user250123 | inviato il 22 Maggio 2024 ore 16:29
ANIMA Guardate come è potente il linguaggio: un modo storico-culturale, universalmente accettato, per esprimere il fatto che i sé si estendono oltre i loro corpi fisici è dire che i sé hanno un'anima. Nevvero? Che per voi la questione dell'anima sia da ricondurre cinicamente alla “superstizione” oppure, religiosamente, ad un Grande Orologiaio è affar vostro, la semiotica, pragmaticamente, non se ne cura e va oltre parlandone in termini di “qualità relazionale” e di “indicatore di comunicazione e comunione tra i sé”. L'anima, secondo Peirce, non è una “cosa”, con un'esistenza unitaria e circoscritta, ma è piú simile ad una “parola” [simbolo] visto che le sue molteplici istanziazioni [vedi voce INSTANZIAZIONE] possono esistere simultaneamente in diversi luoghi. |
user257478 | inviato il 22 Maggio 2024 ore 16:48
Scusami se mi intrometto , per capire meglio i tuoi post . Grazie |
user250123 | inviato il 22 Maggio 2024 ore 17:34
@Rocco Vitali Ma figurati. Va bene qualsiasi link d'approfondimento. Io cerco di rimanere il più stringato possibile tranne che nei passaggi che mi sembrano più complicati lasciando poi al lettore il gusto di andarsi a cercare anche la polpa, oltre l'osso. |
user250123 | inviato il 23 Maggio 2024 ore 5:22
INTRECCIO Il fatto che i pensieri viventi si estendano al di là di corpi "localizzati" e si dissolvano pone dei problemi specifici, fa sorgere delle domande: come fanno i sé ad estendersi e come fanno a dissolversi? e perché lo fanno? e dove e quando tali sé troveranno [futuro] finalmente la loro fine? Se ricordate ho anticipato qualcosina di tutto ciò nella voce FINITUDINE rispolverando il vecchissimo enigma della Sfinge ed provocando il nostro senso critico sul ruolo del bastone. E, in effetti, il modo in cui la vita si estende al di là dei corpi, intrecciando, per cosí dire, la seità con il fatto della finitudine, è un problema "generale" - una terzità - che ci accompagna dalla notte dei tempi. È un problema inerente alla vita stessa, un problema che si amplifica fino a comprendere l'altro tema conseguente: come la morte sia intrinseca alla vita. |
user250123 | inviato il 23 Maggio 2024 ore 5:47
SBADIGLIO Il già citato Terrence Deacon fa una serie di osservazioni interessanti sulle "qualità relazionali" della risata e del suo contrario, il pianto. Dice: "La risata, come il pianto e lo sbadiglio, è contagiosa. Provoca il riso negli altri e, cosí facendo, li salda in un sentimento condiviso, attraverso una sorta di iconismo". Peirce definiribbe ciò una "continuità di reazione". Ragionando in astratto possiamo captare un "qualcosa" che va da me a te trasformandosi e ritrasformandosi nel suo percorso da corpo a corpo. Purtroppo l'eccessivo simbolismo della lingua italiana non ci aiuta ma, prendendo a titolo d'esempio la lingua inglese, proviamo a figurarci un "him/her" che diventa un "it" per poi tornare ad essere un "him/her". La "frequenza" è la medesima, la terza persona singolare, ed il passaggio him>it>him [come rappresentazione] è "qualcosa" che possiamo sensibilmente cogliere per sbadigliare allegramente tutti "insieme". È importante riconoscere questo fatto: mentre "io" e "tu" siamo due "io" che si interfacciano relazionalmente in modo diretto, "lui" [vedi voce IO-TU e LUI] non solo è un pochino meno "persona" di noi ma può addirittura trasformarsi in un "IT", in una non-persona de facto, pur rimanendo "sintonizzato" sulla stessa frequenza pronominale. |
user250123 | inviato il 23 Maggio 2024 ore 6:40
ANIMISMO È inutile girarci intorno: i confini tra la vita e la morte non sono perfettamente chiari, tuttavia, ci sono dei momenti in cui, pragmaticamente, è necessario che lo siano - e non solo per i medici. Peirce sostiene l'esistenza di molteplici e simultanee "anime" dislocate in diversi luoghi. Lo può fare perché, alla base, c'è l'assunto che esse siano paragonabili [rappresentabili] come delle "qualità" e non come delle "scatole nere" innestate sottopelle. Ciò non toglie il fatto che siano queste stesse "qualità" a conferire - anche nella semiotica - la "coscienza di sé" e la conseguente capacità di entrare in risonanza ed in empatia con gli altri esseri. L'animismo pre-monoteistico [ex "primitivo", in disuso] , paradossalmente, aveva la capacità di "rappresentare" meglio questa condizione esistenziale. La cosa non ci deve stupire: tutte le religioni modernamente monoteistiche, al di fuori degli aspetti sociologici, sono evidenti costrutti iper-simbolici che non casualmente richiedono, per sostenersi, l'intevento della "fede" e cioè di qualcosa - in sé - che rinnega l'esistenza dei segni iconici e dei segni indicali nell'esperienza della vita. Concettualmente rimando, come link, alla voce VIOLENZA. |
user250123 | inviato il 23 Maggio 2024 ore 7:27
FANTASMI Dice: "Noi sappiamo che sono morti, ma loro pensano di essere ancora vivi". Un bel problema! Mi sembra di stare parlando dei fotografi! Il tema del "finalizzare la morte" [ennesimo richiamo all'ordine, geometrico, che la vita si e ci impone] ha prodotto infinite rappresentazioni [terzità] e quella più nota a livello popolare, nonché "generale", è probabilmente quella dei fantasmi. Da una parte le spoglie mortali dell'estinto che finiscono sottoterra, dall'altra l'anima che se ne svolazza in cielo, e del fantasma [him>it] che cosa ne facciamo? E se poi al fantasma gli venisse la fregola di ritrasformarsi [it>him] e farci sbadigliare? Come relazionarsi con un genere di "essere" che ancora transita sulle nostre frequenze e che è meno che morto, ma privo di anima, insomma una non-persona? Il modo più facile è convincersi che non esiste: i fantasmi? Ma non esistono! L'altro è inventarsi tutta una serie di riti, dallo sciamanico alla messa cantata, affinché il fantasma stesso "trovi pace" e si tolga, benevolmente, dalle scatole. On/Off. E poi c'è la semiotica con i suoi segni, ed allora - finalmente - la cosa diventa interessante e parliamo di "desoggettivazione". |
| inviato il 23 Maggio 2024 ore 13:15
Scopro ora questo thread che tornerò a leggere più volte con interesse. Apprezzo la scelta di proporre temi, ognuno dei quali aperto ad approfondimenti e riflessioni, invece di presentare una pappa già cucinata e digerita. Sebbene la selezione stessa dei lemmi e la loro trattazione forniscano indizi sul tuo punto di vista, o almeno sul tuo approccio speculativo, mi piacerebbe sapere qualcosa in più riguardo al percorso del tuo pensiero e alle ragioni che ti motivano a condividerlo (cosa di cui ti ringrazio). L'auspicio è quello di offrire ispirazione in una modalità a senso unico, o di stimolare discussioni da intraprendersi su queste pagine? |
user250123 | inviato il 23 Maggio 2024 ore 19:29
Buonasera Pitch, la scelta - un poco nietzschiana - di proporre brevi paragrafi intestati anziché copiosi excursus deriva da miei precedenti esperimenti in questo forum. In passato avevo tentato di aprire topic nei quali - più che le mie opinioni - descrivevo percorsi d'indagine rifacendomi a diverse discipline ed autori ma, vuoi per colpa mia, vuoi perché un forum non si legge come un libro, alla mia prolissità (che costa fatica, quando si voglia essere esaustivi) non mi sembra sia corrisposto un risultato adeguato. Allora, per gioco mi son detto: altro argomento, altro metodo. Sul secondo punto: più passa il tempo più la fotografia - divenuta "digitale" nonché "computazionale" - mi affascina più per i suoi contorni indefiniti ed il suo potenziale che per il suo contenuto. Negli ultimi anni ho cercato di leggere qualsiasi posizione accademica sull'argomento della s-materializzazione [digitale] del mondo: dai metafisici "catastrofisti" a quelli "indifferenti" a quelli "entusiasti" e la mia opinione, ben poco originale, è che tutto ciò che possa portar acqua al mulino della conoscenza meriti di essere almeno saputo, prima di azzardare un "secondo me" aprioritaristico. Voglio dire: concediamoci il tempo necessario affinché il nuovo "gusto" emergente si manifesti, si evolva, e piuttosto che correre a dire subito "mi piace/non mi piace" o "mi interessa/non mi riguarda” focalizziamo meglio che cos'è che sta davvero accadendo, perché a me sembra del tutto evidente che non sia semplicemente cambiato il supporto sensibile, nella traslazione analogico-digitale. La s-materializzazione è un fenomeno “epocale” a prescindere - del tutto a prescindere - dalla fotografia anche se, l'immagine nel senso più lato possibile, effettivamente ne risulta travolta. Oggi abbiamo nuovi “medium” con cui relazionarci, altri ne stanno arrivando e come è normale alcuni, invece, pian piano spariranno e con essi anche un “sapere”. Per concludere, in questa sede, vado a braccio per quanto concerne l'esposizione ed un poco mi organizzo mentalmente dei collegamenti tra diversi autori, cosa che del resto faccio anche per mestiere, nel magico mondo della Sanità italiana quando si tratta di decidere quale delle tanti possibili strategie adottare dinnanzi ad una dipendenza oppure qualsiasi altro tipo di “problema”. L'auspicio è solo quello di essere utile, anche solo ad uno, mentre pian piano mi chiarisco le idee pure io e focalizzo meglio la questione dei “segni” nella fotografia digitale. Naturalmente c'è spazio d'intervento e di discussione per chiunque voglia partecipare. |
user250123 | inviato il 23 Maggio 2024 ore 23:18
THINGLIKE TOOLS In italiano sarebbe: "strumenti affini ad una cosa". Un primo esempio: il cane da caccia, che per tutta la settimana si prende le coccole e gioca in giardino con i bambini è un sé di un certo tipo e si relaziona agli altri sé della famiglia in "accordo" a certe modalità condivise: da lui non si pretende nulla di particolare e si vive insieme spensieratamente. Ma, quando arriva l'alba della domenica mattina e questo cane va con il suo padrone a caccia di fagiani ecco che, il medesimo cane-sé, diventa un sé-strumento. Non è che il sé-cane sia morto - o uscito dal suo locus - ma, in qualche modo "rilevante" per il cacciatore e la caccia stessa, si è desoggettivizzato in una "cosa", una estensione del sé-cane di tutti gli altri giorni. Un secondo esempio, meno evidente: quando ci troviamo nella condizione di dover attirare l'attenzione di qualcuno in particolare senza che gli altri se ne accorgano. In questo caso, ad esempio, tentiamo di "urlare" senza fare troppo rumore, magari allungando le parole ma senza aumentare il volume della voce: la tensione nella gola assorbe il volume del suono senza diminuire l'urgenza del messaggio che vogliamo fare arrivare. Anche in questo caso il nostro sé modifica la sua agentività "generale" rispetto all'ambiente circostante e noi ci trasformiamo, per un momento, in una "cosa", in uno strumento che ha il solo scopo di allertare qualcuno in particolare ma non tutti gli altri. |
user250123 | inviato il 23 Maggio 2024 ore 23:47
ON [francese] È il turno della lingua francese che ha questa bellissima cosa di avere due pronomi per indicare il "noi". C'è il normale "noi" [nous] che è un plurale "naturale" ma c'è anche un secondo "noi" [on] posizionato alla terza persona del singolare laddove gli inglesi invece hanno solo l'impersonale "it" e noi italiani non abbiamo nessuno dei due. Il "noi" [on] singolare ha vari impieghi nella lingua francese ma io lo utilizzo esclusivamente come pretesto rappresentativo e quindi in modo extra-linguistico. Il punto è questo: quando un sé si trasforma in un "thinglike-tool" - via desoggettivazione - lo fa sempre "a favore" di un altro sé che assurge al ruolo di sé-primario. Ma non solo: il sé-oggetto ed il sé-primario in qualche misura si saldano in una "continuità di reazione" e questo genera, a sua volta, un sé-emergente. Infatti, una tale “continuità dell'essere”, come dice Peirce, crea “una sorta di persona ancorché non compatta, che tiene sotto certi rispetti un rango piú elevato della persona di un organismo individuale”. Questo sé-emergente "unitario" non ha alcun bisogno di essere "equamente" distribuito, non è il "noi" plurale e democratico che tutti conosciamo ma è più simile a quel "noi" [on] singolare che usano i francesi in certe circostanze. E tutto questo gioco del farsi-strumento e riemergere come un noi-singolare è reso possibile, per l'appunto, dalla desoggettivazione. E... quando "non ci accorgiamo di nulla"? Siamo fuori dal "noi" in ogni senso, sia plurale che singolare-strumentale, cioè siamo fissità - oggetti. Provocazione: nelle mani di chi? |
user250123 | inviato il 24 Maggio 2024 ore 22:09
CECITÀ Mi chiedo se avete tentato di dare una risposta all'ultima domanda. "Non accorgersi di nulla" è pericoloso: perdere la capacità [possibilità] di riconoscere la seità negli Altri può essere persino disastroso se l'Altro è un trans-specie e cioè una specie di seità diversa dalla nostra. I sé devono riconoscere la "materia d'anima" [soul-stuff, in inglese] degli altri sé per poter interagire con loro. Detto altrimenti, per rimanere dei sé all'interno di un'ecologia, tutti i sé devono riconoscere la "materia d'anima" degli altri sé dotati di anima che abitano il mondo [come rappresentazione] . Allora, ritornando a figurarci quella condizione nella quale "non ci accorgiamo di nulla" possiamo rappresentarcela come una condizione di "cecità dell'anima" che ci taglia fuori dall'ecologia che ci circonda. Poiché la semiotica, come abbiamo visto, estende la seità molto oltre i confini abitudinariamente simbolico-umani possiamo anche affermare che questa cecità non sia solo un problema che riguarda noi "uomini" ma che riguarda tutto il cosmo. Nel nostro sistema di cose, quindi, la "cecità dell'anima" è caratterizzata da uno stato di solipsismo che spinge all'isolamento, nell'incapacità di vedere al di là di se stessi o del proprio "genere" [specie] . |
user250123 | inviato il 24 Maggio 2024 ore 22:56
PREDAZIONE Per riuscire a districarsi in un mondo ecologicamente abitato da esseri trans-specie e dotati di volontà è necessario aver nozione delle motivazioni altrui. Le nostre esistenze stesse dipendono dalle capacità di credere e di agire in base a delle "congetture" provvisorie che formuliamo sulle motivazioni degli altri. Pensare di poterlo fare in condizione di "cecità dell'anima" è palesemente controproducente e ci mette costantemente in pericolo. Ma non è solo questo il punto: un'ecologia cosmica nella quale tutti i sé siano perfettamente, costantemente, immancabilmente "presenti a sé stessi ed agli altri" [vigili] sarebbe un cosmo intrappolato dalla "non-crescita": un abito "fissato" nel quale nessun-sé, per cosi dire, fa la prima mossa in quanto nessun-altro-sé si "distrae" rendendosi temporaneamente cieco. Chiaro? Se vogliamo la vita, e se accettiamo la prospettiva dinamica che essa sott'intende, non possiamo fare altro che parlare di "predazione", senza però dare a questo termine alcuna connotazione di carattere etico. Una volta riconosciuta la "personitudine" [seità] dei mammiferi, ad esempio, corriamo sempre il pericolo di confondere la caccia con la guerra e la “commensalità” con il cannibalismo. La "predazione" tra i sé mette in risalto le difficoltà che emergono quando i sé diventano "oggetti" o quando trattano gli altri sé come degli oggetti all'interno di un'ecologia di sé trans-specie. Ma ciò non è il "male" come il "bene" non può essere l'ingessamento con tendenza all'infinito, la non-vita e l'impossibilità a qualsiasi sua rappresentazione. |
user250123 | inviato il 24 Maggio 2024 ore 23:46
MANGIARE Cucinare ha uno scopo prevalente che è quello del successivo mangiare e "mangiare" - come concetto - è qualcosa di simbolicamente potentissimo. Esistono infiniti approcci al tema ma io, qui, sfrutterò il più antico che è quello antropologico. Per l'antropologia ci sono due modi fondamentali di mangiare: o lo si fa "in comunione" con ciò che si mangia [la pietanza] oppure lo si fa "in comunione" tra chi mangia [i commensali] . Nell'antichità il primo metodo equivaleva, ad esempio, al mangiare l'organo crudo di una specifica preda per "assorbirne" specifiche qualità. Il secondo metodo è la classica grigliata in giardino della domenica, ieri come oggi. Però attenzione: solo nel secondo metodo ciò che viene mangiato è trasformato in "oggetto" e solo il cucinare per gli amici è un processo di desoggettivazione "totale", senza ritorni per la preda [him>it] . Nel primo metodo, viceversa, quando "la comunione" è con ciò che si mangia, viene preservata parte della seità della "preda" che infatti "trasmette" qualità specifiche [thinglike tool] ad un sé-primario che si estende oltre se stesso pur rimanendo singolare [on] . Ergo: nella nostra ecologia chi conta in quanto "io" o in quanto "tu", e chi diventa questo o quello, è relativo e può cambiare a seconda dei casi. Essere predatore ed essere preda dipendono dal contesto ed i rovesciamenti di condizione sono possibili. In semiotica: il "genere" di essere che si diventa è il prodotto di come si vedono gli altri generi di esseri e di come si viene visti da loro. E questo a Cupertino, o altrove, mentre "cucinano" i file immagine lo sanno benissimo [vedi voce PRODUZIONE e PSICADELICA] . |
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