui ho parlato io ha una genesi diversa ovvero la mancanza di locus spazio-temporali “privilegiati” che la semiotica contempla solamente come segni in relazioni dinamiche. La crisi è epistemologica per la mancanza di punti di riferimento “assoluti”.


Questa "crisi" dunque, è lo stimolo benvenuto per nuove riflessioni e/o strategie per ricercare la "verità”.


Verità? Come la “realtà”? Questo ci porterebbe pericolosamente nella trappola del pensiero dualistico cartesiano. Non è un male, sia chiaro, anzi va benissimo in mille occasioni del quotidiano ma non è il senso né del mio approccio speculativo né di quello semiotico in generale che parla, più specificatamente, di “realismo”, di “relazioni” e di “processi” dinamici - il tutto per ottenere una rappresentazione il più verosimile possibile di come “pensi” tutto ciò che può essere “pensato”. E questo non è un gioco di parole.

avatarjunior
inviato il 27 Maggio 2024 ore 20:32

La "verità" non è statica. Muta ed evolve nel tempo per effetto delle crisi e delle conseguenti nuove e più approfondite conoscenze e riflessioni.
La "realtà" muta anch'essa ma per effetto delle nostre relazioni e processi dinamici.
Il realismo di un anziano, che ha colto molti "segni" , ha vissuto molteplici "relazioni" e che sia consapevole del "processo dinamico" in cui è stato partecipe , è molto, se non assolutamente, diverso da chi giovane comincia a riconoscere i "segni" , cavalca nuove "relazioni" e intravede nuovi "valori".

user250123
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inviato il 27 Maggio 2024 ore 21:25

@ Giuseppevella

Si, posso concordare.
Tengo in serbo - per chissà quando - una mia esperienza personale sulla faccenda limitatamente all'incontro accademico tra artisti analogico>digitali e nuove leve digitale>analogiche, naturalmente con me in veste d'osservatore interessato e non come protagonista principale.

user250123
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inviato il 27 Maggio 2024 ore 23:07

CHI DECIDE?

Duole dirlo ma - anche Nietzsche - ha avuto i suoi alti e bassi. Sicuramente, almeno in un circostanza, come scrive la filosofa Donna Haraway nel suo "Manifesto Cyborg", ha usato un "troppo" di troppo. Cerco di spiegare il perché: la semiosi e la morale devono essere - obbligatoriamente - pensate insieme, perché la morale non può emergere senza il simbolico e di una morale indipendente dal simbolico non sappiamo che farcene a parte usarla come pretesto dualistico per farci la guerra. In termini di valore, il qualificativo “troppo” [in "troppo umano"] non è neutro al contrario di “distintivamente umano". L'aggettivo nietzschiano "troppo" contiene - in sé - già un (pre)giudizio morale e quindi è attendibile semioticamente solamente nella misura in cui indica che è in gioco qualcosa di potenzialmente problematico, ma non oltre.

L'incontro multi-specie tra sé-viventi umani e non-umani è quel "contesto" nel quale ci confrontiamo in maniera decisiva con ciò che possiamo definire come “diversità significative” ma, come abbiamo detto, in semiotica esse sono accettabilmente ponderabili [vedi voce NAGEL vs PEIRCE, a pagina 8] . Ora fate molta attenzione: se gli altri sé-viventi (che non siamo noi) non sono esseri simbolici ne consegue che non siano neppure sedi [loci] di giudizio morale. Giusto? Ed allora: come procedere [?] e come decidere [?] quale "prosperità" incoraggiare – facendo spazio alle molte morti da cui dipende ogni prosperare – è in sé un problema morale che riguarda chi, se non noi umani? Riguarda le aziende (Apple, Google, Samsung etc.) oppure riguarda tutti noi? Riguarda i loro bilanci economici oppure i nostri bilanci esperenziali?

Piaccia o non piaccia la morale è una caratteristica costitutiva generale della vita umana; è una delle sue tante difficoltà quotidiane, non solo speculative. Ma, paradossalmente, essa può essere compresa meglio - persino meglio di come potè fare Nietzsche stesso - mettendola in "relazione" a dei sé-viventi non-umani. Questa osservazione - nel nostro stato di cose - ha il suo significativo peso perché, a poco a poco, trattando relazionalmente e dinamicamente sé-simbolici e morale come sé-non-simbolici e valore vedremo "emergere" un nuovo concetto, che è quello - tanto bramato, quanto sottaciuto - del "potere" e sopratutto del suo controllo, con tutti i problemi che esso ha sempre comportato, comporta oggi e comporterà anche in futuro.

user257478
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inviato il 28 Maggio 2024 ore 6:08

Nocram

"Dovremmo essere rimasti sufficientemente in pochi a seguire questa discussione da poter alzare l'asticella senza remore ed anche se mi rivolgo ad un pubblico eterogeneo non dispero di rendermi ugualmente comprensibile. "

Leggo e rileggo con attenzione ( cerco di leggerti in momenti che non ho altre distrazioni ) per cercare di comprendere il più possibile questo tuo chiamiamolo vocabolario non si può liquidare con una lettura veloce ti induce a pensare cosa piuttosto rara di questi tempi.
Ciao ;-)

user250123
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inviato il 28 Maggio 2024 ore 8:48

@ Rocco Vitali

Grazie. Allora continuiamo a coltivare insieme il dubbio. ;-)

LEGISLATORE

Brian Hare, un relativamente giovane antropologo, è una di quelle figure accademiche di spicco che preferisco per figurarmi come evolva la nostra "sensazione" cognitiva [vedi voce SENSAZIONE, pag. 1] dinnanzi all'onnivoracità del supporto digitale. Similmente a come hanno fatto gli scienziati in biosemiotica, se interfacciamo la ricerca antropologica moderna agli studi sulle implicazioni della tecnologia nella vita dell'uomo moderno, la risultante potrebbe essere una rappresentazione sufficientemente verosimile, per quanto teorica, che cogla e localizzi molte delle criticità dell'industrializzazione "immagino-tecnica" più recente e soprattutto in corso di confezionamento nei laboratori di aziende private che però, oggi come oggi, hanno in mano il nostro futuro cognitivo stesso.

Dinnanzi a questo stato di cose il legislatore non può nulla se non "reagire" inseguendo decisioni altrui comprese quelle dettate dal libero mercato, in primis perché, per comprendere il mondo "emergente", ancora utilizza l'incudine ed il martello sociologico - il che gli è utile esclusivamente per far cassa [come-dove-quando-chi tassare] , ed in secundis perché - esso stesso - non può più fare a meno di "dipendere" cognitivamente da ciò che dovrebbe controllare per mezzo di quel posizionamento eticamente super-partes che dovrebbe indurlo ad agire moralmente per il "bene". La domanda "chi decide?" ha già una prima risposta: sicuramente non il legislatore.

Che sia il parlamento di uno Stato o di più nazioni, che sia una giuria da "concorso fotografico" o l'associazionismo compartimentato, togliamoci dalla testa l'idea che l'industrializzazione "immagino-tecnica" della semiotica possa essere arginata "rincorrendola" e "fissandola" a stati di cose [leggi, regolamenti, misure dissuasivo-deterrenti] non parimenti dinamici ed auto-generativi. Questo approccio non può funzionare perché, da un lato, è palesemente riduzionista ed arbitrario [iper-simbolico] e dall'altro non tiene neppure minimamente in conto quella che, con approccio squisitamente scientifico, l'ottimo Brian Hare già menzionato, definisce come "inculturazione filogenetica". Mi chiedo come vi "suoni" istintivamente questa espressione. E questo ci riporta nel nostro affascinante mondo speculativo.

user250123
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inviato il 29 Maggio 2024 ore 8:13

POLARITÀ

Nel mondo - "sotto diversi aspetti" [la fondamentale cornice peirceriana] - cani ed umani vivono in mondi indipendenti, tuttavia, le vite dei cani sono intimamente intrecciate con quelle dei loro padroni. Questo "intreccio" non riguarda solo il contesto circoscritto cane-uomo ma è anche il prodotto delle interazioni che i cani e gli umani intrattengono con il mondo biotico circostante e con il mondo socio-politico al di là di essi e nelle quali entrambe le specie sono immerse. Inoltre, le "relazioni" tra i cani e gli umani devono essere comprese nei termini di questa polarità: la struttura gerarchica su cui si basano è un fatto sia "naturalmente" biologico sia di "colonizzazione" culturale indotta (ma non nella stessa misura).

Attraverso un processo che in antropologia è stato denominato “inculturazione filogenetica”, i cani hanno permeato i mondi sociali umani fino a superare persino gli scimpanzé nella comprensione di certi aspetti della comunicazione umana. A noi questo esempio della "relazione" tra cane e uomano serve per "vedere" semioticamente come "diventare umani" nei modi "giusti" sia fondamentale per sopravvivere in quanto cani inseriti in un contesto di sé-simbolici. Nella sua storia evolutiva l'uomo si è sforzato di guidare i cani lungo questo percorso piú o meno alla stessa maniera in cui gli anziani aiutano i giovani a crescere e raggiungere l'età adulta, ed infatti, anche tutta l'educazione tra umani stessi è un processo che possiamo figurarci come fortemente polarizzato.

user250123
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inviato il 29 Maggio 2024 ore 10:49

PLASMARE

Se, con la memoria, torniamo ai tempi rigidamente disciplinari nei quali la sopravvivenza fisica dei cani dipendeva vuoi dalla loro utilità fattuale ma anche dalla loro capacità di "esibire" qualità umane cogliamo il fatto che - nella progressiva integrazione del cane nella società umana - , non c'è stato posto per i "cani-in-quanto-animali" se non in misura estremamente marginale. La loro selezione non è stata affatto solamente genetica ma ha riguardato precisamente quanto sottintende l'espressione articolata "inculturazione filogenetica". Tuttavia, i cani non sono semplicemente animali che "sotto diversi aspetti" diventano umani e la loro capacità di acquisire "attributi simili a.." è una caratteristica che noi, nel nostro stato di cose semiotico, possiamo facilmente estendere concettualmente ai sé-non-simbolici tenendo anche ben presente il fatto che la polarità di cui abbiamo parlato possa sempre, temporaneamente, invertirsi, ad esempio quando un cane vede l'umano come una "preda". Ciò vi dovrebbe portare a rimembrare quanto è già stato detto nelle voci SEDURRE e DENTI e ANACONDE E AMULETI e IETTATORE. Questa possibilità di "inversione" [mai del tutto escludibile] ci porta a constatare come la socialità non-umana [dei sé-non-simbolici] plasmi la comprensione della socialità umana cosí come la socialità umana [dei sé-simbolici] plasma quella dei non-umani. Il termine "plasmare" - per quanto vada circostanziato agli studi di Philippe Descola - può essere colto in continuità nel nostro discorso.

user250123
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inviato il 29 Maggio 2024 ore 14:36

SUBORDINAZIONE

Se la "socialità" trans-specie è qualcosa che si plasma bi-direzionalmente [es. uomo<>cane] è anche vero che la socialità si estende, come concetto, - ulteriormente plasmandosi - anche in quelle relazioni troppo "distintive" in cui sé-simbolici e sé-non-simbolici sono rimasti "invischiati" nel corso delle loro "specifiche" generazioni e lignaggi [come link vedere voce INSTANZIAZIONE, pag. 8] . Facciamo bene attenzione alle "relazioni" subordinate che questa situazione generale [tra “abiti”] comporta: il plasmarsi vicendevolmente trans-specie fa emergere socialità "reciproche" che poi rientrano nell'alcova intra-specie sull'asse delle susseguenti instanziazioni. È chiaro? E come possiamo noi, con un esempio concreto, rappresentarci tutto questo? Tramite il linguaggio of course: pensate, ad esempio, a come il lessico del digitale sia "subordinato" a quello antecedente dell'analogico, il che contestualmente provoca una enormità di fraintendimenti, nonché approssimazioni, simbolico-linguistiche (ad es. “negativo digitale”). Ma i problemi non finiscono qui.

user250123
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inviato il 29 Maggio 2024 ore 16:07

TENSIONE

Ho affermato che le “relazioni” trans-specie implicano spesso una non trascurabile componente gerarchica. Uomini e cani si “costituiscono” reciprocamente ma in modalità fondamentalmente ineguali per le due parti in causa e la “domesticazione” del cane è in parte dovuta al fatto che i progenitori dei cani erano animali altamente sociali che vivevano all'interno di relazioni di dominazione già ben consolidate [vedi ad es., il capobranco] . Adottare il “punto di vista” di un cane significa, in una certa misura, “divenire” un altro genere “con” quell'essere. Ma questa tipologia di intrecci è pericolosa se non stiamo attenti ad evitare quella che abbiamo definito come “cecità dell'anima”. La cecità dell'anima ed il divenire “un-altro-con-un-altro” sono gli opposti estremi di un continuum che abbraccia l'intera gamma dei modi di abitare un'ecologia di sé-viventi che “crescono” insieme. C'è una tensione costante, dunque, tra l'offuscamento dei confini tra le specie ed il mantenimento della differenza, e la sfida è trovare quei mezzi semiotici che sostengono questa tensione in maniera produttiva, senza lasciarsi trascinare in nessuno dei due estremi.

user250123
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inviato il 29 Maggio 2024 ore 23:11

SOGNARE

Dobbiamo agli studi psicologici ma soprattutto onirologici di Barbara Tedlock la frase: "I sogni non sono dei commenti sul mondo ma accadono in esso". Ciò, nel nostro sistema di cose, ci piace perché esprime un concetto che non è arbitrariamente dualistico (i sogni da una parte, la veglia dall'altra) e, se ci pensiamo bene, i sogni sono - nel simbolico umano - un luogo privilegiato per ogni tipo di "negoziazione" e deambulazione dell'anima stessa.

Il punto è che anche i nostri sogni vengono interpretati. E come? Per mezzo della metafora. Ergo: anche nel sogno vi è un incontro [io-tu] e quindi una "relazione" tra ciò che è "letterale" e ciò che è "metaforico". Tra i due piani, e ciò spero vi sia evidente, c'è comunicazione e - dove c'è comunicazione - c'è semiosi. Se c'è semiosi allora c'è anche tutta quella "matrice" che, muovendo dalle icone agli indicali ai simboli, permette sia la seduzione sia l'inversione tra i due piani [preda/predatore] e così avremo che il "letterale" può diventare "metaforico" ma anche viceversa. Per pura logica.

A cosa si riferisce il "letterale"? Si riferisce ad un'interpretazione [rappresentazione] abituale del mondo interna a un dato dominio. A cosa si riferisce la "metafora"? Concettualmente ad un "allineamento" di punti di vista situati in esseri che abitano mondi diversi [vedi voce UN CAPANNO, pag.9] . La distinzione tra figura e sfondo, dunque, nella metafora, può cambiare a seconda del contesto. Ciò che rimane costante - invece - è che la metafora stabilisce una differenza di prospettiva tra generi di esseri che abitano domini diversi.

Collegando i punti di vista di due esseri - e distinguendo allo stesso tempo - i diversi mondi che questi esseri abitano, la metafora come "strumento" concettuale costituisce un freno cruciale, nonché "naturale", posto dai sé-simbolici alla propensione verso la confusione [iconica] inerente al loro modo di interagire con gli altri esseri. Questo è tutto molto interessante limitatamente all'essere umano capace di sogni così "complicati" ma... come sognano i cani? Come sognano i sé-non-simbolici? E perché ci è utile saperlo nel nostro sistema di cose?

user250123
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inviato il 30 Maggio 2024 ore 7:13

IMPERATIVO CANINO

Parlare con i cani non è così scontato come possa sembrare. Ad esempio: noi vogliamo "parlare" con loro ma non vogliamo diventare cani come loro perdendo il nostro status di esseri umani, oppure, noi vogliamo "parlare" con loro ma probabilmente sveniremmo se li sentissimo risponderci in italiano (e poi chissà perchè in italiano e non in tedesco, ad esempio)... Per farla breve: il nostro "parlare" ai cani contempla e sottintende che essi - da bravi "sciamani" - abbiano la capacità e l'attitudine di "allinearsi" attraversando i confini trans-specie che li separano dai noi. Willam Hanks, linguista, allora ha coniato l'espressione "imperativo canino" per cercare di descrivere quella forma di linguaggio che noi umani utilizziamo quando addestriamo, per esemplificare, i cani da lavoro: da un lato il cane [figurativamente un "tu"] viene trattato come un essere umano cosciente e dall'altro viene de-soggettivizzato in quanto sé-canino. Il problema, qui, è che quel "tu" non è un "tu" e non lo potrai mai essere "realisticamente". Quel tu-canino, addestrabile per mezzo dell'imperativo canino, è piuttosto una terza persona [un IT] che - in allineamento [diventiamo un ON francese] - ci permette di "comunicare" attraverso i confini che separano i generi ma senza destabilizzarli.

user250123
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inviato il 30 Maggio 2024 ore 8:23

COMUNICAZIONI OBLIQUE

Gli imperativi canini rientrano in quel più ampio schema di cose che la semiotica chiama "comunicazioni oblique": se è vero che gli imperativi canini mettono un freno ai processi che minacciano di offuscare le distinzioni tra i diversi generi di esseri dall'altra parte il linguaggio che viene usato è contemporaneamente un'istanziazione [vedi voce INSTANZIAZIONE, pag. 8] di questo stesso processo di offuscamento. Ciò ci fa rientrare, coerentemente, nel dinamismo che caratterizza tutto il nostro sistema teoretico ed è qui che possiamo "vedere" emergere [come rappresentazione] quella sorta di pidgin [vedi voce PIDGIN, pag. 2] trans-specie che rende possibile - in potenziale, come futuro-presente - l'emersione di un vero e proprio "discorso" e cioè di qualcosa di molto più articolato e complesso del semplice interagire per mezzo di imperativi.

Vediamo qualche caratteristica strutturale del pidgin: 1) ridotta struttura grammaticale che poi, di instanziazione in instanziazione, evolve 2) nessi e nodi di subordinazione 3) mancanza di coniugazione uniforme [tu-it-on] con conseguente marcatura semplificata, approssimata, del sé 4) contesto "coloniale" e polarizzato. Queste quattro caratteristiche concorrono all'insorgere di nuovi linguaggi [grammatica-sintassi-lessico] che contengono, al tempo stesso, sia diversi elementi della lingua umana in sé sia diversi elementi di un "qualcosa" di pre-esistente ad essa [pre-simbolico] . Per rendere più chiaro quest'ultimo "qualcosa" di pre-esistente torno ai cani in modo che lo possiate "vedere": noi possiamo anche dire "bau bau" [o "gaf gaf" come dicono i russi] tuttavia noi non "abbaiamo" come fanno i cani e la nostra è solo una citazione (indeclinabile) del lessico canino. Ciò viene anche definito come "reduplicazione" ovvero un'iterazione iconica del suono che è, in tutto e per tutto, una tecnica semiotica che ci consente di entrare in modalità "referenziali" non umane e non simboliche.

Abbiamo un altro caso famoso ed universamente noto a cui possiamo fare appello per capirci meglio ed è quello del "maternese" ovvero la cosiddetta forma distintiva di linguaggio che i genitori e gli altri adulti usano quando parlano ai bambini nella fase in cui, questi, apprendono il linguaggio "degli adulti". Anche in questo caso tutte e quattro le caratteristiche del pidgin si distinguono chiaramente. Facile intuire come, in sociologia, questo "maternese" sfoci poi nel - a volte indigesto - "paternalismo" che è il modo nel quale un politico-amministratore comunica al suo gregge oppure una civiltà "evoluta" sottomette una civilità "primitiva". Oppure ancora qualcuno, un "capiscitore", ti dice cosa devi o non devi fotografare [In&Out] aggiungendovi due chili di moralismo totalmente arbitrario e fissato - nella morta roccia - come un comandamento [un link alla voce ARRENDETEVI, pag. 7, direi che ci sta tutto] .

user250123
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inviato il 31 Maggio 2024 ore 9:07

GIOCARE

Giocare implica, in sé per sé, una sorta di paradosso. Quando, per esempio, i cani giocano tra di loro azzuffandosi si mordono l'un l'altro ma senza farsi male. Secondo il già menzionato Bateson il mordicchiare giocoso: "denota il morso ma non denota ciò che sarebbe denotato dal morso". È all'opera una logica curiosa come se: “Le azioni che in questo momento stiamo compiendo non denotano ciò che denoterebbero le azioni per cui esse stanno”. A noi serve traslare questo "abito" nella semiosi perché ci permette di "vedere" come l'input a "non fare" qualcosa possa essere trasmesso anche ai sé-non simbolici.

Infatti, mentre in un registro simbolico la negazione è relativamente semplice da comunicare, è piuttosto difficile farlo nelle modalità comunicative iconiche ed indicali. Come possiamo "negare" una somiglianza o una relazione di contiguità senza uscire dalle forme strettamente iconiche o indicali di referenza? Dire simbolicamente “non farlo” è semplice poiché il regno del simbolico implica un certo livello di separazione dal "qui e ora" e si presta facilmente a questo genere di "meta-affermazioni" linguistiche. Ma come si può dire “non farlo” indicalmente?

L'unico modo per trasmettere indicalmente l'imperativo canino negativo [pragmatico] “non mordere” consiste nel riprodurre l'atto di mordere - qui e ora - separandolo dalle sue consuete associazioni indicali.Tornando al nostro esempio visivo: i cani quando giocano mordicchiano e questo “morso” è un indicale di un vero morso, ma lo è in modo paradossale giacché impone una "rottura" nella catena indicale che altrimenti sarebbe "transitiva". Cosa si genera? Si genera una assenza: l'assenza di un vero morso (con tutte le sue conseguenze).

Allora, ciò che noi chiamiamo simbolicamente "gioco" che cos'è? È un'assenza di conseguenze che fa "emergere" un nuovo spazio relazionale ed in questo spazio emergente il mordicchiare è ancora un indicale di un morso, ma non-più un indicale di cui quel morso stesso è un indicale. Vi è stata semiosi, li nel mezzo, e quando un addestratore umano serra la bocca del cane esortandolo a "non raccogliere" pur avvicinandolo al giocattolo-preda stesso oppure lo distrae per mezzo di altri espedienti, riproduce sia via linguaggio [pidgin] sia via indicale questa situazione di rottura transitiva.

Che cosa ne pensi di questo argomento?


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