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Proseguendo di là per il Corso San Massimo s'arriva nella grande piazza ottagonale di Emanuele Filiberto. Ma per vederla in tutta la sua bellezza bisogna capitarvi una mattina di sabato, d'inverno, in pieno mercato. Uno Zola torinese potrebbe mettere lì la scena di un romanzo intitolato Il ventre di Torino. Sotto le vaste tettoie, fra lunghe file di baracche di mercanti di stoffe, di botteghini di chincaglierie e d'esposizioni di terraglie all'aria aperta, in mezzo a monti di frutta, di legumi e di pollame, a mucchi di ceste e di sacchi, tra il va e vieni delle carrette che portan via la neve, tra il fumo delle castagne arrosto e delle pere cotte, gira e s'agita confusamente una folla fitta di contadini, di servitori, di sguatteri, di serve imbacuccate negli scialli, di signore massaie, di ordinanze colla cesta al braccio, di facchini carichi, di donne del popolo e di monelli intirizziti, che fanno nera la piazza. Intorno ai banchi innumerevoli è un alternarsi affollato e continuo di offerte e di rifiuti, di discussioni a frasi secche e tronche, di voci di meraviglia e di sdegno, di apostofi e di sacrati, che si confondono tutti insieme in un mormorio sordo e diffuso, come d'una moltitudine malcontenta. Là bisogna andare per vedere le erbivendole famose, formidabili di tarchiatura, di pugni e di lingua, e per studiare la potenza insolente del vernacolo, la ferocia spietata dell'ingiuria plebea, il lazzo che schiaffeggia, il sarcasmo che leva la pelle, strazia la carne e incide le ossa... Passano delle signorine eleganti, dei grossi borghesi buongustai, dei cuochi tronfi e sprezzanti, delle cameriere padrone, dei 130 curiosi allegri, una folla continuamente cangiante, fra cui si fanno largo ogni specie di rivenditori ambulanti, vecchi decrepiti, bambine, mostricciattoli col botteghino al collo, che offrono un almanacco, un tartufo, due limoni, una catenella d'acciaio, un pezzo di tela, facendo un vocìo assordante, dominato dalla voce stentorea del venditore della Cronaca dei Tribu-nali e dalla cantilena funebre del sacrestano che scuote un bossolo domandando l'elemosina per le anime del Purgatorio. Per tutta la piazza è un affacendamento e un rimescolio rumoroso, un farsi e un disfarsi continuo di crocchi intorno a carrozze di cavadenti, a venditori di specifici, a strimpella-tori di violino, a banditori d'incanti, a ciarlatani cappelluti che raccontano storie di delitti, davanti a grandi quadri rosseggianti di sangue, a teatrini da burattini, rizzati in mezzo alla neve, a grandi fiammate di paglia, accese dai fruttaioli infreddoliti per sgranchirsi le membra...
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