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Il vulcano addormentato e il cielo che si risveglia: la mia corsa alle prime luci del giorno tra le rocce carbonatiche e il silenzio delle vette
Aspettavo da tempo, forse da una vita intera, il momento perfetto per scattare questa fotografia che nella mia mente prendeva forma da mesi. Ogni volta che immaginavo quell'istante, vedevo davanti a me una scena precisa: il vulcano, il Sole nascente, le montagne, e io, piccolo osservatore privilegiato, pronto a dare la mia interpretazione personale a uno spettacolo che non appartiene a nessuno e allo stesso tempo appartiene a chi sa fermarsi a guardarlo. Questa idea mi accompagnava ogni volta che alzavo lo sguardo verso le Madonie, come un richiamo silenzioso che non potevo ignorare.
Così, quando finalmente la giornata sembrava quella giusta, mi sono alzato alle cinque del mattino, con gli occhi ancora pesanti ma con l'animo leggero, pieno di una strana euforia. Ho lasciato il calore della casa e mi sono incamminato nel buio della notte, diretto verso le vette alte delle Madonie, intorno ai 1700 metri. La notte era così fitta da sembrare infinita, e il silenzio così assoluto da poter quasi ascoltare i miei pensieri mentre la strada scorreva sotto i miei passi.
Quando sono arrivato lassù, la temperatura era pungente. Le rocce carbonatiche, che durante il giorno appaiono grigie e massicce, al buio sembravano giganti immobili, quasi intimidatori. Mi sono mosso tra loro con energia, scattando, correndo, fermandomi per cambiare punto di vista, come se stessi partecipando a una danza con la montagna stessa. L'aria gelida entrava nei polmoni come una lama, ma invece di farmi indietreggiare mi dava una sensazione incredibile di vitalità, come se ogni molecola d'ossigeno portasse con sé un risveglio interiore.
Poi, lentamente, qualcosa ha iniziato a cambiare. Una linea di luce si è affacciata all'orizzonte, un respiro caldo che cercava di fendere la notte. Ed è stato allora che ho visto l'Etna, immobile e gigantesco, ancora completamente nero. Non era una semplice silhouette: era un'ombra densa, assoluta, che sembrava trattenere il suo colore nel buio, perché la luce del Sole non era ancora riuscita a toccarlo. Quel nero aveva una potenza incredibile: era la forma del vulcano prima che il giorno lo rivelasse, come un gigante addormentato in attesa della sua scena.
E proprio lì, davanti a quella massa scura, ho notato ancora una volta quanto fosse piccolo il Sole, almeno in apparenza. Un punto luminoso quasi insignificante rispetto all'immensità del vulcano. Ed è strano pensarlo, perché il Sole con il suo diametro di circa 1,4 milioni di chilometri è ciò che rende possibile ogni vita sulla Terra. Eppure, in quel preciso istante, la sua grandezza sembrava ridursi a un disco fragile che tentava timidamente di emergere dietro le nuvole.
Mi piace pensare che fosse proprio l'Etna, con la sua storia millenaria e il suo respiro profondo, ad avere in quel momento una sorta di “calore proprio”, un'energia nascosta che sfidava il cielo ancora addormentato. Intanto le nuvole, sospese come veli sottili, iniziavano a tingersi di rosso, come se qualcuno stesse passando un pennello intriso di fuoco lungo l'orizzonte. Il contrasto tra il nero profondo del vulcano e i colori vivi del cielo creava una scena quasi irreale, un quadro naturale in cui ogni elemento occupava esattamente il posto che doveva avere.
Era l'alba. L'alba di un nuovo giorno. Un giorno che, come tutti, porta con sé una promessa mutevole: quella di essere vissuto, sentito, respirato fino in fondo. In quel momento ho capito che la fotografia che stavo per scattare non sarebbe stata solo un'immagine, ma un ricordo di ciò che avevo provato: la corsa nel buio, il freddo pungente, la solennità del vulcano, il Sole che cercava spazio tra le nuvole, e io, lì, ad assistere a uno spettacolo antico come il mondo ma ogni volta unico.
E l'ho vissuto come fosse l'ultimo giorno, con la gratitudine profonda di chi sa che attimi così non si ripetono mai nello stesso modo.
Matteo Orlando Fotografo Naturalista Divulgatore
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