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Laura, 31 anni. Ostetrica e cagacazzi.
Ore 2:30. Le lunghe braccia della notte circondano il crocevia dell'Asia Centrale. Tutto è immobile. Persino la polvere si cristallizza sui filati dei tappeti persiani. All'improvviso, un suono. La radio gracchia “Falcon 27, this is Falcon 29, over. Go ahead. Please come in delivery room, over and out”. Laura sobbalza, nervosa, apre gli occhi e il blu dell'iride invade la stanza appesantita dall'immobilità. Riconosce la voce di Anita, la sua collega preferita. E in quel momento, proprio quando le sue sinapsi portano quella voce nel lobo cerebrale dell'Insula, deputato alle emozioni, i suoi occhi si schiariscono. Diventano azzurri. Perché Laura è felice. È felice di fare il lavoro per cui è nata, il lavoro in cui sa di essere valente, il lavoro che la fa sentire a casa. E, in quel momento, casa è Anabah.
Laura ha lasciato Farida da solo un'ora, per rifiatare da un parto che si potrae da ormai 18 ore. Sostituita da una collega locale. Ma tra poco si vedrà la testa. Farida è dilatata circa 9 centimetri, quasi il massimo. Laura afferma “Ci siamo”. Laura è stata ostetrica nel centro di Maternità di Anabah, di Emergency. Lei sa cosa fare, sa quando dire 'Zurku' (spingi, in farsi)” e quando dire 'Nafasbighi' (respira, in farsi)”. Farida è stanca, quasi demotivata. Ma la bambina sta bene, Laura incita Farida, le concede un po' di riposo. “Ti assicuro che è una femmina. Le femmine sono più forti. E per sopravvivere in questo posto, bisogna essere forti”, dice Laura. Ora Laura è tornata nella sua seconda casa, l'Emilia. E si presta a quest'intervista, con la riservatezza tipica di chi annuncia ai propri genitori che parte per l'Afghanistan “per andare a fare il mio lavoro”. Io la chiamo Kabul, per sfotterla un poco. E per metterla a suo agio. Per fortuna funziona, e riusciamo a immergerci in un'atmosfera che ha l'accento farsi e i colori degli arazzi afghani.
- Laura, quando hai scelto di fare l'ostetrica? - “Beh, possiamo dire che è stata Ostetricia a scegliere me. All'inizio volevo fare medicina. Sapevo che volevo fare qualcosa del genere perché sono cresciuta in quest'ambito. Da bambina per me andare in ospedale a trovare il papà era un regalo, mi piaceva l'odore dell'ospedale. Da più grande lo accompagnavo nelle visite domiciliari, lo accompagnavo quando faceva l'ambulatorio della medicina sportiva dove io avevo il compito di chiedere a tutti gli sportivi se fossero daltonici. Pensa, gli facevo il test con il timbro chiedendogli se lo vedessero arancione o grigio. Poi, quando non ho passato il test di medicina, è stato proprio mio papà a incitarmi e dirmi 'bene, ora vai a fare quello per ostetricia' perché io ci ero rimasta proprio male, non ci volevo andare. Poi mi sono resa conto che è quello che avrei sempre voluto fare, solo che non lo sapevo. Sempre da piccolina speravo, quando vedevo una donna gravida, che partorisse in quel momento, non so cosa mi immaginassi potessi io fare in quel momento ma speravo partorisse. È vero, è nata un po' così, casualmente, ma in realtà è sempre stata la mia strada. Guarda caso, quando le cose sono sempre andate lisce è quando ho cominciato Ostetricia.”
- Ma qual è il ricordo più bello che hai di questa tua carriera? - “Dirò una banalità, ma sicuramente il primo parto. Oggi, a distanza di 8 anni me lo ricordo ancora. Durante il primo anno di ostetricia ho scelto di fare tirocinio in un periodo in cui tutte le altre studentesse erano via. Agosto. Quindi mi sono ritrovato catapultata in sala parto a fare mille cose, a vedere i primi parti. Il primo me lo ricordo, era una signora marocchina che aveva fatto partorire Omar. Mi ricordo che avevo paura di svenire, perché molte mie colleghe mi avevano raccontato che erano svenute. Invece mi si era appannata tutta la visiera, sudavo dall'emozione e mi ero commossa al parto. Tanto che l'ostetrica anziana esclamò 'Guarda, che bello vedere che alcuno ancora si emoziona'. Me ricordo tanti altri momenti, di quell'agosto che è sembrato lunghissimo.”
- Hai tanta autocritica, e questo è un segno di forza. Ma ci sono stati dei momenti che hanno minato questa forza? - “Beh, si. Tutti li abbiamo. Mi ricordo un episodio spiacevole. Avevo assistito, da tirocinante, una signora che aveva partorito un neonatino con la Trisomia 21. Non nota. Mentre la stavo suturando è arrivata l'ostetrica titolare e mi ha fatto vedere un bigliettino con scritto Trisomia 21 e fatto cenno di non dirlo, perché poi la notizia l'avrebbe comunicata il Pediatra la mattina dopo. Per cui io dovevo fare finta di niente. La mattina dopo sono andata a trovarla, ricordo che mi ha subito chiesto perché non le avessi detto niente, e io sono stata male. Ho pianto tantissimo, mi sembrava veramente di aver tradito la sua fiducia. Da quell'episodio ho imparato molto. Poi ci sono stati molti episodi che mi hanno fatto riflettere, specie in Afghanistan. Lì non riesci mai a capire alcune situazioni, ti sembra di vivere tutta l'impotenza possibile, ti viene proprio da dire 'ma serve?'. Ti chiedi quanto giochi la gestione clinica, quanto la storia pregressa di queste donne, quanto conti il doverle incontrare solo a fine gravidanza. Ti chiedi se sarebbe cambiato qualcosa se lei fosse arrivata prima. Insomma ci sono veramente tante situazioni che ti fanno pensare.”
- Tu sei una molla, sei sempre in giro, sempre carica a fare cose, a vivere. Ma qual è la molla che ti ha spinto in Afghanistan? - “Anche qui, è venuta da sé, per me è stato un passo naturale. Io ho scelto una professione sanitaria che mi permettesse di fare questo genere di esperienze. Quando ho finito di studiare, prima di laurearmi, sono andata in Sierra Leone a fare volontariato come allieva ostetrica e ricordo che quel periodo mi mise a posto tantissimo. Tu vai li con la pretesa di insegnare o di imparare, ma in realtà ti trovi davanti un mondo inaspettato e completamente diverso, una realtà completamente diversa, dove tutto il tempo lo passi a capire. e capisci che non ci sei solo tu a questo mondo E allora impari a pensare in altro modo. E lì ho capito che erano situazioni in cui mi sarei voluta trovare. Da laureata non mi sentivo ancora pronta per una missione strutturata, con un obiettivo. Per cui mi sono impegnata a maturare esperienza e ho frequentato corsi che mi servissero, oltre a quello che imparavo al lavoro. Sapevo che sarei voluta andare in un posto con un progetto, con degli obiettivi da ottenere e delle persone da formare. E poi è arrivato il centro di Maternità ad Anabah. Nel 2016-2017 e nel 2019-2020”.
- Hai fatto due missioni in questo centro, qual è la differenza più grande che hai notato? - “Intanto la cosa che io racconto sempre è un'immagine. È la seconda missione: ricordo proprio il momento in cui ho appoggiato la valigia sul pavimento con le piastrelle allucinogene che ci sono in casa, sono tipo bianche e nere e se le guardi troppo ti danno fastidio agli occhi. Ho pensato che ero tornata a casa. Mi sembrava di non essere mai andata via. La prima volta sei attenta ai più piccoli dettagli, tutto ti preoccupa, dal sopravvivere al solo scendere a colazione con persone che non conosci. La seconda missione è più tranquilla, alcuni dettagli li conosci già. Ricordo che all'inizio avevo timore di rispondere alla radio, perché non si capisce niente, ti sembra di non capire nulla e comunque va utilizzata secondo un codice da rispettare. Ecco, quando fai la seconda missione queste cose non ti impensieriscono perché le conosci. È stato bello vedere lo stupore delle ostetriche locali: loro vedono il ricambio semestrale delle ostetriche internazionali, ostetriche che promettono di tornare, ma è difficile farlo in tempi brevi. Vedere la loro faccia quando prima dici 'tornerò' e poi lo fai davvero, è stato veramente intenso. Nella seconda missione mi ero data come obiettivo la lingua, il farsi. Le locali non conoscono l'inglese, per cui era diventata una sfida per me, nella seconda missione, imparare più possibile il farsi! Per comunicare direttamente con loro. Per me questo è sintomo di quanto ti piaccia quella cosa. Io a fine missione capivo le donne cosa si dicevano tra di loro, mi faceva sentire parte di loro, vivevo tutta l'esperienza nella sua interezza. Un pochettino più dall'interno. È anche un modo per dimostrare che hai veramente voglia di stare con loro, di aiutarle, di stabilire un vero legame” - Ma ci sono stati dei momenti in cui hai avuto paura? - “Penso che avere paura sia naturale, sia giusto. C'è quella sana paura che ti permette di essere vigile, di tenerti sempre sul chi-va-là e di dare il meglio, ti tiene attiva e con le antenne alzate. Ti porta a migliorare, focalizzata sul punto. Secondo me chi dice che fa l'Ostetrica e non ha paura, ha perso. Perché noi siamo nel 2020 ma di questi bambini che nascono sappiamo praticamente nulla. Cioè sappiamo sempre di più, ma è solo una infinitesima parte della loro vita in utero. E c'è da avere paura, perché ci sono situazioni che non puoi controllare, che sono improvvise e fanno paura. Ma la paura puoi convertirla in azioni, azioni fatte bene, con una logica. Si ho avuto paura quando ero via, pur essendo in un posto molto tranquillo. Mi ricordo che di notte andavamo al presidio, e incontravamo persone armate con il mitra che sorvegliavano. Tu dici 'vabbè non mi fanno niente' e lo sai, ma intanto le incontri. Poi la paura riesci a trasformarla in sentimenti positivi, in adrenalina, in voglia di fare.”
- Castigliani, quanto ne abbiamo oggi? - “30 giugno 2020” - Bene, dov'è la Castigliani il 30 giugno 2030? - “Non lo so, sono molto combattuta dove sarò. Faccio fatica a vedermi. Probabilmente sarò ancora qui, e starò lavorando in ospedale. Spero di aver fatto qualcosa di buono e di concreto. Mi piace pensare che avrò un piede in ospedale e un piede in una missione, dove contribuirò alla formazione e all'organizzazione. Comunque con un piede da un'altra parte.”
- Ma quanto ci hai messo ad accettare che l'ostetrica ha anche un forte valore psicologico? - “Forse l'ho sempre saputo, non lo so. È una cosa che avevo sempre immaginato, e ne ho avuto conferme lavorando. Mi sono resa conto di come il travaglio sia una fotografia della vita, di quel momento di quella donna. Come se tu, entrando ad aiutare nel travaglio, potessi sbirciare dalla serratura la vita di quella donna, di quel compagno, di quel figlio. Riesci a vedere la donna in un momento della sua storia personale, un momento di fragilità, vedi se ha degli strumenti che sta tirando fuori o se non ce li ha proprio, se è una donna solida, se è in difficoltà o se ha semplicemente bisogno di qualcuno al suo fianco che la sorregga e le offra una spalla per recuperare le sue capacità e metterle in pratica. L'ostetrica ha il privilegio di vedere una fotografia, una radiografia di tutta la coppia, della triade, in un momento che non vedrà nessun altro mai più” - E tu non hai mai provato invidia? - “Ho provato la sensazione di dire 'un domani questo lo voglio anche io', voglio essere esattamente dentro questo, questo momento di felicità, di soddisfazione, voglio questo sguardo, questa chimica, questa armonia, questa energia. A volte è capitato che mi sia commossa, magari perché mi ero particolarmente legata a delle coppie.”
- Cosa vuol dire, venendo da Anabah, Prendersi Cura? - “Sai, più ho letto le interviste passate più mi sembrava che fosse già stato detto tutto. Grazie eh, che mi lasci alla fine quando è più difficile. Sai, noi siamo ostetriche e a me fa strano parlare di paziente, parlare di dolore. Perchè il dolore si, c'è. Ma ha una valenza, una finalità diversa, mi viene da dire positiva. Tutti sgranano gli occhi quando lo dico, ma quel tipo di dolore lì è positivo perché ti porta a incontrare tuo figlio. Per cui, secondo me, prendersi cura è farsi carico, accogliere quello che quella persona sta vivendo in quel momento. Ma non farlo come se dovesse essere il tuo, ma come quello della persona a te più cara che vuoi supportare, non sostituire. È trovare un modo per esserci, per aiutarle, io dico sempre alle mamme che assistere loro è come andare lì e prendere quel peso, quel carico che hanno appoggiato sulle spalle e sollevarlo, sollevare la mamma e la coppia da quel dolore, da quelle preoccupazioni, da quella difficoltà che non la fanno concentrare sul momento. È aiutarle a trovare le energie per far partorire la bambina, per fare affrontare questo parto, questo aborto, questo intervento. Ecco, è anche un po' accogliere quella persona, sollevarla da qualcosa, farsi carico ma in maniera positiva, fare da catalizzatore del loro momento. È anche immedesimarsi con loro, essere sulla stessa lunghezza d'onda per capire cosa fare in quel momento, senza invadere un loro momento magico, unico e irripetibile.”
Indovinate di che colore erano gli occhi di Laura, mentre mi raccontava? Esatto, Azzurro Limpido.
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Commento questa foto, ma in realtà voglio commentare l'intero progetto. Bello documentare i volti dei professionisti che lavorano in un campo così delicato, quale quello della salute. Quando ci capita di averne bisogno, tipicamente in ambiente pubblico, diamo per scontato che gli competa di guarirci per il meglio, in effetti è così. Giusto quindi ricordarci che, per farlo, hanno sacrificato tanto tempo e fatica per studiare, approfondire e faticare in modo competitivo per arrivare al risultato che hanno evidentemente tanto agognato. Bello il sorriso che li mostra orgogliosamente nel loro ruolo. Belle le didascalie ed i progetti sociali, spesso in luoghi scomodi del mondo, che fanno sempre tanto onore a chi li attua, facendo peraltro prendere merito all'intera nazione da cui provengono.